Eus tu, viator…

di Linnio Accorroni

grossman_david1.jpgAppresa la notizia giorni fa ( la scomparsa di Uri, figlio ventunenne dello scrittore israeliano David Grossman, uno degli ultimi a morire fra i 117 soldati israeliani, vittime di questa guerra ancora più sporca ed assurda delle altre) ho sperato che, almeno per questa volta, ci fosse risparmiata l’infausta rappresentazione che viene approntata in occasioni di questo genere: la ridda di interviste, ricordi, memorie personali e private che, insopportabile corollario, sempre consegue ad eventi similari, la sfilata di immagini dal book fotografico di famiglia accompagnato da una stomachevole, iperdolciastra colonna sonora.

Come in un incubo paramediatico, vedevo già torme di giornalisti televisivi con microfono e cinepresa assediare casa Grossman e porre allo scrittore ed ai suoi familiari la domanda cult di queste occasioni: “ Che cosa ha provato quando l’ha saputo?” Niente di tutto questo, per fortuna. Ma giovedì 17 agosto su Repubblica è apparso il testo dell’orazione funebre che lo scrittore aveva pronunciato due giorni prima a Gerusalemme in occasione dei funerali del figlio:
Mio caro Uri, sono ormai tre giorni che quasi ogni pensiero comincia con “non”. Non verrà, non parleremo, non rideremo. Non ci sarà più questo ragazzo dallo sguardo ironico e dallo straordinario senso dell’umorismo. Non ci sarà il giovane uomo dalla saggezza molto più profonda di quella dei suoi anni, dal sorriso caloroso, dall’appetito sano. Non ci sarà quella rara combinazione di determinazione e delicatezza. Non ci saranno il suo buon senso e l’assennatezza del suo cuore. Non ci sarà l’infinita tenerezza di Uri e la tranquillità con cui placava ogni tempesta, non vedremo insieme i Simpsons o Seinfeld, non ascolteremo con te Johnny Cash e non sentiremo il tuo abbraccio forte e rassicurante. Non ti vedremo camminare e parlare con Yonatan (il fratello maggiore ndr) gesticolando con foga, abbracciare Ruti (la sorella più piccola ndr), a cui volevi tanto bene”. Sulla guerra assurda e ‘preventiva’ contro il Libano, che all’inizio lo stesso Grossman, insieme ad Oz ed a Yeoshua aveva appoggiato, lo scrittore dice poche cose, sfuggendo da ogni analisi di tipo strategico-militare e limitandosi ad un bilancio esclusivamente privato: “In questo momento non dico nulla della guerra in cui sei rimasto ucciso. Noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa. Israele ora si farà un esame di coscienza, noi ci chiuderemo nel nostro dolore, attorniati dai nostri buoni amici, circondati dall’amore immenso di tanta gente, che per la maggior parte non conosciamo, e che io ringrazio per l’illimitato sostegno. Vorrei che sapessimo dare gli uni agli altri questo amore e questa solidarietà anche in altri momenti. È forse questa la nostra risorsa nazionale più particolare. Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi” Una cosa che mi ha sempre colpito, leggendo le corrispondenze di Grossman dallo stato di Israele, è la particolare maniera con la quale rendicontava, con il suo stile inconfondibile ( 50% cervello, 40%cuore,10% captatio benevolentiae) le stragi compiute dai kamikaze palestinesi:dalla precisione autoptica con la quale refertava lo strazio dei corpi e l’orrore della scena, risaliva poi spesso alle storie individuali dei morti e feriti, spiegando, come in quel bellissimo romanzo di Thornton Wilder Il ponte di San Luis Rey, quanta parte giocasse il Caso in quelle vicende. Grossman non nascondeva mai però che, in occasioni siffatte, il primo, vero pensiero che gli saliva alla mente era frutto di una giustificabilissima debolezza che, in mancanza di termini più adatti, definisco biologico-antropologica: la conservazione della propria specie, del proprio genos, della propria famiglia, più che della Tribù d’Israele. Da qui le affannose, concitate telefonate a casa o ai cellulari dei figli, parenti, amici sperando che nessuno di essi fosse stato coinvolto da tanta efferatezza e traendone un egoistico sospiro di sollievo, nonostante l’orrore si fosse riversato sui propri conterranei. Adesso, purtroppo, è toccato a lui il destino più crudele e terribile, quello che cozza contro lo ius naturae, una specie di sgarbo biologico: la sventura di un padre che sopravvive al proprio figlio.

In un aureo libretto di Alessandro Fo intitolato “Il cieco e la luna”, uscito in condizioni semiclandestine nel 2003 per conto delle ‘Edizioni per gli amici’, il poeta e docente universitario, tra le tante chicche, ci fa conoscere anche la vicenda umana ed artistica di Enzo Mazza. Un tempo insegnante alle superiori, quando il suo primogenito Fabio, a 18 anni, perse la vita in un incidente stradale, cambiò radicalmente vita: abbandonò il lavoro, si ritirò con la famiglia in una casa colonica vicino a Chiusi ed investì gran parte del suo tempo a scrivere poesie, tutte ossessivamente incentrate sul ricordo del figlio scomparso. Ad indicare l’ inesauribile quantità di dolore da cui quotidianamente Mazza veniva sopraffatto, c’è una poesia che, rispetto alle altre, già disperate di per sé, aggiunge un surplus di strazio e pena. L’autore è tormentato dall’insonnia che lo costringe, notte dopo notte, a svegliarsi sempre più presto. Questa anticipazione del consueto alternarsi notte/ giorno, questo cammino a ritroso che quasi vanifica le barriere temporali lo porta a sperare che, continuando a retrocedere nel tempo, potrà aspirare a recuperare materialmente ‘il tempo perduto’ e ritornare a quando il figlio era ancora vivo, rivivere l’incanto delle semplici, banali cose dei giorni passati:“dalle ore antelucane, svegliandomi/ sempre più presto, sembra/ ch’io vada verso il cuore della notte./ così mesi, anni risalissi/ fino a ritrovarti addormentato/ e una spalla, una volta sola,/ ti toccassi per dirti/ che è l’ora di lavarsi, di vestirsi, / di raggiungere in autobus la scuola.”.

Le pietre, a differenza degli uomini, non sono loquaci. In un soprassalto antifrastico, leggendo la lunga, dolente orazione funebre di Grossman, mi è venuta in mente la secca concisione delle iscrizioni funerarie romane: gli anonimi incisori di queste epigrafi in poche parole, rivolgendosi direttamente al viator ( colui che passa, il viandante “Eus, tu, viator, veni hoc” Ehi, tu che passi, vieni qui), tratteggiano una parabola esistenziale in cui l’icasticità non deprime l’essenzialità. A differenza di ciò che capita per la pagina scritta, poichè sono scolpite su pietra o su bronzo, non passano attraverso defatiganti differenti stesure, né subiscono modifiche improprie ad opere di copisti disattenti o maldestri. Quella che Virgilio chiamava la ‘plurima mortis imago’ ( i molteplici aspetti della morte) ci vengono offerti nel bel libro curato da Lidia Storoni Mazzolani ( Bur, 1991) come in una rappresentazione teatrale in cui a ciascun attore viene concessa la possibilità di un solo, brevissimo ed irripetibile monologo. In una di queste lapidi l’anonimo defunto ammonisce così, dal bordo di una strada, il pellegrino : “Viandante, viandante: ciò che tu sei, lo fu anch’io; ciò che ora sono, lo sarai pure tu”.. C’è un’altra che sembra scritta per Uri Grossman, “ Avrei 22 anni, se il Fato lo avesse concesso, ma Dite mi gettò fiorente tra le ombre in un giorno crudele, segnato da iniqua sorte. Ahi, troppo presto rapito al padre, presto reso ai  fati, presto strappato alla madre, presto reso alle tenebre” Un altro è invece un edonista non pentito, una specie di Belushi antelitteram morto per ‘eccesso di tutto’, a gettare uno sguardo beffardo e cinico sulla vita e la morte: “Bagni, vino e Venere disfanno i nostri corpi. Ma bagni, vino e Venere fanno la vita”. C’è chi laconicamente distrugge ogni velleità illusiva o ipotesi metafisica( “È cio che vedi. È così. Non può essere altrimenti – Hoc est, sic est, aliut fieri non licet” – iscrizione su di un sarcofago) e chi fieramente, come Lucio Numerio Vittorino Marsico di guarnigione a Reggio, reitera il proprio orgoglioso rifiuto di trascendentalismi e spiritualità assortite: “Credo certe ne cras” ( sono certo che non c’è domani). Si sarebbe sicuramente ben inteso con Scaterio Celere che volle questa iscrizione. “ Non siamo nulla e fummo mortali. Tu che leggi, rifletti: dal nulla ripiombiamo rapidamente nel nulla”. Tragedie familiari: se da una parte, una madre scongiura : “Figlio mio, la madre ti supplica di prenderla con te”, un’altra epigrafe, che sormonta il luogo dove è deposto Giunio Fausto di anni 2 e che rimane in sospeso, ci lascia capire bene quanta verità fosse contenuta nella massima gidiana ( “Famiglie, io vi odio”): “ Alla madre mia empia e scellerata gli Dei Superi ed Inferi facciano scontare il fio per avermi…”. Un altro, un liberto, gode del fatto che, post vitam, non dovrà più combattere con le curae economiche che così pesantemente l’hanno condizionato in vita: “Qui riposano in pace le ossa: ciò che resta d’un uomo. Non mi angustia il pensiero di trovarmi improvvisamente alla fame, sono immune dalla podagra, né mi accadrà più d’esser garante d’un pagamento rateale. Usufruisco per sempre d’un alloggio gratuito”. Due, che sono morti precocemente, gioiscono per quella che comunemente è ritenuta la disgrazia massima: uno è Lucio Annio Ottavio Valeriano che pare liberatoriamente urlare dal sarcofago: “ Sono fuggito. Sono fuori. Speranza, Fortuna, vi saluto. Non ho più niente da spartire con voi. Prendetevi gioco di qualcun altro” e Claudia Toreuma, una liberta morta ad appena 19 anni, felice di essere sfuggita alla vecchiaia: “ non ancora donna, non ancora ventenne, la terra mi ricopre. Sono Toreuma, conosciuta in molti luoghi. Felicemente percorso il breve spazio dell’esistenza, ho scampato, lunga vecchiaia, i tuoi crimini”. Infine, quello che mi piacerebbe fosse scolpito sulla mia di lapide:. “ E tu, chiunque tu sia, sta’ sano. Non fui. Non sono. Non ne so nulla- Non mi riguarda.”.

 

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21 Commenti

  1. Trovo questo testo, già bello e importante di per sé, anche per l’intrinseca qualità della scrittura, ancora più profondo, proprio perché, rifuggendo intenzionalmente ogni facile retorica, spinge il lettore unicamente alla riflessione, quasi chiedesse un atto, una resa incondizionata, sia pure per breve tempo, a quel pensiero che, giorno dopo giorno, sempre più siamo tentati/costretti a relegare ai margini, perdendo così di vista ciò che nel profondo più ci appartiene: la coscienza della nostra ineluttabile, irripetibile finitudine.

    Complimenti all’autore e a chi l’ha giustamente presentato qui.

    p.s.

    Incredibilmente, riordinando giorni fa la mia biblioteca, avevo tirato fuori, tra gli altri, il libro della Storoni a cui si fa riferimento, insieme ad un altro suo, “Profili omerici”. Avevo iniziato a rileggere quest’ultimo, a partire dal ritratto di Cassandra…

    “…Non un fruscìo nella città immersa nel buio. Cassandra esce sola dal palazzo e si reca su le mura; scruta la pianura disseminata di rottami, di armi spezzate. Nessuno avverte ancora il fragore delle ruote; il carro è lontano, ma Cassandra lo percepisce e nell’incerto chiarore che sbianca il cielo a oriente discerne il padre accanto all’araldo. Mai le era sembrato così vecchio e stanco. Dietro di lui, steso sul carro, scorge il fratello morto e lancia un grido da aquila ferita che desta la città…”.

    C’è ancora qualcuno, oggi, capace di lanciare un grido che ridesti le città fortificate delle nostre coscienze assopite, immobili, assuefatte all’orrore?

    C’è ancora qualcuno capace di riflettere sul senso e sul monito contenuto in un “manibus date lilia plenis”, affinché quei gigli siano offerti in pasto alla morte per l’ultima volta?

  2. sono un appassionato di epigrafi ed iscrizioni varie, da quelle più nobili e antiche, come quelle funerarie romane, fino alle semplici scritte sui muri delle stazioni ferroviarie, al punto da auspicare la compilazione di un corpus inscriptionum latrinarum. amo molto quella lucreziana di lucio numerio vittorino marsico, e non dimentico quella deliberatamente anonima di cartagine, in cui una mano pietosa e familiare fece le veci del figlio scomparso prematuramente, scrivendo “nomen non dico nec quod vixerit annis. ne dolor in mentem cum legimus maneat”. a chi fosse di milano consiglio un bel libretto sul tema, s’intitola “gente di sasso”, ed è opera di antonio sartori. quella che dà il titolo a questo bel post di linnio è particolarmente interessante, perché svela la funzione precipua di tutti questi segni, siano essi antichi o recenti: una disperata richiesta di ascolto. altrove si parlava dello scabro e silente paul celan, che mi ha tenuto compagnia in queste ferie solitarie. ebbene, una delle sue citazioni preferite, rinvenuta in un volume che teneva sul comodino nel mese più crudele del 1970, era di malebranche, e diceva che “l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima”. ecco, a volte vorrei essere come boltanski, o il protagonista di “ogni cosa è illuminata”, e consacrare la mia vita alla raccolta di testimonianze e ricordi altrui. per tanti il critico letterario dovrebbe essere un giudice, stabilire sentenze inappellabili, di condanna o di assoluzione. non credo che sia o debba essere questo. e se anche fosse vero che i saggi e le recensioni sono un tribunale, io continuerò a pensare che ciò che è istitutore di valori è la fase dibattimentale, con le prove e le testimonianze, non il giudizio finale. in ogni caso, penso che ciò che c’è di più nobile in questa attività sia proprio il segnalare, al viator distratto, quanto merita di essere ascoltato. siamo così tanti a parlare, e sono così pochi quelli disposti a sentire, che anche solo dedicarsi a questo darebbe senso e spessore a un’esistenza. in valle d’aosta, il castello di issogne è una miniera di iscrizioni d’epoca. omar borettaz le ha trascritte per noi in un bel libro, e impressiona vedere come passano i secoli eppure i desideri, gli scherzi e i patemi restano sempre gli stessi. per esempio tale thoma di druenvaldtd, che sui muri della salle basse, nel 1577, scrive “per non monstrar ill moi duolore / tal volta rido che crepe ill cuore”. o quell’anonimo, che nel loggiato del secondo piano confidò che a volte “vorebe / senza parlar eser / inteso”. ecco, forse si scrive solo per questo, per essere compresi e visti per come siamo veramente, quasi avessimo da guadagnarci.

  3. “La lettura delle iscrizioni latine, funebri la più parte, attgentamente ricercate e tradotte da Lidia Storoni, è utile anche come piccolo antidoto attivo ai vapori velenosi che tanto più mortificano e oscurano la vita, quanto più soffocano le visioni e la realtà della morte. Una visione unica, totalitaria, della morte, come limite da rimuovere materialmente, malattia della specie, privazione di Mani, è odio della sapienza, servizio della morte”.

    G. Ceronetti, dall’Introduzione a “Iscrizioni funerarie di Roma antica”, a cura di L. Storoni Mazzolani, Torino, Einaudi, I Millenni, 1973.

    Il saggio contiene delle riflessioni notevoli, attualissime in certi passaggi.

    “Guardate la perfezione, l’infallibilità dei telegrammi di cordoglio dei capi, dei presidenti e dei papi. Sono la “macchina”, e nelle morti o la macchima o il vuoto, da tutti temuto più della morte. Esaminati con ira e studio sono ripugnanti e merdosi, ma la loro mancanza è un becchime negato a un pigolìo di fame. Il telegrafo è stato inventato dalla morte per far arrivare i cordogli altissimi in tutti gli angoli del disastro umano, in ogni eccidio fresco, in ogni cabina di nave appena affondata. C’è del profondo sotto quella superficie lercia, e come un ago nascosto fisso a un immutabile Nord. Mors vult.”

  4. A Paolo Volponi accadde una cosa altrettanto straziante, ma diversa, anzi inversa nei tempi.

    In “Corporale” (1974), il piccolo figlio del protagonista muore affogato per colpa di un manipolo di preti deboscati, e la descrizione del piccolo corpo su cui Gerolamo Aspri versa le proprie lacrime di rabbia e dolore è una pagina di indimenticabile forza visiva. Si può parlare di amore spinto fino alla paura, di presentimento o, se si preferisce, più ragionevolmente, di tragica fatalità, sta di fatto che quindici anni dopo l’uscita di quel romanzo il figlio di Volponi, che era nato nel 1962, avrebbe perso la vita in un incidente aereo. A Roberto Volponi dedicò dei versi Alda Merini, che traggo dal sito http://www.liberipensieri.it:

    Chiedimi qualche cosa che mi inganni, / la certezza che tu non sei mancato / agli eventi felici della terra, / o divo illustre che mi rinnovavi / e stringendomi forte nelle spalle / mi salvavi dal dubbio e dal veleno / di una vita che piano si disperde.

  5. Le iscrizioni funerarie sono quasi sempre il segno della speranza. Alla morte contrapponiamo la speranza. Delusioni e illusioni della vita si cancellano per divenire speranza.

    Nella lettura delle iscrizioni funerarie ho trovato molti dei nomi particolari e scomparsi che ho dato ai miei personaggi. Un modo per riportare il passato al presente.

    Bart

  6. In questo regno dell’effimero, come ap/pare la rete, come dicono che sia,
    mi ha dato grande soddisfazione e spunto di riflessione leggere questo testo che bada anche al mondo antico, al dolore, alla morte vista nella sua ineluttabilità e i commenti sono più che adeguati.
    Tra l’altro, qui, volgendosi al regno della morte,
    sono state tirate fuori, dissotterrate epigrafi e più dì un libro poco commerciale, quasi ad esorcizzare ( un poco) la falciatrice,
    come a significare:
    le epigrafi a volte rimangono
    e quelle parole ci dicono.

    Come dire:
    esattamente un anno fa moriva in Padova
    il nostro amico GinoTasca
    che lasciò, anche su NI, parecchi commenti,
    tra pochi mesi, però, uscirà il suo gran bel romanzo “Isaia Greco”

    MarioB.

  7. cato:
    anch’io possiedo quel bel volume della Storoni Mazzolani e mi pare che davvero ora meriterebbe una rilettura, soprattutto per la sua attenzione ai personaggi minori dell’epos omerico. La stessa, va ricordato, è anche la traduttrice ( medium?) delle ‘Memorie d’Adriano’ della Yourcenar.
    stefano zangrando:
    a conferma di quella che tu chiami la ‘tragica fatalità’: appena una settimana prima dell’incidente aereo nel quale perì il figlio di Volponi, ero sullo stesso aereo, stessa linea Avana_Roma, stessa euforia da vacanza ai Tropici.

    grazie a tutti per le belle parole

  8. Non credo sia stata una guerra sporca ed assurda. Forse finalmente ci saremo levati dalle …… hezbollah .
    E’ poco?

  9. Ah e poi dico senza la guerra mancherebbe gran parte della migliore letteratura mondiale.
    Bye!

  10. Narra un’antica leggenda che, di tanto in tanto, una gemma gettata in un letamaio, per chi sa quale concorso di terra e cielo, non va perduta, ma genera un fiore: il fiore della vergogna.
    Proviamo.

    *

    Verwaist im Gewittertrog
    die vier Ellen Erde,

    verschattet des himmlischen
    Schreibers Archiv,

    vermurt Michael,
    verschlickt Gabriel,

    vergoren im Steinblitz
    die Hebe.

    *

  11. Ma anche:

    DIE ABGEWRACKTEN TABUS,
    und die Grenzgängerei zwischen ihnen,
    weltennaß, auf
    Bedeutungsjagd, auf
    Bedeutungs-
    flucht.

    E’ una scrittura giusta, questa di Accorroni. Grazie

  12. bella ‘sta celanmania :-)
    i versi di cato (“i 4 cubiti di terra”) sono perfetti per questo post, mentre quelli di caracaterina si sposano benissimo con il thread nudista (“i tabù dismessi”). a voi esperti volevo chiedere un’informazione: sapete di qualche saggio che racconta più in dettaglio l’episodio della pasqua ’70, quando celan andò a colmar con gerhart baumann a vedere il cristo arboreo di matthias grünewald?

  13. o Garufi, cos’è il Cristo arboreo di Grunewald?
    E’ forse l’altare di Isenheim?
    Dove il Cristo è inchiodato a due pali scortecciati?
    Non so.
    Siccome amo Grunewald alla follia di cristi arborei non ne sapevo.
    Sono molto curioso di questo episodio.
    MarioB.

  14. @ Sergio Garufi

    Ho alcuni testi su Celan, ma sono essenzialmente studi sulla sua opera. Solo Gerhart Baumann, forse, potrebbe soddisfare la tua curiosità (che intriga anche me): si potrebbe provare a dare un’occhiata al suo “Erinnerungen an Paul Celan”, pubblicato da Suhrkamp nel 1992, che sicuramente riporta l’episodio da te ricordato. Magari qualche lettore indiano ce l’ha.

    p.s.

    Il testo che ho postato è non solo in tema con lo scritto di Accorroni, che ringrazio anche per il suo intervento, ma soprattutto un tentativo di difesa contro l’opprimente, miserabile idiozia che ci circonda, in rete e fuori: idiozia di cui anche in questo thread hai un paio di esempi lampanti.

  15. Ciao Mario, il “cristo arboreo” è proprio quello di Isenheim, legnoso e scorticato come un tronco secco che ancora stilla resina. Il dettaglio dei piedi inchiodati è quello che più mi impressiona. Mi sarebbe piaciuto approfondire l’episodio di lui commosso e turbato dopo averlo visto, oltretutto a pochi giorni dalla sua fine, ma temo che, come spiega Cato, se ne parli solo in testi tedeschi, e io non so il tedesco.

  16. Quei piedi di Cristo così deformi, stravolti verso il basso, come da una artrite deformante, più che dalla morte, e stillanti sangue rappreso da tanti fori, ferite sono cosa dolorosissima.
    In uno dei più bei dipinti dell’arte europea.
    Poi uno si va a vedere il Cristo morto di Holbein e si è fatto una bella terapia sulla natura umana.
    MarioB.

  17. Sergio, se riesco a recuperare il libro di Baumann ti faccio sicuramente sapere. Conoscere qualcosa in più sull’episodio, ora, è anche una mia curiosità che devo soddisfare.

    Saluti.

  18. Mia figlia diciassettenne ha lasciato grossi fori sul mio giornale, giorno di guerra dopo giorno di guerra, e dietro mia richiesta di spiegazioni sul motivo di tale scempio, mi sono sentita rispondere che quale reduce dal primo anno di liceo classico tra i vari compiti per le vacanze – e non sono pochi – deve scegliere alcuni articoli dai quotidiani e commentarli.
    Penso che lascerò questa pagina del blog aperta con falsa noncuranza cosicchè come un “Eus tu, viator….” catturi la sua attenzione e la arricchisca.
    I miei rispetti magister L.A.

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