Casuali somiglianze volute

di Franz Krauspenhaar

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“Le solite cose: com’è ovvio tutti i luoghi, le persone e gli avvenimenti sono liberamente inventati. Casuali somiglianze sono volute”. Questa è la nota dell’autore che appare alla fine di Quasi un’ infanzia di Hans-Georg Behr, (Einaudi pagg.324   euro 18,50). Una nota che dovrebbe sgombrare il campo da equivoci sulla quantità di autobiografia contenuta nel testo, se non fosse che, a leggerla e a rileggerla, questa nota a me è parsa sottilmente ironica soprattutto nel finale, quando si indicano “causali somiglianze volute”.

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La lettura di questo romanzo sulla guerra e il dopoguerra osservati attraverso gli occhi prensili di un bambino, egregiamente tradotto da Silvia Bortoli, mi ha condotto alla conclusione che Behr abbia voluto giocare con il lettore ma senza prenderlo in giro in nessun modo, mescolando com’è giusto verità e una certa dose di finzione romanzesca ma basandosi proprio su di una solida verità che soltanto una sottile ironia, che fa da scorrevole impalcatura a tutto il romanzo, poteva a mio avviso rendere capace di diluirne la portata alquanto scomoda.

Il bambino – così viene chiamato il protagonista, senza cognome e nemmeno un nome- non può avere alcuna colpa di nulla se la sua famiglia è stata compromessa col regime di Hitler; ha cinque anni nel pieno della seconda guerra mondiale, fa parte di una famiglia aristocratica (Behr è effettivamente figlio di una cantante d’opera discendente da una nota famiglia dell’aristocrazia austroungarica, la Esterhazy-Galaton, e il padre era un importante industriale tedesco) vive nella  villa dei nonni mentre il padre è altrove, in Germania, occupato in faccende che a lui, il bambino, non possono che risultare del tutto incomprensibili. Fare il bambino a quei tempi e in quel tipo di famiglia era compito arduo, o meglio terribile condizione, e non c’era niente da fare, gli adulti stessi erano stati picchiati allo stesso modo dai loro genitori e così andava il mondo e ancor di più del mondo, in un certo senso, così si trasmetteva una tradizione inesorabile. La madre del bambino – dal cuore spesso tarato a temperatura ambiente-  è “l’addetta alle botte” perché il padre è sempre via, comandante della contraerea ad Amburgo. E il suo capo per il bambino si chiama zio Hermann (Goering), e oltre a lui ci sono stati in visita altri “zii berlinesi” piuttosto simpatici, come zio Josef (Goebbels), e zio Albert (Speer).

Il bambino odia il mondo fin da subito perché è troppo diverso da quello dei libri che comincia a sfogliare con famelica curiosità; e fuori dall’avita dimora dei nonni  nei dintorni di Vienna c’è gente che marcia restando tutto il giorno in “pigiama”. Il KZ per la nonna del bambino è un posto “dove prima ti picchiano in modo terribile e poi voli attraverso il camino”. Nella sua innocenza, il bambino pensa che volare attraverso il camino, come potrebbe fare una strega, non dev’essere poi così male.

Il nobile nonno, padre della madre del bambino, è un vecchio liberale che ha sempre disprezzato i nazisti. La nonna spesso fa le veci della figlia nel picchiare il bambino se non ottempera ai suoi doveri, o se, specialmente, balbetta, cosa assolutamente imperdonabile.

Passano pochi anni e finalmente si arriva alla disfatta del Terzo Reich: si cerca di salvare il salvabile, il fratello più grande del bambino, che ormai è quasi divenuto un ragazzo, crede ancora nella “vittoria finale” e muore schiacciato da un carroarmato russo vicino a casa. La sorella ingoia una pastiglia di cianuro per sottrarsi alla violenza dei soldati nemici, il padre litiga con “zio Hermann”, torna in Austria, poi riparte. Dalla grande casa passa di tutto: soldati della Wehrmacht in ritirata e in pausa di rifocillamento, e poi i russi dell’Armata Rossa e  i socialisti della nuova Austria. Si consumano suicidi, si regolano i conti, ci si ridimensiona nella paura mischiata al sollievo per una guerra, ancor più che perduta, deflagrata.

Eppure il bambino, nonostante i divieti, non si sottrae a certe esperienze: il suo primo incontro col sesso avviene con un prigioniero russo, tempo dopo assiste all’incontro carnale tra un maniaco sessuale e la dodicenne Elke, che prima di darsi allo sconosciuto adulto stava per mostrare al quasi ragazzo le sue delizie intime; la ragazzina verrà in seguito uccisa dal maniaco seriale.

La madre dell’ormai ragazzo, nonostante le perdite (il marito viene giustiziato a Norimberga) tenta di tornare al suo vecchio mestiere di cantante d’opera, fa sfoggio di serate liederistiche, alterna nevrotiche risa e disperati pianti; e intanto si procede alla denazificazione a tappeto dell’ Austria, nella quale è divenuta un’onta essere tedeschi, per cui gli austriaci ci tengono a separarsi – in tutto e per tutto, anche per mezzo del ricorso al dialetto – dai loro cugini del nord.

Spostandosi con la madre per concerti il ragazzo conosce Furtwaengler, compromesso col nazismo e quindi fuori gioco, e l’ebreo Bruno Walter, che invece può riprendere in piena forma  la  sua sfolgorante carriera; questi nomi già allora molto famosi e passati alla storia della musica di ogni tempo al ragazzo non dicono niente, egli è come un fantasma balbettante ma intelligentissimo che vede e annota tutto nella sua mente con innocenza mista a  una certa spavalderia; e quella che per molti sarebbe eccezionalità per lui è solo normalità, mentre soltanto qualche sgranare d’occhi, ogni tanto, lo fa un poco sobbalzare dal suo involucro mentale, da quella spugna di sensazioni e sentimenti che trattiene tutto; ma niente di speciale lo colpisce davvero, niente che gli procuri una particolare gioia o, all’inverso, un particolare fastidio. Gli americani, la prima Coca Cola che non gli piace, la gomma da masticare che invece gli piace, la madre che deve arrangiarsi e trasformarsi in locandiera per “cafoni pieni di boria”.

Il ragazzo viene mandato a studiare in un collegio di preti, e lì conosce vessazioni a non finire, soprattutto a carattere omoerotico. Nonostante quel puzzo infernale d’incenso e di ipocrisia, il ragazzo resiste, va avanti, registra come sempre tutto anche in quest’opera di “rieducazione”, sorta di paradossale lavatura dalle macchie di un passato per il quale non ha alcuna responsabilità. Per i preti del collegio è un ragazzino viziato, testardo, e continua a balbettare, e quello rimane il suo vizio, la sua mancanza tuttora imperdonabile.

Il tempo passa, il ragazzo ha ormai quattordici anni, sta per finire il collegio, le sue sensazioni maturano; e nell’ “epilogo” ci sarà una sorta di riassunto che ci porterà a capire che per il bambino divenuto da tempo adulto, nonostante sia finita da un pezzo una lunghissima epoca tragica, al fondo delle cose umane nulla è destinato veramente a cambiare.

Ecco dunque cosa ha fatto Behr in questo romanzo di lenta e inesorabile masticazione: attraverso gli occhi vigili ancorché spesso sognanti del bambino-ragazzo, ha mostrato con l’abilità di un affrescatore puntiforme le tragedie di un mondo condannato alla disfatta in un tono del raccontare spesso ironico e puntigliosamente svagato; e in questo modo le stesse tragedie, agli occhi del lettore, come magicamente si ridimensionano. Questo resoconto particolareggiato fino all’ossessione scritto da un adulto quasi anziano (Behr è del 37) sta tutto in una campana protettiva  nella quale – tramite il raccontare dell’adulto che filtra con grande abilità lo sguardo d’innocenza del bambino- si attutisce, spesso, in una configurazione ironica e persino grottesca della realtà patita in un mondo affollato di follia.

Per Behr si è trattato, con ogni probabilità, del raccontare la sua storia – e quella della sua famiglia – nel delicatissimo svolgimento di un’infanzia che è, non a caso, quasi un’infanzia. E’ proprio quel quasi , posto forse per serio gioco davanti alla parola che indica la fase della vita che ci condiziona traendoci tutti verso il nostro destino, che segna il senso di un romanzo fluviale, che macina senza tregua piccoli sbalordimenti, colpi d’occhio, fraintendimenti continui, sensazioni in formazione, sentimenti sfumati, in un meccanismo narrativo che ingrana nomi, dettagli anche minimi, persone di ogni condizione sociale, un refolo di vento e una giornata di sole e una di pioggia battente, tutto quello che il bambino infine divenuto ragazzo ha per la più parte, in un pervasivo dolore, stoicamente visto e vissuto e registrato, e che sostanzialmente è stato il tramonto di un breve periodo di follia collettiva posto all’interno di un tramonto ancora più grande e ora divenuto veramente definitivo, quello dell’impero austroungarico nei suoi decennali singulti d’agonia.

(Pubblicato su Stilos – Luglio 2006. Nella foto: H.G.Behr)

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14 Commenti

  1. amo tanto le biografie.
    e le amo di più perchè fanno paura.
    si può leggere un romanzo senza cercare tra le pagine
    un’idea dell’odore, della corporalità di chi l’ha scritto?
    a me succede spesso.
    molto di più quando ci sono indicazioni da parte dell’autore.
    è uno dei tanti modi per interpretare la connessione forma/corpo nella/della narrazione
    ho bisogno di trovare/immaginare il corpo (anche morto) dello scrittore. mah. sarà una perversione collegata alla mancata elaborazione del complesso d’edipo.
    non credo di essere posseduta da zoppicanti frange romantiche chiedendomi questo.
    un saluto
    paola

    ps: forse sono anche OT e non lo so.

  2. Scusate l’OT, anche se l’autobiografia mi ha fatto pensare a lui ed era un po’ che volevo fare questa richiesta: vorrei scambiare quattro chiacchiere con qualche lettore di Thomas Bernhard che voglia scambiare quattro chiacchiere… ;)

    Sono reduce (?) dall’accoppiata Perturbamento (!!!) ed Estinzione (!!) e insomma cercate di capirmi… stesso discorso per il bernhardiano Vitaliano Trevisan.

    In caso scrivetemi a emanuelek@fastwebnet.it

  3. Trovo noiosa la mia di biografia, a maggior ragione quelle degli altri. L’autobiografismo è d’una noia mortale.

    Fred Uhlman, la trilogia del ritorno: colpi veloci, la penna come abile pennello, e c’è tutta quella storia che i nostri occhi non sanno vedere…

    g.

  4. Non leggerlo, nessuno ti obbliga a farlo. E non esporti tanto, rischi di finire d’ufficio in una vecchia rubrica di Cuore: “E chi se ne frega”.

  5. Cuore di De Amicis? Ricordo un ottimo Leo Gullotta in quel film per la tv. Tu pensa, biografo, che ne hanno fatto pure un cartoon i giapponesi, un po’ di tempo fa, altro che Pokemon – almeno prima i nippon ce l’avevano un po’ di buon gusto, oggi son peggio di hollywood. E poi: be’, De Amicis è rimasto nella memoria di molti e nei cuori di molti. Mi par sia autore più vivo che mai anche oggi. £ non è mica poco.

  6. Hey Bio, ma a te risulta che De Amicis lavorasse fianco a fianco con Michele Serra e la sua redazione? Se è così, mi sono perso parecchie puntate.

    p.s.

    @ fk
    Quando recensisci un libro, fai venire voglia di leggerlo, a prescindere. L’avverbio usato da Esposito, molto azzeccato, la dice lunga anche sullo stato preagonico di tanti tuoi (molto presunti) colleghi.

  7. Michele Serra? No. Preferisco De Amicis tutto sommato.
    Cuore oramai è morto, defunto, ben più di “Cuore” dell’Edmondo.
    Il Cuore di Serra è roba d’archivio per vecchi nostalgici. Io non sono un nostalgico del cuore. E poi, a me le respirazioni bocca a bocca non mi piacciono affatto.
    Allora tanto vale parlare di qualcosa di vivo, e non di morto, come appunto Cuore e Redazione.

  8. “Il Cuore di Serra è roba d’archivio per vecchi nostalgici…Allora tanto vale parlare di qualcosa di vivo”.

    Perfettamente d’accordo. Ma ciò non toglie che almeno due rubriche siano assurte al rango di archetipi sempre vivi, attuali e proponibili: “E chi se ne frega” e “Hanno la faccia come il culo”.

    Tutto sta ad evitarle entrambe, possibilmente, quando si posta un commento in un blog.

  9. Sì, infatti. Hai ragione biografo.
    Per questo direi che meglio è che la finisca qui, tanto più, che a ben guardare, non stiamo andando da nessuna parte né io né te per un dialogo costruttivo.
    Io starò attento, ma anche tu se hai un po’ di senno che t’avanza.

  10. Caro Iannox, non te la prendere, era un po’ per scherzo e un po’ per non morire: un modo, spero accettabile, di dire che, in questo thread, commenti come i tuoi (forse), e come i miei (sicuramente), sono già stati archiviati dalla redazione nella capiente rubrica titolata “E chi se ne frega”. Ciao.

  11. comincio ad averne pieni i santissimi di questi ot o semi ot. per darvi di liscia e busso usate la bacheca, magari.

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