Furlen vs Palasciano e viceversa

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Prove tecniche di romanzo storico, di Marco Palasciano (Lavieri Editore 2006) pubblicata su Stilos in isti juorni.

Una vera follia da parte dell’autore, quella di ambientare il proprio discorso a Napoli in un periodo che parte dalla Repubblica Partenopea, continua con Murat re di Napoli e si conclude con la Restaurazione. Quando grazie anche ai diversi anniversari tutto è stato detto. Si scrive di fatti storici quando non tutto è stato detto, e solo a condizione di avere studiato, elaborato ogni cosa che sia stata scritta. Il libello, ma forse varrebbe la pena definirla “Operetta” – si impone dal principio il programma di essere tutt’al più quasi finale, all’incirca finale, semifinale. E prima che gli storici distruggano le sue congetture Palasciano chiude:

«Non altrimenti è da intendere Prove tecniche di romanzo storico che come un carnevale (e «Un carnevale» ne è per fatalità il primo sintagma) dove villani, pastorelle, vecchie acquaiole e figli di fornai si travestono da re, da regine, da príncipi e generali; e i veri re, le vere regine, i veri príncipi e generali, da dietro l’infrangibile cristallo delle loro finestre, osservano la festa senza offendersi punto se un trovatore ne fa grassa satira.»

Carnevalesco dunque, il quasi romanzo. E certamente “polifonico”, quasi exemplum di un saggio di Bachtin. Nella composizione del libello l’elemento descrittivo, cinematografico-teatrale occupa uno spazio considerevole, permettendosi in alcuni casi dei veri e propri débordements di senso e di stile. Più che narrare l’autore mette in scena, sceneggia, e tra le righe avverte anche il lettore di una composizione per campi – in realtà non ci sono tanti esterni – e per inquadrature:

« A questo punto la carrellata ci offre la porta in primissimo piano e la porta si dissolve, cosí che la ripresa ora riguarda l’interno della stanza in cui baccagliano i generali. »Le immagini riprese – ripetute, recuperate dall’immaginario collettivo – sono e restano soltanto voci. Il primo dialogo è tra il narrante e la storia. Una storia volutamente – pigramente – imprecisa, per cui si vola di data in data, o altrimenti restano i mesi che accompagnano i luoghi, e talvolta nemmeno quelli. Tra Napoli, 23 gennaio 1799, dell’inizio e Capua, 28 febbraio 2006 della fine, abbiamo decenni che volano in un pugno di pagine: 14 febbraio 1806, 1808, 1815; e luohi incerti Napoli, tra Modena e Bologna, Capua, San Leucio, oppure niente. È come se la composizione adottasse metri imprecisi, come se la storia fosse nella sua intenzione di conoscenza, qualcosa di impreciso. I riferimenti allo storico Colletta diventano un puro pretesto, un pastiche più che una citazione. Del resto lo leggiamo pure nel testo completamente imploso tra una storia non scritta e una terra che non esiste, dove l’unica storia, per quanto precisamente bignamizzata, è quella di Capua:

«Il suo porto si chiamò Casilinum. Per questi luoghi Annibale il cartaginese, gran domatore d’eserciti e d’animali, una volta ebbe a far legare frascami incendiati sulle schiene di una mandria di bufali, e scatenarla contro i soldati romani che gli impedivano il passo: gesto degno di Ulisse. E avesse vinto, infine, ora si studierebbe non l’impero romano, ma il capuano. Pazienza. Torniamo a Casilinum.»

Palasciano fa l’esatto contrario del progetto illuminista dell’enciclopedia. Le voci non si fissano alle verità, ai fatti, ma li stravolgono attraverso una dimensione puramente immaginativa. Fantastica. Illusionista. Ecco allora i paesaggi compositi divenire ruderi, resti, nemmeno vestigia di monumenti. La storia diventare frammenti e come tali irriducibili ad un insieme logico e razionale. Con pochi esterni dicevamo. E gli interni insorgono come voci di dentro. E non ci sono voci senza lingua. La forza del quasi romanzo quasi storico risiede allora nel dispositivo linguistico. L’autore compone le voci, orchestra i personaggi. Nelle parole di Andrea Raos su Nazione Indiana:

«La frizione fra l’apparente classicità (tutta per echi, o riflessi) del dettato, e l’immissione – causa di voluti stridori – di materiali (nel senso di strumenti dello scrivere) “contemporanei”. Ne risulta un “postmoderno” (tra mille virgolette) acidulato, livido, scabro. Che in un certo senso contraddice le proprie premesse postmoderne – almeno nella vulgata italiana del termine.»

Un teatro dunque ( e in più carnascialesco) a più voci, lingue, fatto di resti. Il mondo suscitato da Marco Palasciano nelle Prove.
Sì, ma dove vuole andare a parare l’autore ? Ci si potrebbe chiedere. Come lo stesso scrive in uno dei dialoghi :

— Jamme addó?
— A nisciuna parte.

E di questi tempi di eterna villeggiatura è già un miracolo.

Purtoppo per un errore di impaginato il finale nell’articolo restava “dove vuole andare a parare” sconvolgendo il senso e l’impressione dello scriba critico. Cose che succedono: Io ringrazio Stilos, il suo editore e chi come il magister Pinto ripose in me cotanta et immeritata fiducia.

La versione che segue era la prima in assoluto e pensata per NI.Versione Furlen
Su Prove tecniche di romanzo storico di Enrico Palasciano (Laviano Editore 2006)

“Sul piano artistico e ideologico ciò che è importante è soprattutto l’eccezionale libertà delle immagini e delle loro associazioni, la libertà da tutte le regole verbali, da ogni gerarchia linguistica stabilita »
Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino 1979, p. 520)

Cominciamo dal titolo: Prove tecniche di romanzo storico

Una vera follia da parte dell’autore, quella di ambientare il proprio discorso a Napoli in un periodo che parte dalla Repubblica Partenopea, continua con Murat re di Napoli e si conclude con la Restaurazione. Quando grazie anche ai diversi anniversari tutto è stato detto. Si scrive di fatti storici quando non tutto è stato detto, e solo a condizione di avere studiato, elaborato tutto quanto sia stato scritto.
Il libello, ma forse varrebbe la pena definirla “Operetta” –si impone dal principio il programma di essere tutt’al più quasi finale, all’incirca finale, semifinale. E prima che orde di storici gli sparino addosso lui dedica all’argomento le ultime pagine di cui vale la pena riportare il passaggio seguente.

Non altrimenti è da intendere Prove tecniche di romanzo storico che come un carnevale (e «Un carnevale» ne è per fatalità il primo sintagma) dove villani, pastorelle, vecchie acquaiole e figli di fornai si travestono da re, da regine, da príncipi e generali; e i veri re, le vere regine, i veri príncipi e generali, da dietro l’infrangibile cristallo delle loro finestre, osservano la festa senza offendersi punto se un trovatore ne fa grassa satira, quand’anche appaia sconcia in esagerato a cui non sovvenga dei beati eccessi del medioevo (e penso al Risus Paschalis, ai preti che esibivano le pudenda – per far ridere – alla messa di fine Quaresima); ma piuttosto sorridono, divertíti, di questa catasterizzazione all’incontrario, che ne fa burattiname per i piccoli – e ciò pure, dopotutto, è grandezza.”

Capua, 28 febbraio 2006

Carnevalesco dunque, il quasi romanzo. Certamente “polifonico”.

Visto che nelle ultime pagine citate l’autore si reclama discendente di Bethoven non vedo perché non si possa prestare quanto detto a proposito dei fratelli Karamazov da Bachtin alle nostre “Prove tecniche di romanzo storico”. Scrive l’autorevole e Insiberiato critico:

“Il racconto è costruito sul principio del contrappunto artistico […] Sono varie voci che cantano diversamente su un solo tema. È questa la “pluralità delle voci” che rivela la multiformità della vita e la complessità delle sofferenze umane. Tutto nella vita è contrappunto, cioè contrapposizione, dice nei suoi Appunti uno dei compositori prediletti di Dostoevskij, M. I. Glinka” […].Trasferendo dal linguaggio della teoria musicale al linguaggio della poetica la tesi di Glinka, secondo cui tutto nella vita è contrappunto, si può dire che per Dostoevskij tutto nella vita è dialogo, cioè contrapposizione dialogica”
M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 2002

Nella composizione del libello l’elemento descrittivo, cinematografico-teatrale occupa uno spazio considerevole permettendosi in alcuni casi dei veri e propri débordements di senso e di stile. Più che narrare l’autore mette in scena, sceneggia, e tra le righe avverte anche il lettore di una composizione per campi – in realtà non ci sono tanti esterni – e per inquadrature come quando Palasciano scrive :

« A questo punto la carrellata ci offre la porta in primissimo piano e la porta si dissolve, cosí che la ripresa ora riguarda l’interno della stanza in cui baccagliano i generali. »
o ancora
« ’allontana il carrello, si richiude il sipario. »

Le immagini riprese – ripetute, recuperate dall’immaginario collettivo – sono e restano soltanto voci. Il primo dialogo è tra il narrante e la storia. Una storia volutamente – pigramente – imprecisa per cui si vola di data in data, quando viene indicato un tempo, altrimenti restano i mesi che accompagnano i luoghi e talvolta nemmeno quelli. Tra Napoli, 23 gennaio 1799, dell’inizio e Capua, 28 febbraio 2006 della fine, abbiamo decenni che volano in un pugno di pagine 14 febbraio 1806, 1808 , 1815, e luohi incerti Napoli, tra Modena e Bologna ( dai wu-ming insomma), Capua, San Leucio, oppure niente. E’ come se la composizione adottasse metri imprecisi, come se la storia fosse nella sua intenzione di conoscenza, qualcosa di impreciso. I riferimenti allo storico Colletta diventano un puro pretesto, un pastiche più che una citazione. Del resto lo leggiamo pure nel testo completamente imploso tra una storia non scritta e una terra che non esiste

« Forse era tutt’altro che la Spagna, quel che sognavi da bambino; forse era un paese dove ciascuno è re, e nessuno regna.
— Quale?
Il futuro dimenticato. Il Bene. Babele.»

L’unica storia per quanto precisamente bignamizzata, è quella dell’origine dell’autore e del suo avo Pietro , quella di Capua.

« Il suo porto si chiamò Casilinum. Per questi luoghi Annibale
il cartaginese, gran domatore d’eserciti e d’animali, una volta
ebbe a far legare frascami incendiati sulle schiene di una mandria di bufali, e scatenarla contro i soldati romani che gli impedivano il passo: gesto degno di Ulisse.
E avesse vinto, infi ne, ora si studierebbe non l’impero roma-
no, ma il capuano. Pazienza. Torniamo a Casilinum. »

Palasciano fa l’esatto contrario del progetto illuminista dell’enciclopedia. Le voci non si fissano alle verità, ai fatti, ma li stravolgono attraverso una dimensione puramente immaginativa. Fantastica. Illusionista. Ecco allora i paesaggi compositi divenire ruderi, resti, nemmeno vestigia di monumenti. La storia diventare frammenti e come tali irriducibili ad un insieme logico e razionale. Come quando ancora a proposito di Capua il Palasciano scrive di « muscoso frammento » di « resti smozzicati » “ altre macerie. Macerie ancora fumide del cruento barbecue dei saraceni”
Pochi esterni dicevamo. E gli interni insorgono come voci di dentro. E non ci sono voci senza lingua. La forza del quasi romanzo quasi storico risiede allora nel dispositivo linguistico. L’autore compone le voci, orchestra i personaggi. La lingue, Lengua, Langue, Speech del libello si sperimenta continuamente come , sul blog Nazione Indiana, aveva notato Andrea Raos:

« la frizione fra l’apparente classicità (tutta per echi, o riflessi) del dettato, e l’immissione – causa di voluti stridori – di materiali (nel senso di strumenti dello scrivere) “contemporanei”. Ne risulta un “postmoderno” (tra mille virgolette) acidulato, livido, scabro. Che in un certo senso contraddice le proprie premesse postmoderne – almeno nella vulgata italiana del termine. »
Un teatro dunque ( e in più carnascialesco) a più voci, lingue, fatto di resti. Il mondo suscitato da Enrico Palasciano in Prove tecniche di romanzo storico.
Si ma dove vuole andare a parare l’autore ? ci si potrebbe chiedere.
Come lo stesso scrive in uno dei dialoghi :

— Jamme addó?
— A nisciuna parte.

E di questi tempi di eterna villeggiatura é già un miracolo.

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27 Commenti

  1. Bravissimo Palasciano. L’ho letto questa estate e me lo sono goduto assai. Ho anche provato un po’ d’invidia.

  2. E bravo anche il furlèn! Solo un appunto quando dici: “Palasciano fa l’esatto contrario del progetto illuminista dell’enciclopedia”. Se guardi lì alla voce “dio”, a un certo punto c’è un rinvio alla voce “asino”. Nella pasqua medioevale si metteva a celebrare un asino al posto del prete. Questo per dire Diderot, l’artefice dell’Enciclopedia (20 anni di lavoro), lo stesso che scrisse Jacques il fatalista (anche lì non vanno da nessuna parte) mutuando dal Tristam Shandy di Sterne. Potremmo dire che ci sono 2 illuminismi, uno più di cuore, che tenta la sintesi dell’utopia, e uno più di testa, che vive di contraddizioni portandole all’estremo: Rousseau e Diderot, per intenderci, i due amici/nemici.
    Il romanzo di Palasciano affonda (è il caso di dire) nell’esperienza giacobina del 1799, nel suo romantico illuminismo. In ciò tiene qualcosa del Cuoco, ma solo nella pars denstruens-critica, mentre non segue il Cuoco su una presunta superiorità vichiana del Sud. Se le radici (alcune) del disagio attuale fossero in quella svolta? Allora sarebbe interessante “mettere” a confronto Babele con Gomorra, Palasciano con Saviano.

  3. oddio mi sto sentendo male…
    lungi da me voler profanare cotanto “capolavoro”- de gustibus –
    ma -dio mio- mettere a confronto un Saviano che, con tutte le critiche possibili e immaginabili, ha fatto della letteratura una macchina da guerra contro le ipocrisie della bella retorica partenopea in cui da sempre ci sguazzano italiani e napoletani …con un Palasciano che fa della storia del Ragno di Napoli una regal cornice per il suo santissimo prozio…mi girano davvero le p****
    Ne ho le scatole piene di tutti i cataloghi delle meraviglie per mostrare i vanti del sud e i fastigi del suo glorioso passato, la napoletanità da gettare come un guanto di sfida ai superbi teutonici e roba del genere, ma lo capite o no che tutto questo è contro producente? ma lo capite o no che Napoli S’ADDA METTE SCUORN !

  4. maria MARIA MARIAHHH!

    @db verissima et justissima pertinente osservazione. da vero illuminista (du bon coté)
    effeffe

  5. Napoli brucia! Non scrivete più libri!

    Palasciano, io invece aspetto il secondo, e sono grata del primo, la letteratura da combattimento non mi interessa più di tanto, ma ogni buon libro è un mattone contro la rovina, dunque avanti.

  6. Io ho messo tra i “preferiti” il Primo Amore e non Nazione indiana anche perché lì non compaiono mai pezzi autoreferenziali come questo. Viva Moresco!

  7. compagni
    non cediamo alle provocazioni.
    effeffe
    ps
    per riprendere quanto detto da db, anche a me piacerebbe un dialogo tra i due. Ma non nella contrapposizione Saviano, (Sciascia, Rousseau,Voltaire) e Palasciano (diderot, sterne), quanto nella preoccupazione di entrambi di attraversare la storia. E nell’utilizzo che credo di aver colto nelle due opere , di un dispositivo di tipo “polifonico”. Un polifonico anche linguistico in Palasciano e più narrativo in saviano soprattutto nella sovrapposizione dei diversi piani (ricerca della verità, analisi politica, storie dei personaggi ecc.) Detto questo dalla prima lettura avvenuta su NI del Palasciano avevo immediatamente pensato all’ultimo grande drammaturgo napoletano Annibale Ruccello. In questo senso avevo parlato di mise en scene comme une mise en abime. E mi piacerebbe che il Palasciano intervenisse. Palascià se ci sei batti un colpo…

  8. fattu bene ha IPA a passari da blog u sito, ma già che c’era, inveci di passare a carta puteva passari a pergamena, cu tutti sti pecuri chi nu fannu latti!

  9. “Prove tecniche di romanzo storico” è un gran libro. Da leggere assolutamente.
    Il controcanto effeffiano non è da meno.

    p.s.

    Sono contro la caccia, per indole e convinzioni profonde. Ma se NI apre una battuta contro i troll e le teste variamente illetamate che ammorbano questo spazio, faccio uno strappo alla regola e mi iscrivo subito.

  10. Caro eterno cercatore di biciclette, il novanta per cento delle “creaturine” a cui facevo riferimento sopra è imbevuto della stessa ideologia che albergava nei crani bacati e malati di coloro che impiccarono Fucik. Il cui messaggio è improntato a una pratica etica, prima ancora che politica, che è quanto di più lontano possa esserci dall’agire di chi smerda tutto ciò che attiene agli ideali e ai valori e al lavoro degli altri, soprattutto quando gli altri vogliono cercare di costruire, per quanto è possibile, almeno un abbozzo di comunità pensante, non omologa ai pantani e alle latrine dilaganti.

    Esprimere il proprio dissenso, significa motivarlo criticamente, dialetticamente, nella coscienza che, comunque, si è in grado di contribuire ad allargare l’orizzonte di senso in cui ci muoviamo. Buttare spruzzi di fango qua e là, e poi correre a nascondersi nella propria confortevole tana, è un agire da boia. Una pratica tipicamente fascista.

    Mi sa che hai sbagliato indirizzo con me, soprattutto citandomi Fucik.

    Buona ricerca di una bicicletta.

  11. Wow, ho saputo ora dal Pintolo…

    Che articolone, che bellezza!!! Grazie!!!!!!!

    Quanto ai commenti: dato che per me Napoli è uno scenario come un altro, e non ho coscienza patria ma solo estetismo onnivoro, ludotragicismo cosmico e felicità dello scrivere, non capisco bene (mi si spieghi, pietà de’ mie’ alti prieghi!) in che cosa io c’entri con l’impegno civile di reporter antimafioso ecc. di Saviano.

    Il quale però ho incontrato en passant a Capua in libreria una sera che presentava un testo di Apollinaire (se non erro), e sembra simpatico.

  12. Palascio comparando vo i discursi
    sur la pristata arguzia del DiBBi’
    ka justement te feria pueta
    de li historici facti et dei tiggì

    nostrani ke mutando realitad du mundo
    in narraziun de viro et de ipso facto
    de surpesanza de fiziun et de facto
    de la puesia ke tenet kesto impacto

    Or ke saviano come Tia ce tene
    à fare i nomi et i numi de mattanza
    seria fantastico se ahora
    ce rispunnetti alors de cumparanza

    effeffe

  13. Forse ho sbagliato a tirar fuori quei due, che dalla stessa Parigi davano due scorci diversi ma complementari della stessa realtà. Lo dice anche il proverbio, che “non parva licet componere magnis” (e come lo tradurresti in napoletano, furlèn?). Forse era meglio ripiegare su un nostraneo, se non coetaneo, tipo Cattaneo.

  14. @db

    No, perché, non mi sembrano bubbole. Se anche l’autore non vede punti di contatto, non vuol dire che questi non ci siano.

  15. Vabbèèè, mentre furlén tenta l’impossibile, io mi adagerò sullo scontato :: D stava in #gattabuia# x via di 1 traffico illegale (re-ci-di-vo!) di enkyklopedie portaporta toc TOC – ma non se la passava tanto male : la gatta miiIAoo non era affatto buia e il custode, + che IIino° era un cuoco Iino° e sopraffffino ^ leccabaffileccabaffi ^. Chi stava vera-mente male / cambioscena : SUBITO! / era RRRrrr, che si sentiva in 1 #gabbia# senza manco gli ‘optionals. “Omnia secum portans” come Asmus* = leggero + di Ermes 3gemìnus [tr. sim. | in $bolletta$ e con 1 3mendo mal di denti – no barbieri/lundi |], si reca dall’a-mico con 1 probbblema one ( lui !?! -iiino…) . Anzi no, prima gli racconta di come il giorno prima si fosse in-castonato nella @ruota@ perché, ultima §pardon§ dernière chance, cercava di far l’ESPOSITO = nomen&omen & cognomen&soprannomen ergo affido ergo adozione – magari con “mammina” (in fin dei %conti% gli era andata pene in Haute Savoie!!! ÷ v. dépilant ÷, di £usso addirittura, per quanto poi sul £usso … se ne s-parlava in+somma+, senza trovare mai comunque la %misura%) . Dov’eravamo? 1 momentino, che guardo 1/2 dozzina di rr. sopra …
    2 mn. I soltanto, please ~da plaisir~ in cui tra l’altro avrò 1/2 20na di COSE da fare:
    1a da trovare
    1a da sperare
    1a da cercare
    1a da supporre
    1a da lagnare
    1a da ritardare
    1a da supplicare
    1a da scongiurare
    1a da scappare =
    ……………………….
    ≠≠≠≠≠≠≠≠≠≠≠
    ????????????????

    … ah, 1 da lavorare!!!

    (psssss… ci vado piano piano, x non svegliare ness1)

    * chi E’? passo s t r a sccc i cato / respiro a a s a a s s matico …

  16. Ahimè! se non vedo con chiara vista punti di contatto, sarà anche per la febbre di questi giorni, che m’offusca e i sensi e i traffici sinaptici, non bastasse che il “Gomorra” di Saviano non l’ho letto e ne sono disinformato quanto poteva esserlo dell’evoluzionismo darwiniano Leopardi chiuso nel paterno ostello (vabbè, in quel caso era anche un problema di tempi).

    Mi si spieghi ora dunque, mentre Febbre dismonta e Senno monta, il senso preciso della «preoccupazione di entrambi di attraversare la storia» (furlen, giorno 18, 21.19); e se per «disagio attuale» e «svolta» (db, 18, 12.26) si intenda dire che la delusione per la mancata Repubblica (tema in realtà per nulla toccato dalle “Prove”) guastò lo spirito dei napoletani al punto che ora, pur essendoci infine una Repubblica, resta inguaribil la malinconia, e vi s’appiglian come zecche e vermi, fermentando, la mafia e il disvalore; o cosa d’altro; grazie!

  17. Ohi Palascian cunvalescent
    proverò a spiegarmi facendo finta che tu abbia letto il libro o che del libro di saviano te ne sia fatto un’idea. Premesso che la comparazione suggerita da dibbì resta una traccia secondo me interessante e che i due libri potrebbero tranquillamente seguire il loro corso ignorando l’uno l’esistenza dell’altro, proverò a risponderti. Come ho detto nell’articolo recensione che ti ho dedicato, il tuo libello scardina una concezione della storia (successione di eventi nel tempo secondo una necessità dell’accadere) disinnescando ogni percezione monolitica dei fatti grazie anche all’intervento di personaggi minori, assolutamente ignoti ai più e ai tanti come l’avo che celebrasti. Tu parli di quasi romanzo perchè maneggi e a perfezione la quasi storia. E lo fai con una quasi lingua. E noi siamo quasi contenti.Un episodio simile che quasi ogni lettore di gomorra che abbia incontrato , mi racconta puntualmente – e dario borso che è un fine psicologo potrà magari dirci perchè tutti ci ricordiamo di quel personaggio-
    è quello del sarto “Salvatore” dei “bassi” che quando vede il proprio vestito, cioè quello da lui cucito, inventato, per le grandi “griffes” del nord, in un sistema di appalti clandestini,indossato da Angelina Jolie alla notte degli oscar, vede la fine del proprio talento, della propria storia. Il grande momento della rivoluzioone partenopea e dei tempi successivi rappresentano l’occasione mancata della Storia per Napoli (a proposito metterò su NI un bellissimo articolo di Aldo Masullo ). Quello che tenta di “rivelare” Roberto Saviano è che il successo del dispositivo capitalistico, accumulazione di capitale ecc, non è un garante di storia: Anzi quanto più le nostre regioni si arricchiscono (il confronto tra il PIL dello stato e il fatturato del sistema camorra la dice lunga) tanto più la storia ( nel senso di cultura della comunità, tradizioni, solidarietà ecc) diserta le nostre terre. Per me possiamo fermarci qui, palascian, bel libro il tuo, la vita continua, nun te piglià collera.
    effeffe

  18. R. ci sarebbe un concorso…
    D. alle poste?
    R. a Digione!
    D. porta sfiga.*
    R. danno un tot…
    D. su cos’è?
    R. se il progresso delle scienze e delle arti ha migliorato i costumi.**
    D. di chi?
    R. boh…
    D. fa’ il secondo.
    R. non ce n’è.
    D. non ho tempo.
    R. dimmi cosa.
    D. fa’ il contrario.
    R. di che cosa?***
    D. della voga.
    R. ci provo.
    D. ma tu.
    R. mm..
    D. uh.
    R. ::
    D.
    R
    .

    * il “Viaggio sentimentale in Italia” del londinese Sterne si era concluso a Digione, ma il frontespizio era stampato da tempo: risultato, un flop.
    ** R vinse il concorso dimostrando che no.
    *** Qui ci andrebbe D, trattandosi di una domanda.

  19. O Nazione, Nazione! ibrido mostro
    occhi or d’amore or d’ira ebbra imbibiti!
    per la gioia di quanti qui si sentono
    almen d’un psico-atomo arricchiti
    dal passeggiar tra l’ombre telematiche
    delle mie emanazioni (or d’arte grassa
    or di magro pensiero), al par di me
    al passar tra questi arborsussurranti
    iper-viali amerindi, ecco un invito
    che più ufficiale non saprei ufficiare,
    sì che chi vuol si venga a registrare
    e a postar nel palascianesco sito:

    http://episteme.forumcommunity.net/

    (Forum dell’Accademia Palasciania,
    dove l’anima pencola e si estrania.)

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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