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Letteratura neopatetica. Come un manifesto

di Alessandro Garigliano

Quante narrazioni sfidano il lettore a mettersi in crisi? È quello che fa Antonio Moresco ne Gli esordi, costruendo il romanzo con l’obiettivo fermo di esordire in nuova immagine di pensiero. Visitando Gli esordi si procede a tentoni attraverso la lucentezza di una realtà che l’autore racconta seguendo lo svolgersi ingenuo del punto di vista emotivo. Il lettore mette le mani avanti in cerca di appiglio dove, invece, avvengono smottamenti di elementi troppo spesso creduti inconsistenti: l’aria, la luce, i suoni. Elementi che plasmano le forme come la sabbia di quei souvenir arabi riversata nelle ampolle a creare montagne e cammelli; qui aria, luce e suoni erigono strutture: un caos di forme.
È uno spazio e un tempo che non avevo mai incontrato, forse per questo mi resta tutto impresso. L’occhio fotografico dell’autore mima una vita che, anziché essere naturale, è fulgidamente emulsionata. La dispersione del narratore in minutissime particelle rimane davvero insolubile rispetto alla Storia. Come una macchia d’olio le vicende biografiche che hanno impressionato il narratore vengono raccontate sullo scorrere dell’acqua della Storia. Il narratore galleggia su ciò che racconta, la sua visione è al contempo infantile, primitiva, favolistica.
Fra i momenti culturali che più mi hanno messo in crisi, facendo sedimentare in me pensieri di future evoluzioni catastrofiche, i più importanti sono i due intervalli che si aprono come monumentali interrogativi esistenziali tra le tre parti de Gli esordi. La vita del narratore è suddivisa in tre parti, nella prima sta in un seminario da aspirante prete, nella seconda rotola per sparse località megafonando propaganda politica, nella terza diventa un inafferrato scrittore. I momenti di passaggio da uno stadio evolutivo all’altro nella biografia del narratore sono mirabilmente raccontati attraverso la pagina bianca, che dirò di sospensione. Prima degli intervalli avviene un evento che è stato sentito come “definitivamente transitorio”. Il narratore quando sta per sprofondare nei silenzi di riflessione afferma un “Sì” che tutte le volte vorrebbe essere definitivo, così come, invece, ogni volta risulta essere fragilmente transitorio. “Sì” gettati su una linea d’ombra sospesa tra un passato intensamente vissuto, esistente quindi, e un futuro buio, cangiante, come oltre le porte delle favole che non si sa dove miracolosamente ti portino, in quale tempo e in quale spazio.

Con un brusco salto vengo al dunque. Il motivo per cui ho scritto il presente articolo è quello di confrontare uno dei miei romanzi preferiti di sempre, Gli esordi, con una serie di libri che considero tra le cose migliori pubblicate in questi ultimi anni in Italia. Cercando di capire perché dopo avere letto il libro di Moresco ho creduto che nel panorama letterario italiano si fosse aperto una spiraglio che avrebbe potuto stimolare lettori e scrittori a immaginare o creare nuove forme, e quindi nuovi modi di percepire e comprendere la realtà, e invece dopo avere concluso ognuno dei libri che tra poco prenderò in superficiale esame, mi sia sempre sentito esausto di forze e di speranze (pur avendo di questi libri una stima spropositata). Questi libri, ai quali più volte ho alluso e dei quali non ho ancora fatta menzione (tradendo un sicuro mio pregiudizio), secondo me possono essere riuniti, nonostante le enormi differenze tra ogni singola opera, sotto la definizione di letteratura neopatetica. Tale definizione non vuole certo essere un’etichetta e neppure vuole lanciare una corrente letteraria, ma soltanto chiarire, innanzitutto a me stesso, quali aspetti appartengano ad alcune delle opere più importanti di oggi. Tra le opere neopatetiche io metterei alcuni libri di Mozzi, uno tra tutti Questo è il giardino, Cani del nulla di Trevi, I-Tigi Canto per Ustica di Paolini e Del Giudice, Quando vi ucciderete, maestro? di Franchini, Viaggio nel cratere di Arminio, Pericle il Nero di Ferrandino, La città distratta di Pascale, A perdifiato di Covacich, La nuova era di Doninelli, Primo amore di Garrone. In questa di per sé sterile elencazione ho raccolte alla rinfusa, senza alcun ordine cronologico, opere scritte in tempi disparati e di genere diverso (reportage letterari, romanzi, opere teatrali, film, racconti, saggi letterari non meglio definiti). Stando a quel che m’interessa però importante è chiarire quale sia, diciamo così, il tono dei su elencati titoli. A me pare che gli autori tendano a esprimersi in un tono che oscilla tra la mediocre e precisa cronaca e la rabbia malinconica che trascina sulla pagina scritta la realtà reale, quotidiana, patetica, e nel dare a essa voce si utilizza uno stile scabro con voce scontrosa in via depressiva. La stessa figura dello scrittore, tramite la sua poetica, ne risulta scarnificata dagli orpelli narcisistici che certa romantica tradizione italiana continua a osannare. I nostri neopatetici, invece, hanno a loro modo smascherato i trucchi della narrazione, hanno esibito lo scheletro (in molti sensi). Così come nell’arte gotica è possibile vedere le chiese esporre nervi e muscoli dalle colonne e dalle cupole o dalle facciate, i neopatetici danno il senso del sudore, mettono in mostra l’infastidente immagine della fatica. Esemplare in tal senso è Mozzi che, nella costruzione dei racconti, incide attraverso una scrittura precisa, come il classico bisturi che penetra fino in fondo per guarire – perché solo raccontando e incidendo è possibile in questi contesti guarire (guarire non nel senso di risolvere. Guarire nel senso di esorcizzare un trauma sviscerandolo nell’atto del narrare). Mozzi, dicevo, opera i suoi personaggi da grande chirurgo del patetico.

Ho letto un breve articolo di Elio Paoloni su Stilos del 2 marzo 2004. Si sostiene che molti degli autori più capaci d’oggi fotografano la realtà media con uno stile diaristico, immediato, dove ciò che conta è che sarà “il lettore a decidere dell’importanza di un particolare, del senso di un incontro, delle conclusioni da trarre”. Una della motivazioni che trova Paoloni a questo accadere si concentra sull’idea che lo scrittore abbia perso la bussola. Avendo perso la bussola consegna al lettore, pur con gli ovvi montaggi d’autore, la realtà così com’è.

Conclusioni. Oggi è inutile ribadire che si è davvero persa la bussola, a mio modo di vedere. Come direbbe, in altro senso e in altro contesto, Borgese: è “Tempo di edificare”. Io credo, in sintesi, che le storie bisogna raccontarle onestamente, da esordienti, cercando spazi e tempi intimamente congrui. La letteratura dovrebbe essere sempre cognitiva. Le opere neopatetiche mi sembra siano tra le più innovative e riuscite, oggi. Però, al contempo, penso che il carattere dolorosamente umano e mediocre, pur essendo geniale come scopo generale, non sia mai riuscito a sollevarsi dalla dimensione quotidiana della cronaca, non sia mai riuscito a forgiare forme nuove, a creare spazi e tempi impensati che dessero di questi nostri tempi un’interpretazione innovativa e aperta a nuove domande. Nelle opere neopatetiche manca, mi pare, lo scarto che faccia di un’intuizione una creazione.
Gli esordi, invece, è un romanzo cognitivo. Moresco non concede nulla alla limitatezza della vita, la vita la crea nei romanzi, plasma la piattezza dell’esistenza e la fa sbalzare dalle pagine come un acido che corrode ogni pessimismo e avvolge ogni lettore costringendolo a esserci nel mondo. Moresco non cede allo smarrimento della bussola, disegna nuove mappe, con ottimismo critico.

Mi congedo affermando che da una parte gli scrittori neopatetici, nonostante lo smisurato talento, non riescono a dare un senso, una delle stupide soluzioni, a questi tempi, dall’altra invece Gli esordi trionfa sulla morte, proponendo un’inquadratura sulla cronaca che possiede il filtro di un’intimità da cui riparte il gioco del pensiero nelle sue infinite, e magari senza fine, combinazioni.

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31 Commenti

  1. Guardiamo veramente in faccia la letteratura odierna, e scopriremo in alto a destra, appena sotto lo zigomo, un neo patetico, moresco.

  2. Alessandro nella scheda di lettura degli Esordi Scarpa usa spesso la parola “creaturale”, che corrisponde bene alle cose che vedi anche tu: “smottamenti di elementi troppo spesso creduti inconsistenti: l’aria, la luce, i suoni”.
    Se cercassimo nella pittura la stessa sospensione, movimento di forze, creaturalità sicuramente verrebbe da fare il nome di Afro Basaldella. Ma Afro non ha figurazione, è un artista informale. Allora significa che Moresco attraverso le parole riesce a mettere in gioco delle figure senza disturbare lo scenario informale, facendole parte di questo pienamente, lavorando sulla trama, sulla psicologia, sul tempo, rendendo tutto materico e evanescente allo stesso tempo. Quella scrittura è un miracolo. E se pensi che scriveva in un gabinettino, non in una torre d’avorio…

  3. Andreina B. secondo te ci vogliono più palle a scrivere Gli esordi o a postare da anonimo in un blog?

  4. afro non ha figurazione,bon,allora significa che moresco…mette in gioco con le parole delle figure senza disturbare lo scenario informale…ma di chi,
    di afro? che tu hai equiparato nella sospensione a moresco o viceversa…ma chi ti autorizza a istituire questi rapporti? che cazzo c’entra afro con le ansie di moresco? mi sa che hai visto di recente una sua personale e ti ha colpito, eterno boyscout

  5. Allora vediamo di spiegare.
    “smottamenti di elementi troppo spesso creduti inconsistenti: l’aria, la luce, i suoni” scrive Alessandro.
    Giustissima questa lettura, accade proprio questo nel mondo degli Esordi. Proviamo a cercare una traduzione nelle immagini di un pittore. Direi un informale, perché qui si parla di elementi, di forze che si contrappongono e allo stesso tempo perché tutto questo non è uno sconquasso astratto, delle idee, è uno sconquasso della materia. Esistono molti autori, ma Afro mi pare corrispondere meglio di altri all'”ansia di Moresco”.
    Ovviamente viene da pensare questo: nessun dipinto di Afro reggerebbe l’apparizione di una figura. Un conto è dipingere una spinta di chissà quale elemento, un conto è dipingere una faccia, un corpo, un animale, un fiore. L’informale ti fa pensare all’infinito, è soprattutto texture; la faccia l’animale il corpo il fiore, questi forme di figurazione viva, sono il finito.
    Non dico che sia impossibile mettere insieme informale e figurazione senza che questa snaturi il primo. Dubuffet con il suo “asino smarrito” ci riesce, o con i suoi ritratti con le ali di farfalla per esempio.
    Moresco a mio parere – il mio parere è l’unica fonte di autorizzazione – usando qualche strano trattamento per le parole, qualche strano medium per incollarle in una storia, riesce a far muovere le sue figure, cioè i suoi personaggi, in un ambito che mi viene da definire “informale” per l’evanescenza, la creaturalità, la presenza costante del più grande, dell’infinito, ovvero della sua ansia.
    L’aspetto visivo (di visione e visionario) è sempre stato messo in rilievo dalla critica attenta, perciò non è arbitrario cercare nella pittura e nell’arte contemporanea dei punti di vista utili per guardare le sue cose.
    Lo avevo fatto anche per i Canti del caos col Cremaster Cycle di Matthew Barney.

  6. Ma qui si passa dal buffet al gabinetto che è un piacere! e dove finisce poi la roba? non intasa?

  7. Questo è un quadro di Afro del ’39, ancora figurativo, “Demolizioni”
    http://www.scuolaromana.it/images/opere/ope014.jpg

    Guardate come tratta una “Figura” nel ’51-’52
    http://www.irmabianchi.it/img/FontanaBurriAfro1html.jpg

    Questo è del ’64, “Prima porta”
    http://www.irmabianchi.it/img/FontanaBurriAfro5html.jpg
    non è come se fosse invertita la freccia del tempo e il mondo venisse descritto all’esordio, quando le forze lo stanno componendo?

    “Composizione”, del ’68
    http://www.irmabianchi.it/img/FontanaBurriAfro3html.jpg

    “Per Fonte Amara”, ’58 http://img37.imageshack.us/img37/9237/perfonteamara19583xd.jpg

  8. barbieri, sei ancora ad afro? già che ci sei parlaci di vedova. cmq, con tutto il rispetto, questa definizione di neopatetici mi pare poco calzante, poco sloggi, appunto. è di derivazione musicale, vedi i neomelodici napoletani.
    il nino d’angelo della produzione ultima non sta agli esordi, semmai ai canti del caos vol. due. elliott carter, da un punto di vista formale, va ancora più in là rispetto ad afro e a nino d’angelo, percuote tra i testicoli e lo sfintere anale.
    a me pare che la letteratura moreschiana possa essere concepita, in ambito sonoro e visivo, come una combinazione tra le ultime suggestioni di un varèse e i mandala di energia di un paolo lazzarini. altro che afro, barbieri.

  9. Già mi piaquero assai poco ‘sti Esordi che trovai pomposi & noiosi,
    e questa critica, o chessia, mi pare peggior servizo gli faccia, a Moresco a Mozzi ed agli autori citati.
    MarioB.

  10. volevo dire che è un parallelo bizzarro, come quello fra il jazz e l’espressionismo astratto, ahi kerouac, in cui indulgono spesso i letterati.
    La pittura xe un mistero de i’oci (Veronese), una disciplina olimpica.
    Cosa c’entrano i campi di forze, cos’hai detto?
    Sono tutte teorie estranee allo specifico artistico.
    Si possono istituire dei paralleli di poetica, questo sì, ma fra afro e maresco non ne vedo proprio. L’uno si/ci arrovella, l’altro si/ci rasserena.
    Afro ha fatto informale perchè allora girava così, ma secondo forma, ordine compiuto.
    Maresco non sa ancora cosa vuole, non ha ancora dato forma al caos. Se è questo che cogli e chiami informale, d’accordo, ma non è quello storico.

  11. Mah, bizzarro… più ci penso più mi convince che i personaggi degli Esordi siano creature di un mondo allo stadio “informale”. In qualche modo quella peculiarità bisogna dirla e a me viene da farlo così.
    E di Afro davvero trovo la stessa tonalità emotiva in Moresco. Entrambi non mi arrovellano né rasserenano: mi sconvolgono.
    “Either I’m too sensitive or else I’m gettin’ soft”, come dice il tizio di “If you see her, say hello” di Dylan.

  12. afro ti sconvolge, vedessi fautrier
    afro è pieno di grazia italiana, un bellini rispetto a un grunewald
    ti sconvolge giovanni bellini?

  13. la texture non è un’esclusiva dell’informale, de koonig è un informale? texture zero, par contre, i miei ultimi lavori sono texturous, sono io un informale?

  14. Fautrier per me è tra i più grandi, non si discute (ma il suo rosa che cos’è…).
    Grünewald, per rispettare le proporzioni è tra gli dei.
    Io non ho mai visto dal vero la Crocifissione della pala di Isenheim (http://www.mita.cc.keio.ac.jp/~maeda/html/gruenewald.jpg), ma deve avere davvero una forza immensa. Naturalmente lo saprai che uno che uscì completamente cappottato dalla sua visione fu Paul Celan.
    Anche Bellini è un maestro. Questo quadro non è bellissimo?http://www.villafranceschi.it/galleria/carlotta_img/bellini.g.874.jpg
    ecco forse non ti “sfonda” come Grünewald, ma non tutti gli artisti vogliono aprirti in due come un’arma da guerra…

    Guarda, quello che dici sulla “grazia italiana” – ma insomma forse è meglio chiamarla “grazia” e basta – è vero, ma anche la scrittura degli Esordi ha questa grazia: «Mi vestivo a mia volta sotto le coperte, senza fretta, mettevo i piedi giù dal letto, infilavo le calze, aprivo il cassetto del comodino di lamiera e scoperchiavo il barattolo del lucido, ci intingevo la punta della spazzola, infilavo la mano in ciascuna delle scarpe e cominciavo a stendere la pasta, prolungando l’operazione all’infinito per cogliere l’istante in cui il lucido si stendeva fino a sparire, perdeva consistenza, rimaneva solo luce lucente priva di corpo e di colore.»

    La texture è dappertutto, dipende come si usa. Breccia la usava a vagonate nel fumetto…

  15. *infilavo la mano in ciascuna delle scarpe e cominciavo a stendere la pasta* – con cosa? naso? mento? lingua?

  16. “ecco forse non ti “sfonda” come Grünewald”.
    in una vecchia vignetta di bucchi due tizi all’uscita di una mostra di Van Gogh:
    – Aò, Van Gogh co’ du’ pennellate te stende.
    – E li mortacci de Mondrian!

  17. andrea, ti consiglio un week-end:
    zurigo: fondazione Buhrle
    winthertur: fondazione Reinhart
    sciaffusa:cascate del reno
    colmar: grunewald+ bosch

  18. Alessandro, scusa se arrivo qui a commentare quanto hai scritto soltanto dopo una settimana dall’inserimento del post, ma vedendo la deriva dei commenti provo a farmi coraggio e spiegarti ciò che penso di questo tuo articolo in cui con stile liotresco –esso stesso “smottato” e “galleggiante”- annunci un confronto tra quelli che chiami i neopatetici e Gli Esordi di Moresco. Sono soltanto in parte d’accordo con quanto dici: lo sono quasi in toto e mi piace quando parli della prepotenza della prosa di Moresco (se ricordi ne parlammo tempo fa sul tuo http://www.liotro.com: lì dicevo della consapevolezza che ebbi durante la lettura di trovarmi di fronte a qualcosa non solo di modificato, ma di modificante e deformante la mia percezione quotidiana delle cose nei giorni di lettura, la consapevolezza di avere tra le mani un “classico istantaneo”), e di bussole. Quasi per nulla ritengo però gli esercizi neopatetici delle prove “diminuite” (pure se riconosci loro talento e genialità) rispetto a quelle di Moresco. E soprattutto perché da ciò che scrivi traspare una considerazione negativa della partecipazione del lettore all’esserci dell’opera d’arte. Credo si stia invece su due piani diversi, e che le due scritture stiano le une alle altre come i quaderni di appunti dello specialista ai taccuini di Spider di Cronenberg. Non è inoltre detto che germe di luce e umanità dirotta contenuti nei neopatetici e sconfitti nel loro voluto sbilanciamento non possano essere strumento di proiezione ottimistica e, mancanza che tu ritieni fondamentale, di cognizione.
    Ci sarebbe qualcosa da capire anche sulla presunta “creaturalità”: ho sempre inteso le visioni di Moresco più “cosali” che creaturali, più intensamente concentrate sull’inorganico che resta inorganico o organico che diventa inorganico, e su un soggetto che conosce e si riappropria del mondo, più che sulla riabilitazione della materia al rango di creatura. Riabilitazione nulla, materia che si spappola, brilla, esplode ma resta materia, dal soggetto viene rivoltata, esposta, e soprattutto cantata, come dici tu, con modalità favolistiche. Questo basta per guarire, per essere bussola e specialmente e sempre come dici tu, bussola di ottimismo critico?

  19. accidenti lisini,
    la cosa più importante è che almeno per una volta il dialogo sia stato attivato da questo mio articolo. innanzitutto i neopatetici. quello che non mi piace dei neopatetici è che pur avendo loro intuito una forma d’arte eccellente, scabra, diaristica, innovativa, siano rimasti con i piedi per terra, ovvero, il loro tempo e il loro spazio, alla fine, rimane ancorato a una percezione cronachistica, il tempo è sempre lineare, consequenziale, scandito da causa ed effetto, e le forme dello spazio rimangono quelle quotidiane, comuni. invece ne “gli esordi, le coordinate spazio-temporali subiscono favolose variazioni, che so, faccio degli esempi banali, il cieco che vede, il letto matrimoniale dentro cui avviene una lotta in cui sia lo spazio che il tempo vengono dilatati, editore e scrittore che giocano a rimpiattino inseguendosi su un campo di cui scavalcano e rimettono in piedi le staccionate come fosse una rincorsa all’illimitato. ecco, mentre tra i neopatetici il tempo è ciclico e lo spazio delimitato, ne “gli esordi” viene messa in scena la sfida all’infinito, in un misto di parodia e profonda comprensione dei nostri tempi. e per questo per me non c’è ottimismo nella forma della prosa neopatetica, perché non c’è creazione di forme ‘inventate’, di forme che anziché ritrarre quanto si muove in superficie, rappresentano altro, e quindi, rappresentando altro, stimolano nuovi modi di percepire e di intendere la realtà, ottimisticamente. di conseguenza, penso, organiche o inorganiche che siano le ‘creature’ di moresco, fondamentale è che moresco abbia ‘creato’ una struttura dove invece di mimare fotograficamente ciò che si vive, si cerca di interpretarlo e rappresentarlo in modo creativo (stavo per dire: impensato).
    che ne dice, lisini?

    p.s.
    ti pare giusto aprire il dialogo quando la gente si occupa di altro?

  20. Alessandro, scusami se ho dirottato la conversazione, ma almeno all’inizio cercavo di starci dentro (insomma a mio modo, ma come si fa a non entusiasmarsi leggendo “caos di forme” e non pensare all’informale…). Però penso anche che sarebbe stato corretto che qualcuno della redazione cancellasse il primo commento, se si vuole costruire qualcosa bisogna anche cancellare gli interventi puramente provocatori).

    L’articolo che hai postato è molto bello, sei stato molto bravo, e a me sembra di condividerlo. Quello che dici del tempo e della linearità forse può sembrare strano. A me si era aperta qualche finestrella sententendo direttamente Moresco parlarne a Bologna.
    Questo lo avevo postato sul blog di Georgia subito dopo l’incontro a Bo.
    “Moresco ha parlato di narrazioni che non procedono linearmente, questa idea della linearità ci dà sicurezza e consola, ma l’esistenza (a me pareva che si riferisse indistintamente a esistenza o narrazione come se fossero due facce della stessa cosa) procede piuttosto per orbite, per intersezioni di piani assolutamente imprevedibili e incomprensibili se non abbracciamo questi movimenti orbitali. Capisco che detto da me non è il massimo, diciamo che Moresco era molto convincente nel rendere per immagini questa complessità narrativa.”
    “Verso l’inizio dell’incontro ha detto che la sua scrittura cerca di produrre una controspinta verso la nostra immagine della realtà in modo da confliggere, scoperchiare, rivelare una realtà più complessa (appunto quella cosa dei piani che dicevo sopra).”

    Scusa, sono appunti un po’ naif, però mi sembra che diano l’idea di questi movimenti “orbitali” più piccoli e più grandi che lui riesce a rendere inventando una forma di scrittura, e anche la funzione di certe aperture visionarie (qui i troll di NI si scoperchieranno dalle risate e mi prenderanno per il culo fino al giudizio universale…).
    Sul discorso che fai del tempo si sente che frequenti Dario…
    Un saluto a Alessandra.

  21. ecco, andrea, sì, anche dario voltolini è un narratore che plasma tempo e spazio in modo creativo.

  22. Sì, Dario lo ha sempre fatto, infatti non è un caso che sia stato uno dei primi a sentire la scrittura di Moresco e a sostenerla.
    Credo che anche Mozzi lo faccia in qualche parte di Questo è il giardino, quando sospende il corso del tempo in certe visioni, come quella che dà il titolo alla raccolta.
    Mi viene anche da dire che c’è l’esistenza da raccontare e che plasmare tempo e spazio serve per rendere quella cosa strana che è l’esistenza in modo che possano stare dentro tutte le determinazioni possibili.
    E non trovi che anche la Ortese sia così, per esempio Il porto di Toledo?
    Ecco non sarebbe importante anche trovare una tradizione di questo tipo di scrittura? Tu per esempio hai studiato D’arrigo…

  23. be’ io della ortese ho solo letto il libro con il quale ha vinto lo strega, ed è stata un’esperienza terribile, non mi è proprio piaciuto.
    d’arrigo, invece, quanto a tempo e spazio, non ha limiti.
    ma poi prima pensavo a volponi, uno che ha avuto un impegno sociale concreto, ma i suoi capolavori però non volano basso, non riproducono, non registrano, ma sono strutture che s’inalberano, vorticano, confliggono ecc.
    ce ne sono altri, si potrebbe fare uno studio sulla letteratura italiana con questa griglia di ‘realisti’ e ‘creatori’

  24. Ma secondo te i “realisti” hanno a che fare con questa cosa che scriveva la Benedetti?

    “La nostra epoca, come tutte forse, ma credo che questa di più di ogni altra, si autodescrive. Fa una descrizione di sé. La fa continuamente, attraverso le notizie, attraverso i suoi stessi processi comunicativi, ancor più che attraverso le sue ideologie. E questa autodescrizione è una trappola. Una premessa che si autoconvalida. Molte narrazioni odierne mi sembrano solo un’opera di manutenzione dell’epoca, un meccanismo di difesa del sonno dell’epoca che sogna se stessa e non vuole svegliarsi. Se non si sfondano questi schemi di realtà, per far emergere allucinatoriamente tutta la realtà,tutto lo “spurio” rimosso da questa autodescrizione, scrivere non ha alcun senso. E questo non lo dico solo per la scrittura narrativa, ma anche per quella saggistica e testimoniale e giornalistica.”

  25. è troppo poco per capire cosa intenda la benedetti, però di sicuro in parte i ‘realisti’ hanno a che fare con questa cosa qua. che è bella.
    solo che in certi momenti storici essere realisti può voler dire rompere gli schemi, essere eversivi. insomma il discorso è complicato. certo è che se durante il fascismo ci fossero stati ‘realisti’ (parlo del migliore ‘realismo’), be’ allora credo che il contesto storico avrebbe reso il ‘realismo’ allucinato.

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