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Gavotta dei netturbini punk

di Damiano Zerneri

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Dice che c’è, ci deve essere una logica in certi gesti. I gesti del lavoro ad esempio, quelli che si potrebbero classificare come interni alla corporazione. Il gesto di salire in cabina con grande prescia invernale e buttare i guanti da lavoro (sfatti ormai e con le camòle) sul piano del cruscotto, per dirne una. Quando è finita la via e caricati tutti i sacchi dello sporco nel rùmine posteriore del camion. Come in quel momento, quando dentro all’abitacolo si issava muggendo la massa bruta di Calderone. Col corpo che fumava del freddo di fuori nel contatto col riscaldamento a pieno regime.
“Ci credi che i sacchi erano come i sassi? Ha ghiacciato tutto. Diglielo Robi” esclamava.

Ma Colonna, Robi, un piccoletto lieve -com’è del ferro nuovo- e che aveva un pezzo del tatuaggio che s’inerpicava per il collo, oltre la chiusa catarifrangente della giacca di lavoro, non rispose. Con la sua voce che quasi ogni volta era come un sussurro, disse: “ho il gelo”.
“Ma certo! D’inverno agli autisti li dobbiamo tirare giù di cabina e prenderli a calci in culo fino a quando non muoiono. Diglielo Robi” rise Calderone sardonico.
“A morte” sussurrò Colonna.
Zeta guardandoli pensò che se invece di uno scherzo da tutte le albe di nettezza urbana, quei due, tanto per fare, se li trovava veramente davanti da estranei e imbelviti per un motivo qualsiasi contro di lui, in una strada magari, in una notte fuori da qualche parte… se capitava veramente, allora sì che avrebbe dovuto saltare nel primo tombino, come nei film di spionaggio, precipite in mezzo all’impazzimento dei manometri.
“Pigliati la patente e poi ti mettiamo a te a guidare la motrice, Calderone” disse zeta con allenata pazienza.
“La so già guidare questa roba”.
“Pigliati la patente”.
“Non può; non sa leggere i cartelli” soffiò Colonna.
Calderone rise forte, ancora. Poteva nevicare in quell’alba, anche se adesso sembrava proprio, nell’arenaria indistinta del cielo di prima giornata, che stesse per piovere. Automaticamente zeta infilò nel lettore il calco digitale di quel vecchio disco dei Social Distortion che tutti loro amavano. La voce inconfondibile di Mike Ness fece subito satura l’aria.
“Date la strada agli spazzini punk!” ruggì Calderone sovrappopolando il mezzo con le sue grevi membra.
Con Colonna che anche lui muoveva la testa, ogni tanto guardando indietro, dalla finestrina verso il muro d’acciaio da carico.

Guidando a zeta venne in mente che un paio di giorni prima per televisione aveva visto un vecchio video clip dei Pretenders, quello di Brass in pocket.
“Te lo ricordi?” chiese a Colonna.
“Quello dove lei fa la cameriera?” rispose lui.
“Sì. Era bellissima Chrissie Hynde in quel video”.
“Anch’io devo averlo visto non tanto tempo fa. A pensarci, mi faceva specie vedere le facce di quelli del gruppo quando fanno i clienti del bar e aspettano le ragazze mentre uno, che poi era il bassista, si scambia le occhiate con Chrissie. Lei lo vedi che a modo suo s’illude; mentre poi arriva la ragazza del bassista, si baciano e poi Chrissie li guarda andare via in macchina, insieme agli altri del gruppo con le loro ragazze. Lo vedi che ci rimane male… Bella davvero lei, col vestito da cameriera” sussurrò tutto in fila Colonna.
“Aveva anche la crestina in testa?” si mise in mezzo Calderone.
“Boh”.
“E perché ti facevano specie quelli del gruppo?” chiese zeta mentre accurato faceva manovra presso il cancello di una di quelle vecchie case che hanno ancora le frecce del rifugio antiaereo pitturate vicino agli sbocchi delle cantine.
“Perché due sono poi morti per via dell’eroina, il chitarrista e il bassista” s’intromise una volta ancora Calderone.
“Ah già è vero, certo, erano morti tutti e due”.
“Faceva brutto vederli giovani con le ragazze e sapere che hanno già fatto i funghi sopra la tomba” soffiò Colonna (anche sulle dita livide).
Poi, guardando dal finestrino: “Ammazzalo quel cane di merda se non si toglie”.

Presero il ponte che passava sopra la ferrovia. A destra, andando verso il basso in una scarpata d’erba, i corpi conglobati, quello nuovo innestato dentro alle mura antiche, del cimitero di quartiere. Dalla sommità del ponte nelle giornate di vento potevi vedere le montagne della zona dei laghi. La via si metteva a canale, avendo vicino all’imbocco il blocco di calcestruzzo della caserma dei carabinieri. Sempre dalla sommità del ponte, se si guardava sotto c’erano certi grandi casamenti delle regie ferrovie, ma abbandonati, che avevano dentro i visceri gonfi di basalto indurito degli scarti di ferro che ossidavano a cielo aperto, non si sa neanche da quanto. Il binario morto era invaso dal sambuco, mentre al momento sulla linea regolare passava fumigando una di quelle motrici a righe che mettono a letto i vagoni nelle rimesse. E zeta, in transito, aveva fantasia di locomotiva: novello fuochista nel clangore di materia rotabile, con il fumaiolo che gettava fuliggine in casa ai primi piani lungo la via ferrata. Portando in carrozza anche i viaggiatori accidentalmente sprovvisti di documento di viaggio, i quali per ingannare il tempo disegnavano col dito -da nascosti- sul vetro appannato della ritirata. Lo riscosse dalla fantasticheria la botta che gli diede in fianco Calderone.

“Questa è l’ultima via. Quanti civici abbiamo qui, che non me lo ricordo mai?” chiese.
“Non me lo ricordo nemmeno io’ rispose zeta ‘là in fondo però sono tutti capannoni; non è una gran cosa”.
“Hai voglia… ma stanno in fondo fondo, i capannoni. Qua per adesso ci tocca di caricare le montagne di ruffo dei carabinieri” mormorò Colonna.
Cordigliere di sporco prodottosi dalle deiezioni dell’Arma ghiacciavano sui camminamenti. Calderone e Colonna erano balzati in strada infilando di nuovo i guanti da scesi, nel contrario del gesto corporativo di appena saliti in cabina. Con delle veroniche che denotavano i mastri dell’arte loro, gettavano i sacchi a stritolarsi nella tramoggia. La traccia continua, mentale del rumore di betonaggio che producevano le fauci della macchina, a volte addirittura cavava zeta dal sonno in quelle mattine di festa comandata nelle quali poteva dormire a lungo, come se detto romore smembrasse coi denti di ferro (appestati dai batteri fecali) le porte delle regioni profonde del dormiente. Abbassò il volume del riproduttore digitale.
All’improvviso in istrada Colonna si mise a gridare: “E ALLORA TORNAMMO A NOVERAR L’ETATE DEL NOSTRO SCONCERTO!”.
Saltava come al palio dei buffi. Zeta nel sentirlo guardò nel piccolo monitor retrovisore scuotendo la testa. Il piantone, che di sicuro surgelava per l’aria baltica che si andava alzando, sussultò un poco, lo si vide dal beccheggiare che fece la canna della mitraglietta. Calderone intanto se la rideva, senza smettere di gettare dentro il ruffo.
‘”inisce che trovi quello che ti spara, eh Colonna” disse zeta non appena i due, strenfianti/ridanciani, riapprodarono in cabina.
Riatta-tatta-tattarattaatatazà” buttò fuori Calderone con le mani messe a mitraglia.
Zeta lo osservò: punk obeso della nettezza urbana: occhi bistrati anche in servizio ma palmi delle mani ormai fattisi di scisto; tagliuzzati a vivo da una lama terrosa che deposita nella pelle una traccia che non si leva neanche strofinando a morte (e malgrado i guanti – ogn’ora pieni di càmole).

Così andarono avanti assumendo spazzatura lungo i primi civici della via. In lontananza, al fondo della strada, laggiù dove nelle giornate di bel tempo si scorgevano le montagne, videro il cielo scaricare lampi.
“E’ arrivato il temporaleee…” canterellò sottovoce Colonna.
“Ma i lampi non li fa solo l’estate?” chiese zeta.
“Chi sta bene e chi stammaleee…” prosegue.
“D’estate è solo per la caldana che vedi i fulmini. Se li vedi anche d’inverno allora vuol dire che piove veramente o che il fumo delle ciminiere ha bucato l’atmosfera” gli rispose Calderone con l’aria di sapere tutto.
Colonna si mise la mano in bocca. Poi guardò il suo compagno.
“O che magari nelle chiese le statue degli angioli cadono giù dai basamenti… Ma che cazzo dici? No, veramente: cosa cazzo dici? Ma non sai neanche come funzionano i temporali?” s’indignò.
“Perché? Prima il lampo e poi il tuono e poi la grandine. Non funziona mica così? Oh guarda che nei campi la grandine tira giù tutto; l’ho visto succedere” rispose Calderone sinceramente stupito, volgendosi verso zeta.
“Io però i lampi li vedo solo d’estate. Caramelle?” insisteva zeta.
E un’altra volta Colonna con la mano in bocca.

Nella direzione opposta li incrociò una volante che tornava alla caserma.
“Salutate i militi” disse zeta.
Per tutta risposta Calderone spaccò rovinosamente coi denti il confetto cristallino e di menta piperita che gli avevano appena allungato.
Colonna invece si sporse attraverso l’abitacolo verso il finestrino di zeta, si mise una mano dove sta l’uccello e verso i carabinieri di passaggio sibilò: “Vasame accà”. Questo anche in ragione del fatto che Colonna proveniva da una genealogia che nella sua lunga storia aveva prodotto papi, porporati e capitani di ventura, tutti, nel secretum delle loro stanze, dediti al lavorìo incessante della poesia.

Poco avanti, sempre sulla destra, c’era uno spiazzo erboso tra caseggiati, con alle spalle un tratto di quelle selve urbane fatte di cespugli e discarica, addossati di norma alle cabine dell’Enel. Dietro a questa vegetazione è uso che ci passi la ferrovia oppure parta un viottolo che finisce in una teoria di orti dove l’eternit dismesso viene riconvertito in materia di abituri o depositi d’attrezzi. Di solito questi orti di città affacciano su una roggia che agli orti è come se li contenesse tutti: ristretta comunità d’acque e terre grata alle piogge, ma anche schiava delle divoranti, afose stagioni tutte caligini tipiche della pianura com’è adesso. Resta comunque che non si sa cosa ci fosse dietro la selva; di sicuro invece e di ben visibile c’era una sorta di contrafforte di sacchi traboccanti rifiuti, nella parte di marciapiede che arrivava vicino alla strada, quasi addossato al muro confinante, che era di un deposito col tetto fatto di beole, quasi piatto. Zeta fermò il camion. Il suono apocalittico del rùmine coprì i rumori della via, mentre Calderone e Colonna scendevano. Zeta li vide avvicinarsi ai sacchi, prenderne uno a testa per poi, invece di lanciarli, posarli entrambi tra i piedi, quasi all’istante, come allarmati/sorpresi per qualcosa che avevano visto a terra, nascosto dallo sporco. Calderone si volse, fece un passo verso la cabina e si diede ad ampi gesti a zeta perché scendesse velocemente. Zeta scese.

“Che succede?” chiese camminando.
Calderone e Colonna guardavano al suolo. Fu quando zeta arrivò accanto a loro che vide. Sul marciapiede c’era il cadavere stramazzato di un caprone. Zeta anche lui, come gli altri due, rimase imbambolato. Era una bestia grossa e, si suppone, da viva, d’aspetto fiero, con le corna a sciabola, il pelo ora impaltato ma grigio e bianco, la gran barba.
“E’ un caprone” disse Calderone.
“Dici che è un caprone…?” zagagliò impercettibilmente zeta.
“Già perché io non so riconoscere un caprone adesso” replicò offeso Calderone.
“Ma chi l’ha messo qui?”
“E che ne so?”
Allora mormorò Colonna: “Va bene, è un caprone, ma avete visto cosa abbiamo lì sotto?” e con un piede schiacciò il fianco dell’animale. Ne venne – acquatico- un suono di coratella smossa.
Il caprone in effetti era sventrato per tutta la lunghezza dell’addome, da sotto il collo fin quasi ai testicoli. Gli intestini, forse per il fatto che l’animale era stato sbattuto a terra di fretta, sciabordavano fuori un po’ più del normale, come una matassa che si scioglieva in tutti i suoi fili.
“Guarda un po’ il sangue, è spesso che sembra mosto d’uva” disse Calderone andandoci dentro con gli scarponi da lavoro.
“Bravo. Dai un’altra volta, lavatici anche la faccia dentro” lamentò zeta con un certo schifo.
“Ma chi sarà mai il cristiano che ha fatto ‘sta mattanza?” domandò Colonna, che s’era tolto il cappello di lana dal capo.
“C’è di sicuro che l’hanno fatta di fresco – disse zeta – cose da pazzi”.
Sulle prime mulinarono l’idea di andare a denunciare la cosa alla caserma dei carabinieri. Ma cangiarono idea assai velocemente.
“Poi fanno domande. Quelli fanno sempre domande. Va a finire che ci fanno credere siamo stati noi a commettere-lo-scempio” disse zeta.
“Guarda che però io la bestia non la levo di lì. Non la tocco neanche. Per me possono benissimo venire a mangiarsela le cagne del quartiere, i topi, le nottole o quel cazzo che è” disse Calderone.
“O magari se lo prendono gli zingari che hanno le giostre vicino ai cantieri’ gli fece eco zeta.
“Tagliamogli la testa, al capro” sussurrò trionfante Colonna.
Siccome alla fine decisero all’unanimità che non erano affari loro, fecero per andarsene via, non prima di aver sbancato la barricata dei sacchi.

Si erano appena avviati che Colonna prese zeta per il braccio e gli fece cenno di fermarsi.
“Guardate un po’ là” disse, e aprì la portiera saltando a terra, dando così modo agli altri di sporgersi fuori.
Dal folto della selva era sbucato un vecchino piccolo e svelto che trottava verso la carcassa del caprone con un’accetta in pugno. All’altezza degli occhi di quasi sonno, a zeta pareva essere a tutti gli effetti un coboldo dei boschi, ma maligno.
“Ehi!” gridò Calderone mentre già il mezzo viaggiava a marcia indietro con Colonna appeso alla portiera come i tranvieri di una volta stavano a parafulmine sul predellino.
Piombarono al prato tra lo stridore dei feròdi. Il vecchino, arrivato che era presso il capro, con l’accetta da beccaio e l’intenzione palese di voler cominciare a farlo a pezzi, un poco si spaventò. Era un ometto magro e mezzo rattratto, con le gambe a O come un fantino in disarmo scappato dal ricovero. La faccia aveva i tratti succiati dagli stenti d’una vita intera. Indossava braghe di tela blu da operaio e un paltò nero abbottonato fino al collo. In testa portava un berretto con la ribaltina di pelo che si allacciava in cima. Anche l’accetta sembrava una cosa fatta in casa, ribattendo il ferro al riparo della rimessa in fondo alla corte. Come tale, doveva essere un’arma micidiale.

Il vecchino deglutì e disse: “Questo crasto è mio, per cui chiedo cortesemente che mi lascino lavorare. Sono in possesso della patente di castrino e se occorre la posso anche esibire”.
I netturbini punk fecero tanto d’occhi.
“Eh?” ribatté Calderone che tanto non aveva capito niente.
“No senti vecchio…” attaccò a dire Colonna inaspettatamente minaccioso, facendo un passo avanti.
A quel fare il vecchino ebbe una reazione improvvisa, inspiegabile.
“Il crasto è mio e non me lo tocca nessuno!” esclamò menando nell’aria un gran fendente d’accetta che non passò molto distante da Colonna, il quale fece un salto all’indietro col terrore subitaneo negli occhi.
“Ma tu guarda questo…” disse zeta, che il salto all’indietro un po’ lo aveva fatto anche lui.
Colonna si agitò, poiché perdeva facilmente il lume della ragione.
“Dai Robi… e poi lo vedi, questo vecchio non è tanto registrato nel cervello. Stagli lontano, che poi se ti scortella a chi la vai a raccontare?” gli disse prontamente Calderone sapendolo scosso.
Colonna per tutta risposta andò di volata al camion e prese una vanghetta che solitamente usavano per dare qualche mestata al bolo quand’era particolarmente solido e indocile tanto da far otturare la pressa. Tornò con la vanga alzata pronto a spaccare la testa al vecchino. Quello, a vedere l’altro in assetto di battaglia, scappò verso la selva più alla svelta che poté. Zeta fece per trattenerlo, ma senza molta convinzione, visto l’uso in certa qual misura poco urbano dell’accetta. Calderone invece con la sua massa grassa bloccò la corsa di Colonna, che altrimenti avrebbe con ogni probabilità abbattuto il vecchino in mezzo al prato.
“Hai premura?’” lo salutò, murandolo.
“Lasciami andare o t’ammazzo pure a te” sibilò Colonna tra le braccia di balia di Calderone.
“Ma che fai’ disse zeta ‘ti metti con un vecchio…”.
“Quello a momenti mi ammazza”
“Suvvia, ma l’hai visto… E poi quando l’hai ammazzato ci tocca di caricarcelo in testa e buttarlo a schiacciare dentro ai rebbi della macchina. Guarda, piuttosto mi piglio il caprone a braccia, piuttosto” disse Calderone, persino serio, forse.
Colonna si calmò. “Che cazzo me ne frega: lo scanno a quello” mormorò.
“Pensa che bello però, morire in servizio. Con la medaglia, il diploma alla famiglia e tutto il resto: la gratifica, il cesto a Natale con dentro l’oca viva…” fantasticava Calderone, già conciliante.
Colonna si diresse in mezzo allo spiazzo e gridò, rivolto verso la selva: ‘FAREMO SCEMPIO DEI GIRONDINI IL GIORNO VENTISETTE DEL MESE DI PRATILE’.
“Non dare spettacolo, che già la gente pensa male delle municipalizzate!” lo esortò a gran voce zeta dal marciapiede, anche lui ora con un piede nel sangue gommoso della bestia morta.
Dalla selva (si vide un certo stormir di fronde) gli rispose la voce del vecchino.
“Giù le mani dal crasto! Il crasto è mio!” guaì a sua volta.
E infatti venne fuori, stenterello e sparuto con la sua accetta al termine del braccio abbandonato molle lungo il fianco.
“Però ti mettevano paura le guardie eh, vecchio scemo” disse zeta quasi affettuosamente.
Colonna digrignò i denti e fece un paio di passi di corsa come se gli fosse presa di nuovo la frega del sangue. Ma faceva finta. Il vecchino scomparì di nuovo nei cespugli.
“E finiscila Robi, che abbiamo il turno da finire e quasi tutti ‘sti civici ancora da fare” disse Calderone, che alla fine s’era stancato del tutto.
“Va bene, ma che facciamo col caprone? Non è a-bi-geato? Macellazione indebita?” chiese zeta.
Gli altri due lo guardarono con aria di compatimento.
“Ancora con questa storia?? Ma vedi di andartene, pirloide” gli dissero con il braccio teso.
E Colonna: “Lasciaglielo squartare in pace il suo capro, che te ne frega”.
‘”E poi il fegato bollito fa bene. C’è il ferro, il siero e tutto quanto” aggiunse ancora, didatticamente, Calderone.
“Certo certo, chi lo nega…”
“Io comunque stavo scherzando, se non si era capito” disse zeta.

Si riavviarono quindi in fila indiana verso il camion.
“Gli ho fatto prendere paura al vecchio” mormorò Colonna.
“Sai che roba…”.
Calderone guardò il cielo.
“Che strano’ disse “è ancora dietro a far fulmini, e non piove”.
Tutti si misero ad osservare la pietra compatta delle nubi. Fatti cento metri con la motrice, si fermarono a motore acceso. Dai finestrini videro il vecchino trascinare faticosamente la carcassa del crasto sopra l’erba, lungo il prato, fino a dentro la selva, come quegli animali buffi che però per sopravvivere, scesa la notte, scalcano brano a brano le carni delle loro prede nel buio della terra.

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9 Commenti

  1. Complimenti, tale Damiano Zerneri. Piaciuto, piaciuto. Unico appunto: non me lo vedo il personaggio di Zeta discettare dei Pretenders. Fossero stati i Nuclear Fuckers o i Pamperines….

  2. Bravo piero sorrentino! Ottima scelta. Damiano è molto bravo (lo considero un fuoriclasse) e spero che sia presto conosciuto e che qualche grosso editore si interessi a lui. Ha un blog ricco di gioielli come questo che hai pubblicato. Vedere e leggere per credere:
    http://strindberg.livejournal.com/

    La tua attenzione per Damiano t’innalza al settimo cielo nella mia considerazione (per quello che vale, ovviamente).

    Bart

  3. “Avresti mai
    saputo scrivere: “certe sbersole grandi come offelle”?”

    no, non mi sarebbe mai passato per il protozoo del cervello. Che faccio? Mi impalo da me?
    :-)
    sorridi, sei su telenova.

  4. @ Al De Santis.

    Sono la stessa persona.

    @ sud

    Perché impalarti proprio ora che hai potuto leggere qualcosa di ottima fattura:-)
    Prendi nota che ti è capitato di leggere e ti capiterà di leggere, se Nazione Indiana continuerà ad ospitarlo, un autore di rilievo.

    Di nuovo complimenti a piero sorrentino, che si rivela un fine e attento ricercatore di talenti.

    Bart

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