La scrivania è un optional

di Marta Bonetti 

 

Ho 34 anni, lavoro da sei. Sono laureata in filosofia e vivo a Lucca. Sono una di quelle che per spiegare che lavoro fa, ha bisogno di un po’ di tempo. Se devo cavarmela con una definizione, mi definisco una “partita Iva”: La forma giuridica, in luogo dei contenuti del lavoro. Mi occupo di formazione. Sono in grado di seguire, in totale autonomia, dall’inizio alla fine un corso finanziato dal FSE (Fondo Sociale Europeo). Dal reperimento fondi al reperimento allievi, dal coordinamento docenti ai comunicati stampa, posso fare tutto. Mi occupo in particolare del back office, il lavoro che sta prima e durante, ma in ogni caso, dietro le quinte. Lavoro e vengo pagata “per progetti”. Lavoro con “l’immateriale”, con il linguaggio, le relazioni. Mi bastano un computer e un telefono. La scrivania è un optional. Nei due anni dopo la laurea, mentre sperimentavo, come utente, la gamma completa di attività formative, una parte di me si è trasformata, in maniera irreversibile, in una disoccupata. Per essere disoccupata ormai lavoro anche 50 ore a settimana, sabato e domeniche incluse. Ma quella parte di me continua a sentirsi senza lavoro. Come una senza lavoro mi considerano quelli della famiglia, che però si confondono e mi chiamano anche “donna in carriera”. Nessuno ha più categorie certe.

Ho un rapporto ambivalente e contrastato con il lavoro. Per dirla con Meda, “il lavoro esercita su di me un fascino di cui mi sento prigioniera”. Ci sono molte cose che mi piacciono dei miei lavori. Mi piacciono certe sensazioni: il senso di sicurezza, il senso di me, che viene dal mettere alla prova le mie forze in un’impresa. E’ una sensazione fisica, corporea, come di stare in piedi sulle mie gambe, avere confini, limiti. Dopo l’università iniziare a lavorare è stata un’iniezione di realtà. La mia amica, senza mezzi termini, la chiama l’uscita dalla “fortezza vuota”.

All’opposto, mi piace il senso di leggerezza che deriva dal “non aderire mai completamente”: cambiare gruppi di lavoro, non avere orari e, naturalmente, non dover chiedere le ferie. Mai! Anche questo si traduce in una sensazione, qualcosa tipo “non avere confini”: Mi piace sentirmi flessibile. Sentirmi post: fluida, mutevole, mutante, plurima ecc. Lo trovo molto seducente, come non avere un corpo. Continuando in questa giaculatoria, mi piace la velocità che ho acquisito nel finire i compiti. Il mix creativo di stili cognitivi e codice culturali, l’ibrido, la multidisciplinarietà. Sono una donna curiosa. Mi piace “guardare con altri occhi”, lasciarmi contaminare da logiche diverse. E poi mi piace avere un motivo per spostarmi e prendere il treno. Farmi rimborsare le spese dell’albergo e del taxi. Le rare volte che questo accade.

 

Servizi che servano i cittadini

Uno dei miei principali committenti, forse il principale, è un’amministrazione pubblica. Mi piace lavorare in un ente pubblico. E’ qui che ho avuto il mio primo incarico di una certa consistenza.

Anche agli enti pubblici l’organizzazione del lavoro si sta trasformando, in tempi rapidi. Nel settore della formazione, la maggior parte dei servizi sono esternalizzati o in via di diventarlo. All’interno i ruoli sono stabiliti e i livelli diminuiscono. Ai dipendenti vengono attribuiti compiti e autonomia sempre maggiori. Non so descrivere la situazione in modo analitico, ma si avverte quotidianamente un aumento della tensione e del nervosismo.

Io ho svolto fin dall’inizio una pluralità di compiti. Non mi pare di aver mai detto “non mi compete” perché non mi sono mai stati chiari i confini del mio ruolo. In genere, agli esterni si tende ad attribuire fasi intere di lavoro, da condurre dall’inizio alla fine, risolvendo gli intoppi di percorso, senza perdere di vista il risultato finale e il senso complessivo del lavoro.

In questa fase di transizione, logiche e modalità di lavoro diverse coesistono. L’organizzazione complessiva dell’Ente è ancora pesante. La settorializzazione delle attività rende necessario un accumularsi di definizioni formali, di strutture e di procedure. Si conserva un modello di “rapporti tra organizzazione e singolo, marcato da dissimetrie e da separazione tendente a considerare il singolo come inaffidabile, potenzialmente portatore di disordine”. Singoli appaiono spesso sia i lavoratori esterni che gli utenti. Mi piace costruire piccoli spazi di cittadinanza, servizi che servano i cittadini.

Ho cominciato seguendo corsi di qualifica per donne con bassi titoli di studio. Le utenti erano donne rimaste sole, separate, vedove, per le quali il lavoro era un bisogno urgente. Talvolta donne che lavoravano in nero, a domicilio, per le quali la qualifica rappresentava la possibilità di entrare a lavorare in “struttura”: orari e stipendi certi. Talvolta donne alla ricerca di un motivo per uscire di casa. Riconoscevo l’incertezza con cui si avvicinavano ai servizi, la pazienza con cui aspettavano, la difficoltà nel formulare le richieste, la gratitudine un po’ eccessiva di chi non ha la certezza dei propri diritti e sopravaluta la disponibilità degli altri.

Io avevo un incarico di “tutor”. […] Il lavoro in un ente pubblico è stata un’esperienza importante dal punto di vista della mia percezione dei diritti dei lavoratori. Dopo qualche esperienza nel no profit, il pubblico mi appariva come il regno dei diritti dei lavoratori: cartellini, orari di entrata e uscita, ferie, mansionario e stipendi certi. Eravamo noi, gli esterni, gli unici a esserne esclusi. Uno sguardo meno arrabbiato lunghe conversazioni con le sindacaliste del settore mi hanno mostrato l’esistenza di altre disuguaglianze. Tuttavia messo a confronto con il lavoro dei dipendenti, il mio sembra ancora una pratica semiprivata. Mi sento un’ospite. E’ difficile mantenere il rapporto salario-ore lavorate. I tempi di pagamento delle fatture vengono rispettati raramente. Come per le donne dei corsi di cui ho parlato fare e reiterare richieste per me è una fatica enorme che spesso prende le forme di un attacco di nervi. Sono più brava a fare con quel che c’è, a lavorare in economia, ad arrangiarmi insomma. Poi però mi stanco, e mi arrabbio.

Questa vita distrugge, sai

Sono stanca in questo periodo. Forse è perché non ho fatto le vacanze. Forse è perché c’è la guerra. Forse perché mi sento di passaggio, precaria.

Nell’ultimo anno sono entrata e uscita da molti gruppi. Ho alcuni committenti stabili, mi propongono incarichi da diversi anni. Si tratta di collaborazioni intermittenti che non si stabilizzano mai troppo. In questo momento sono sei i gruppi con i quali collaboro, altrettante le sedi di lavoro. Due fuori provincia, una fuori regione.

L’organizzazione per progetti legati a finanziamenti pubblici accentua la destrutturazione dei contesti di lavoro. Le organizzazione sono effimere e non trasmettono, in realtà, nessuna organizzazione del lavoro. Manca il tempo di affezionarsi, di imparare ad avere fiducia.

Nel mio zigzagante collaborare, mi sento sempre messa alla prova, raramente protetta. Passano gli anni e la mia identità lavorativa rimane instabile, perennemente in bilico tra la libera professionista e la parasubordinata, tra lo spettro della disoccupazione, l’ebbrezza dell’autonomia e l’esperienza quotidiana dell’autosfruttamento.

“Sono destinata ad un grande lunedì. Ben detto! Ma la domenica non finisce mai” (F. Kafka).

Come per ogni “autonomo di seconda generazione”, essere disponibili per me è un imperativo. La mia giornata lavorativa perde confini di una rincorsa affannosa di urgenze e telefonate. Sto sempre sul mercato. Con al fine dell’ultimo corso finisce anche la mia occupazione. Il margine di rischio, perché i progetti possono non essere approvati. Vivo nella necessità costante di accantonare lavori. C’è sempre un motivo per non rifiutare un lavoro, anche quando ti sei appena resa conto che stai scoppiando. Oggi lavoro contemporaneamente a progetti che partiranno fra 6 mesi, sempre che siano finanziati, e a progetti che ho pensato un anno fa e ormai sembrano appartenere a un’altra vita. Sarò pagata “in funzione dei tempi di erogazione del contributo da parte dell’ente erogatore”. Nessuno dei miei progetti sopravvive da solo. Bisogna nutrirli tutti, ricostruirne continuamente il senso, rassicurare i committenti che si sentono sempre abbandonati. Un’opera infinita di tessitura di cui, si dice, le donne siano maestre dall’alba dei secoli, ma che resta invisibile e non retribuita.

Fra un gruppo e l’altro la mia vita si sparpaglia. L’effetto complessivo è una sensazione di vaghezza e dispersione. Scivolo in continue regressioni e vengo assalita dalla nostalgia del passato. Non quello della “grande fabbrica” che qui non si è mai diffusa e non mi pare abbia creato un immaginario. Ma il mio passato d’infanzia, quello della campanella che annunciava immancabile la fine della scuola. Si tornava a casa, c’era da mangiare pronto e tutto era stato pulito. Come pulisce bene la mia mamma rispetto a me!
In questo postfordismo di provincia, mentre tutto scorre, perdo il senso di quello che faccio e del perché. Chi sono? Dove sto andando? Per provocazione mi chiedo perché lavoro. Per realizzarmi, o per i soldi che mi danno. Forse, come le donne dei miei corsi, lavoro per dare un destino diverso alla casalinga che mi sta attaccata alle spalle, per fronteggiare l’angoscia di essere ricacciata tra le mura di casa, restituita malgrado tutto il mio impegno ad un destino femminile vissuto come estraneità dal mondo, rischio concreto di ricadere su me stessa.

Vale la pena lavorare? Non sarebbe meglio rimanere  a casa? Credo che sia una domanda che si può porre solo una donna. […]

Le mie due amiche neomamme dicono che è il momento di avere un figlio. Un figlio aiuta a situarsi, a dare il giusto peso alle cose. Se hai un figlio non puoi permetterti di non farti pagare. Insomma un figlio ti fa un po’ da madre. Ci  penso… ma forse vorrei un anno sabbatico.

 

Tratto da  Adriana Nannicini (a cura di), Le Parole per Farlo. Donne al lavoro nel Postfordismo, Collana Map Derive Approdi 2002
 

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7 Commenti

  1. Bel pezzo, Marta. Io direi che vale la pena insistere. Nonostante gli scherzetti che fanno alle partite Iva. Se poi arriva anche il figlio è meglio.

  2. ..è un pezzo bellissimo, struggente. Mi ci riconosco – nonostante sia un maschio – completamente. Hai trovato l’ordine delle parole (ma soprattutto il pensiero) che cercavo da tempo. Vivo questa condizione un po’ al contrario: io autonomo, a progetto, senza orari, senza il codice binario lavoro/festa (penso sempre al lavoro, eppure sembra che un lavoro io nemmeno ce l’abbia), la mia fidanzata dipendente pubblica. Io l’invidio, lei cerca di convincermi che non è tutto rosa e fiori.
    Però una prova certa l’ho ottenuta: aveva pensato per un attimo di mollare il lavoro per buttarsi nella progettazione europea (che conosce bene) ad altre persone. Ci ha pensato, per qualche giorno. Poi ha finalmente trovato casa, ha acceso un mutuo… e s’è tenuto il lavoro dipendente ;)

  3. L’argomento è molto interessante, mi leggerò anche le altre storie sapientemente raccolte da Adriana Nannicini nel suo testo corale di esperienze femminili.
    Anche in altre epoche non solo quindi in quella post industriale – specie in una economia basata sull’agricoltura come è stata quella italiana fino ad una buona parte del secolo scorso – il lavoro delle donne era componente fondamentale e concedeva generalmente scarsi margini tra realtà lavorativa e vita personale.
    Nei nuovi contesti attuali si rinnova la stessa routine quotidiana.
    In nome di produttività, efficienza ed economicità si confondono le linee di confine tra flessibilità e precarietà, si riducono inoltre le possibilità di programmazione nella propria vita: la pentola sul fuoco – la lavatrice da riempire – sul tavolo da cucina il telefono e il lavoro a progetto o qualcosa di simile.
    La maggior parte delle volte il lavoro è individuale e non di gruppo anche quando si lavora negli uffici, in genere ci si guarda con diffidenza ritrovandosi un pò più sole in ogni caso.
    Anche per le lavoratrici a tempo indeterminato resistere è complicato, molte volte la scrivania sparisce – o anche solo il PC, la stampante, il mouse, i cavetti, al rientro da una maternità e tutto diventa davvero optional ed un modo come un altro per far pressione – mobbing – verticale, orizzontale, trasversale… con versatilità e fantasia tali da fare invidia al Kamasutra.

  4. Lo sfruttamento del lavoro è ormai una realtà organica al sistema economico italiano (if any). Con buona pace dei sindacati e della Sinistra con la esse maiuscola (cioè quella partitocratica e di governo).

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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