La spiaggia (Il male chiaro)

di Stefania Bufano

 spiaggia.jpg

 Ah! Il piacere dell’assenza di volontà su una spiaggia! Lì ci si sottrae alla «vita» […].
E. M. CIORAN, Quaderni
 

Le dune della calda sabbia sotto la pelle erano una sublime cosa per la donna che vi si era distesa. Non aveva nemmeno voluto usare un asciugamano per proteggersi dai fastidiosi granelli che un poco la pungevano, volendo dare attenzione solo a ciò che più le dava piacere in quel momento.
Era passato molto tempo dacché non aveva più visto il mare: le era mancato così tanto da averla fatta decidere di cercare quel posto quasi deserto. L’acqua del mare era talmente limpida che pareva non essere mai stata toccata da alcuno.
 

Non aveva ancora fatto il bagno. Quali sensazioni poteva darle la natura con nulla! I capelli disciolti, chiari e lunghi, s’ondulavano colle punte fra la sabbia, rilucendo quasi in essa. Il corpo rilasciato s’allungava placidamente; le braccia, esili e toniche, si portavano ora alla testa ora lungo i fianchi, il palmo delle mani rivolto a terra. Le dita si spandevano sulla sabbia come per cercare qualcosa, e deboli cedevano al piacere semplice di raccogliere un po’ di sabbia nel pugno. La donna sorrise fra sé e girò la testa da una parte, guardando tutte le cose piccolissime alla propria altezza. Per un attimo le mancò quasi l’aria. Una carezza di vento le freddò la fronte bagnata di sudore, facendole scivolare una goccia lungo l’occhio e il naso, fino alle labbra: si portò la mano alla bocca per asciugarsi, riaprì gli occhi. Allora vide le teste di alcuni uomini in piedi intorno a lei. Erano quattro, forse cinque, forse fra loro c’era anche una donna. La donna distesa strizzò gli occhi, la luce oramai quasi di mezzogiorno l’accecava. Chiuse e aprì di nuovo gli occhi, ma restò ancora più abbagliata. I volti di quelle persone le tornarono davanti; i loro corpi in controluce sembravano più scuri, sinché come ombre abilissime iniziarono a muoversi.
 

 

La donna fu afferrata energicamente e trascinata sulla sabbia per alcuni metri fino alla battigia. Il suo sguardo stupefatto fu subito richiuso dalla sabbia che le arrivava a raffiche sulla faccia. Un uomo gliela rovesciava addosso con i piedi, altri in ginocchio la colpivano con le mani, mentre proprio quella che sembrava una donna la strinse alle caviglie trascinandola con violenza nell’acqua. Il viso sporco di sabbia si ripulì appena; l’aggredita, liberatasi per un attimo con un braccio, si tolse i capelli dalla faccia e respirando affannosamente riuscì a scalciare colei che la teneva per le gambe.
Il gruppo reagì con maggior forza, spingendo la donna sott’acqua che, ormai in preda al panico, si muoveva con furia, come un pesce catturato e buttato in un secchio che sbatte la coda, ribellandosi alla vita che s’allontana. L’acqua bassa e limpida era divenuta marrone per la violenza della sabbia rimossa da piedi, mani, braccia, capelli. La donna era riuscita nella foga a riemergere tre o quattro volte senza però riuscire nemmeno a urlare, e subito era stata ricacciata al buio del fondale. Al terrore sopraggiunse la spossatezza; semisvenuta, la vittima s’abbandonò, i muscoli già contratti s’irrigidirono in pause più lunghe, l’ultimo respiro preso fuori dell’acqua produsse un suono anomalo e impressionante. Gli aggressori temevano il prolungarsi dell’agonia della donna, perciò si accanirono su di lei con maggiore velocità. Sembrava che desiderassero unicamente che tornasse il silenzio di prima: il silenzio accompagnato dalle sole onde del mare.
 

 

La donna si sentì come essere stata lanciata nello spazio. Negli istanti di apnea fu avvolta interamente da un’oscurità che non comprendeva. Il buio non era intorno a lei, era lei stessa. Intorno invece era un buio “chiaro”, indescrivibile. Non era un buio totale perché esso sentiva l’avrebbe portata di lì a qualcos’altro, o in altro luogo. Specie di onde, in un’altalena pressante, la buttavano giù e ritiravano su. Poi la donna fu risucchiata in un vortice. Tutto iniziò a girare a una velocità tale da impedirle di pensare qualcosa di compiuto. Era certa di pensare e vedere qualcosa, anzi, vedeva forse molte cose e tutte contemporaneamente, perciò non riusciva a vederle chiaramente. Le parve fosse tutta la sua vita passata, quella di altri, una luce (no, più che una luce, ancora quel chiarore), poi qualcosa e tutto assieme che, vicinissimo, s’allontanò al tempo di un lampo. Si sentì impazzire, si ribellò allo stremo delle forze volendo disperatamente riuscire a fermarsi in qualcosa. Una parte di lei allora forse tornò cosciente, così riuscì a pensare chiaramente: – Sto morendo. Un attimo dopo tutto riprese a girare con la stessa terribile velocità, allora la donna caparbia riuscì a imporre a sé stessa un pensiero categorico, prima di ricadere nel vortice: – Se sto morendo allora basta! Basta! Purché tutto questo finisca!
 

Nell’istante in cui formulò tale pensiero, la donna riebbe un primo respiro, strozzato per la privazione d’aria. Riemise un orribile rantolo simile al precedente. Un’immagine velocissima le passò davanti. Un’altra ombra: ma era suo fratello! Ora bambino, ora adulto. Riuscì a riaprire gli occhi: l’impatto di nuovo con l’aria e lo stato di coscienza fu violentissimo. L’ombra china su di lei si rialzò velocemente, ed ella alzando la testa di scatto terrorizzata urlò il nome del fratello. Poi si abbandonò subito, stremata. Sentì la faccia a pelo d’acqua, rivide la luce, le cose normali (seppure giravano tutte), poi muovendo la testa riconobbe una stoffa sulla guancia: del cotone, un lenzuolo, la federa di un cuscino. Cercò di tirarsi su, ma ricadde distesa. Mormorò di nuovo il nome di qualcuno. Un uomo alto con indosso un camice bianco parlava al telefono, guardando fuori da una finestra: – Sì, si è risvegliata – diceva.
– Stavo morendo. Cosa è successo… – disse come fra sé e sé la donna, con voce esile. Un senso di tristezza l’assalì, come se proprio allora fosse dovuta morire. Gli occhi rapidamente le s’inumidirono. L’uomo che aveva creduto suo fratello parlava ancora al telefono; parlava di “stato vigile”, nomi di farmaci, esami specialistici, poi chiuse la comunicazione. La donna, che non riusciva a tenere su la testa, ora la muoveva in qua e in là, lamentando un dolore. L’uomo le si avvicinò, le sistemò il cuscino, le mise una mano sulla fronte pregandola di stare calma.
– Cara… – le sussurrò in un orecchio – È tutto finito. – Baciandola teneramente cercò di stringere la donna fra le braccia; ella si ritrasse debolmente, quasi risentita, assente. L’uomo andò a sedersi vicino al letto, preoccupato e sollevato insieme. Voltandosi, con gesto rapido della mano s’asciugò gli occhi, poi tornò a guardare la donna con dolcezza, in silenzio.

– Ho fatto un viaggio… – riprese allora la donna – Un viaggio che… Oh! – singhiozzò – Terribile! Non puoi capire quello che ho vissuto.
– Sì cara, certo, capisco. – disse l’uomo con tristezza e ancora con quello strano senso di sollievo.
– No! – protestò con voce rotta la donna, piangendo e agitandosi – Non capisci! Non capisci!
– Cara, calmati, ti prego. D’accordo non capisco, ma adesso non ti agitare. Me lo spiegherai poi che cosa è successo…
L’uomo si era alzato, carezzava la fronte alla donna che piangeva.
– No, no. Ero sola. Tu non c’eri, non c’eri. Non puoi capire. – continuò a dire lei, ancora quasi fra sé e sé, voltando la testa sul cuscino.
 
 

 (10 – 11 Agosto 2001)

 

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6 Commenti

  1. è bello dire “è bello”ma il bello è ancor più bello,se bello non è bello che cosa fa più bello?Il bello è forse questo,il bello è forse quello.Tra tanti bello,il bello è sempre ancora bello

  2. (“Steso al sole che brucia, quasi per gioco imparo la mia felicità – che non ha più parola.” Fin da giovane consonante con Cioran, sarà una malattia!)

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