Anonimato e responsabilità

di Bruce Schneier, traduzione di Communcation Valley

In un recente articolo, Kevin Kelly mette in guardia sui pericoli dell’anonimato. Va bene a piccole dosi, egli ammette, ma quando è troppo diventa un problema: “In ogni sistema da me analizzato, dove l’anonimato diviene comune, il sistema finisce col fallire. La recente macchia sull’onore di Wikipedia è generata dall’estrema facilità con cui dichiarazioni anonime possono essere inserite in uno strumento ad altissima visibilità pubblica. Le comunità infettate dall’anonimato finiscono con il collassare oppure con il mutare l’anonimato in pseudo-anonimato, come su eBay, dove si ha un’identità tracciabile dietro a un nickname inventato”.

Ciò che dice Kelly è interessante, ma il discorso che ne scaturisce è malposto. I sistemi anonimi sono intrinsecamente più semplici da abusare e più difficili da proteggere, come illustra il suo esempio di eBay. In un sistema di commercio anonimo, in cui il compratore non conosce il venditore e viceversa, è molto facile per l’uno ingannare l’altro. Questo inganno, anche se coinvolge una ristretta minoranza, farebbe diminuire rapidamente la fiducia nel mercato, ed eBay sarebbe costretta a chiudere bottega. Solo che eBay ha trovato una soluzione brillante al problema: un sistema di feedback che ha aggiunto una “reputazione” agli anonimi nickname degli utenti, e ha reso così i venditori e i compratori responsabili delle proprie azioni.

Ed è proprio a questo punto l’errore di Kelly. Il problema non è l’anonimato, è la responsabilità. Se un tizio non può essere reso responsabile, conoscerne il nome non serve a nulla. Se si ha qualcuno che è totalmente anonimo ma anche pienamente responsabile, allora, cavolo, basta chiamarlo Fred.

La storia è piena di banditi e pirati dalla proverbiale reputazione, eppure nessuno conosce i loro veri nomi.

Il funzionamento del sistema di feedback di eBay non è dovuto all’identità rintracciabile dietro un nickname anonimo, ma al fatto che ogni nickname anonimo è corredato da una cronologia di transazioni precedenti, e se qualcuno inganna qualcun altro, tutti lo sapranno.

Analogamente, i problemi legati alla veridicità di Wikipedia non sono il risultato di autori anonimi che aggiungono falsità alle voci di Wikipedia, ma una proprietà intrinseca di un sistema di informazione dotato di responsabilità distribuita. La gente pensa a Wikipedia come a un’enciclopedia: non lo è. Tutti ci fidiamo dell’esattezza delle voci dell’Enciclopedia Britannica perché conosciamo la reputazione di quella compagnia, e per estensione quella dei suoi autori e curatori. D’altro canto, tutti dovremmo sapere che Wikipedia conterrà giocoforza una piccola quantità di informazioni inesatte o false perché non vi è alcuna persona in particolare a essere responsabile della precisione delle voci. Questo sarebbe comunque vero anche se si potesse passare con il mouse sopra ogni frase e vedere il nome di chi l’ha scritta.

Storicamente la responsabilità è sempre stata legata all’identità, ma non v’è ragione perché ciò debba necessariamente aver luogo. Non serve che il mio nome compaia sulla mia carta di credito. Potrei avere una fototessera anonima che provi che ho un’età sufficiente a consumare alcolici legalmente. Non v’è ragione che il mio indirizzo email sia correlato al mio vero nome.

Ciò è quel che Kelly definisce pseudo-anonimato. In questi sistemi, si affida la propria identità a una terza parte fidata che promette di rispettare la nostra identità entro un certo limite. Per esempio, la mia compagnia di carta di credito mi fornisce un’altra carta di credito sotto un altro nome. È sempre collegata al mio conto, ma mi permette di rimanere anonimo quando mi rapporto ai commercianti con cui tratto i miei affari.

La sicurezza dello pseudo-anonimato dipende strettamente da quanto fidata è quella “terza parte fidata”. A seconda delle leggi locali e da quanto vengono rispettate, lo pseudo-anonimato può essere rotto da grandi aziende, dalla polizia o dal governo. Può essere rotto dalla polizia che raccoglie moltissime informazioni sul vostro conto, o da ChoicePoint che raccoglie miliardi di piccolissime informazioni su chiunque per poi effettuare correlazioni. Lo pseudo-anonimato è solamente un anonimato limitato. È un anonimato che protegge da chi non ha potere, non da chi ce l’ha. Si ricordi che anon.penet.fi non ha potuto tener testa al governo.

In un mondo perfetto non ci sarebbe bisogno dell’anonimato. Non sarebbe necessario per il commercio, dal momento che nessuno vi metterebbe al bando o vi ricatterebbe basandosi sui vostri acquisti. Non sarebbe necessario in Internet, perché nessuno vi ricatterebbe o vi arresterebbe basandosi su chi sono i vostri corrispondenti o su quel che leggete. Né l’anonimato sarebbe necessario per i malati di AIDS, per i membri di frange politiche o per le persone che chiamano centri di assistenza psicologica via telefono. Certo, i criminali sfruttano l’anonimato, proprio come sfruttano qualsiasi altra cosa che la società offre. Ma i benefici dell’anonimato, discussi in modo esaustivo in un eccellente scritto di Gary T. Marx, sono decisamente superiori ai rischi.

Nel mondo di Kelly, un mondo perfetto, una forma limitata di anonimato è sufficiente perché le uniche persone che potrebbero danneggiarvi sono individui che non hanno il potere di conoscere la vostra identità, e non chi ha il potere di farlo.

Non viviamo in un mondo perfetto, ma in una realtà dove le informazioni sulle nostre attività (anche quelle perfettamente legali) possono essere usate contro di noi con facilità. Notizie recenti hanno parlato del caso di uno studente che è stato cacciato dal suo college per aver scritto cose poco piacevoli nel suo blog, di aziende che intentano cause SLAPP contro persone che le criticano, e di persone di cui viene tracciato il profilo sulla base del loro discorso politico.

Viviamo in un mondo in cui la polizia e il governo sono costituiti da individui tutt’altro che perfetti, i quali possono servirsi di informazioni personali altrui, unitamente al proprio enorme potere, in maniera impropria e scorretta. L’anonimato ci protegge tutti dai potenti proprio perché non permette a questi individui di ottenere innanzitutto i nostri dati personali.

Questo articolo è originariamente apparso in Wired.

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22 Commenti

  1. Questi articoli di Schneier, pubblicati periodicamente su NI, hanno un grandissimo pregio: mettere a nudo la quasi totale mancanza di basi conoscitive, anche di persone ‘che hanno studiato’, relative al tema privacy.

    Non ha senso castrare l’intervento di Schneier e trasformarlo nell’inutile contesa nick/no nick; il messaggio che contiene l’articolo (e la quasi totalità degli scritti di Schneier) è diverso: mira a fornire al comune cittadino le idee (e poi gli strumenti) per difendersi da quelli che sono i peggiori SPIONI del mondo: gli Stati!

    Postavo, qualche giorno fa, un breve scritto sulla deriva ‘classificatoria’ che sta emergendo anche da noi (e della quale quasi nessuno parla in termini corretti) e questo e gli altri articoli di Schneier sono il naturale complemento a una situazione tragica che ci vede (tutti) classificati e controllati. E non parlo di nick/no nick; quella è una panzana insignificante.

    Non nego che, a fronte dello scarso interesse che destano questi articoli e delle discussioni quasi totalmente assenti, mi appaia sempre più chiaro come gli ‘intellettuali’ italiani (di tutte le categorie e tipologie) debbano, incominciando da ieri, iniziare a rendersi conto che l’anonimato, la classificazione delle informazioni, la loro gestione (in sintesi: la nostra privacy) sono uno degli elementi portanti di qualunque sistema democratico. Perderlo equivarrebbe a perdere una buona fetta della nostra libertà. E dopo essersene resi conto dovrebbero darsi da fare: spetta agli ‘intellettuali’ il compito di creare opinione.

    Strano che questo concetto banale non passi. E’ quasi come se la privacy fosse sempre un argomento che riguarda altri.

    Buona domenica. Trespolo.

  2. La libertà del cittadino-navigatore, isolato oppure urbanizzato nel mondo molecolare, non è paragonabile al vecchio anonimato delle masse. Quello indirizzava, guidava e determinava; questo stupisce.

  3. Ci ho scritto il mio primo romanzo sull’argomento nick e anonimato nel mondo virtuale. Un’opera che sarà ricordata a lungo. Da me.
    Però mi sembra che il post non metta al centro il mondo virtuale e i suoi costumi di anonimato ma il problema della manipolazione dei dati personali, l’informazione, e l’uso potenzialmente destabilizzante che se ne fa. Se non ho capito male ( ma è fra le principali ipotesi, nel mio caso ) la privacy c’entra ben poco. E poi il personale è politico. Alzi la mano chi l’ha sentito.

  4. @Bruno, la privacy è alla base di qualunque altra considerazione. Traduci pure privacy con cittadino e dimentica, per un attimo, i dati. Così come, nella realtà, nessuno, senza un mandato, può entrare nella mia casa reale (quella di mattoni per capirci), allo stesso modo nessuno, senza un mandato, dovrebbe poter entrare nella mia casa virtuale. E per entrarci deve avere un valido motivo.

    Passato questo concetto il resto è una conseguenza; peccato che il concetto, in Italia almeno, non solo non passi, ma sia ignorato.

    Buona serata. Trespolo.

  5. Ok. La penso più o meno uguale. Dicevo che mi sembra che il senso del post sia un altro. Tutto qui.

  6. @Bruno, il senso dello scritto di Schneier lo trovi nell’ultima frase: ‘Viviamo in un mondo in cui la polizia e il governo sono costituiti da individui tutt’altro che perfetti, i quali possono servirsi di informazioni personali altrui, unitamente al proprio enorme potere, in maniera impropria e scorretta. L’anonimato ci protegge tutti dai potenti proprio perché non permette a questi individui di ottenere innanzitutto i nostri dati personali.’

    Da lì si deve partire rileggendo a ritroso lo scritto. Parere personale, ovviamente e quindi discutibilissimo, ma credo di avere almeno qualche ragione.

    Ripeto: in Italia queste idee sono COMPLETAMENTE ignorate.

    Buona serata. Trespolo.

  7. L’articolo di Schenier è del gennaio 2006, in risposta ad alcuni fatti contingenti: una affermazione di Kevin Kelly, il caso Seigenthaler in Wikipedia.

    Al centro della riflessione è la libertà di espressione intellettuale ed economica, che è possibile solo quando l’insieme di informazioni sulla persona è proporzionato al contesto esaminato.

    Sono anonime le elezioni democratiche, è anonimo il denaro contante, è anonimo il malato fuori dallo studio del suo medico, lo è il passante per strada, il viaggiatore in treno col suo biglietto, il whistleblower che denuncia uno scandalo, il testimone di giustizia che rischia ritorsioni dalla mafia.

    Eppure in tutti questi esempi esiste un set di informazioni preciso che la persona sceglie di rendere disponibile, che è adeguato alla situazione e che viene gestito secondo metodi precisi. Ogni forzatura del contesto che porti all’esposizione di informazioni personali è una minaccia alla libertà: brogli, iniquo trattamento commerciale, discriminazione sul lavoro…

    Il che ci riporta all’importanza del contenuto, delle idee espresse rispetto a chi in particolare le esprime, che dovrebbe essere la base del confronto civile (e anche la base delle discussioni su un sito come questo).

    Ho scritto del fattore economico perché è un dato molto sentito in nord America, ma che ha implicazioni forti anche qui, ad esempio con il controllo tributario sulle transazioni economiche.

    E a proposito delle implicazioni legali, ho corretto il testo inserendo un link a SLAPP (Strategic lawsuit against public participation), che è l’uso strumentale dell’azione legale allo scopo di intimidire la controparte con il peso del costo dell’azione difensiva.

  8. Jan, puntualizzazioni precise e non invadenti le tue. Vorrei aggiungere un piccol dettaglio: l’azione legale strategica è MOLTO utilizzata anche in Italia e in molte forme.
    Fra le altre cose in Italia non esiste la class act e, come diretta conseguenza, queste azioni sono ancora più efficaci; spesso è sufficiente spaventare la persona paventando un’azione legale.

    Rimane comunque un dato di fatto: la questione privacy, e mi ripeto, da noi è in larga parte ignorata; buona solo per lo scandalo del momento.
    Non possiamo continuare su questa linea ed è un onere degli intellettuali sollevare il problema della tutela dei dati personali e creare un movimento d’opinione.
    Non si vede nulla di questo e la situazione sta peggiorando giorno dopo giorno senza che nessuno protesti.

    Buona giornata. Trespolo.

  9. Seguendo da un po’ Nazione Indiana, ho notato che anche i redattori si servono di pseudonimi. Per me una regola dovrebbe essere di non dare il cattivo esempio, perché fa peggio un commento falso di un redattore che cento di un lettore.

  10. Forse il tema della privacy e dell’intersezionte tra tecnologie e libertà civili è meno discusso del calcio e dei calendari, ma ci sono molte persone che da anni divulgano e fanno concretamente in Italia.

    Mi vengono in mente Marco Calamari, anima del progetto Winston Smith ed editorialista su Punto Informatico (rubrica Cassandra Crossing, link in NI), Alessandro Bottoni che sta facendo un grosso lavoro tecnico e divulgativo sul trusted computing, ed Equiliber dove Stefano Quintarelli e altri scrivono di tecnologia, TLC ed economia.

    Giusto per fare i primi nomi che ho letto stamattina.

    Forse occorre più lavoro interdisciplinare, più divulgazione, una migliore definizione del panorama concettuale. E idee creative per comunicare meglio, penso al recente filmato di Monica Mazzitelli nei panny di Molly Bloom, “La trappola Disney”

    http://www.youtube.com/watch?v=MqySp7Nq5j0

  11. Perché mai un commento firmato da un nick, sia pure indiano, dovrebbe essere un commento falso? Falso rispetto a cosa?
    E Nico cos’è, una carta d’identità?

  12. Nico sono io, un lettore come tanti altri. Anzi, potrei chiamarmi Nicko o Nick e farebbe lo stesso. Ma in tutta questa confusione io vedrei i redattori come stelle fisse su cui potersi orientare in questa caotica navigazione. Tutto qui.

  13. @Jan, ovvio che ci sono sempre persone di buona volontà che si fanno carico di queste attività (e che seguo da un po’), però, e credimi non voglio sminuire il loro lavoro, ma che impatto anno al di fuori della ristretta cerchia delle persone che li conoscono?

    Sarebbe necessario un movimento di opinione ben più vasto e con la presenza di intellettuali più conosciuti. Così rimane un tema per pochi accoliti; purtroppo.

    Buona serata. Trespolo.

  14. @nico

    Se manipolano non va bene, ma se non manipolano non si capisce perché non possano essere anonimi anche loro, sotto i post degli altri, tutto dipende sempre da quello che uno dice, sta qui, a mio modo di vedere la responsabilità.
    Nel senso che altrimenti ci sarebbe, nei loro confronti, una riduzione di libertà rispetto agli altri lettori e commentatori.
    Soprattutto in un sito che ha una redazione per modo di dire, nel senso che non è un gruppo unitario, ma venti o non so quante singole persone ognuna con le sue posizioni differenti.
    Posso aver torto, ma anche questo, credo, è materia di discussione.
    Del resto di fronte alla possibilità materiale di farlo preferisco ammetterla e parlarne con franchezza, piuttosto che pretendere santità da una parte sola.
    Io amo l’anonimato riconoscibile, la costante, ma sono anche realista.

  15. E’ utile pensare agli aspetti dell’anonimato e dell’identità riferendoli a un contesto. Nel caso di eBay esso è definito come la compravendita di beni tra persone, attraverso un sistema di reputazione. Come posso forzare questo contesto?

    Il primo e più ovvio modo è vendere beni scadenti, non conformi a quanto dichiarato, spediti in ritardo. E’ ciò a cui il sistema di reputazione cerca di rispondereere.

    Un secondo sistema è creare più account sotto nomi diversi, offrendo beni analoghi a condizioni leggermente diverse in modo da attaccare la capacità dell’utente di confrontare i prezzi, creando cloni di concorrenti per manipolare il mercato.

    Concentro l’attenzione quindi su due fattori: il contenuto della transazione (il bene venduto, prezzo, qualità, consegna) e il contesto in cui essa avviene (il sistema di ecommerce eBay, reputazione, policy e sistema di pagamenti).

    Contenuti integri e un contesto non manipolato permettono ad acquirenti e venditori di interagire, e ad eBay di funzionare.

  16. “Contenuti integri e un contesto non manipolato permettono d acquirenti e venditori di interagire ed ad eBay di funzionare.”

    Questo vale ovunque, non solo nelle transazioni commerciali.

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