L’alba dell’uomo digitale: linguaggio cercasi

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 di Simone Ciaruffoli
 
Scimmie tecnologiche (l’utente)

Si presuppone che una rivista di cinema orbiti sul nucleo di cellulosa del film, tralasciando gli itinerari segnati dal reale, o quanto meno, sfiorandoli soltanto per un processo osmotico che il cinema sempre accorda con la vita. In poche parole: pensiamo di occuparci dell’esistenza attraverso il film. Questo per dire che oggi, parlare di telecamere digitali, in realtà, è come permettersi di rubare il lavoro alla sociologia o all’antropologia moderna. Il digitale è ancora qualcosa che intrattiene un forte rapporto con la vita prima che con il cinema, e si sposa con il quotidiano vivere però senza il possesso di un linguaggio.

 

Ha ragione Gianni Canova quando nell’introduzione a questa rubrica del numero scorso, dice che all’utilizzatore della macchina fotografica digitale non è richiesta nessuna competenza. Naturalmente questo vale per qualsiasi oggetto di nuova tecnologia, telecamere comprese. Le si usa infatti come protesi della mano (non dell’occhio), agganciate come fossero il manico di una racchetta da sci, come qualcosa da tenere ben saldo per la preziosità o utilità immediata che ne deriva. Piccole, sottomesse, sorde e non-vedenti, rispondono a un’esigenza di pura pruriginosi tecnologica. Lo sguardo decede sullo schermino della telecamera, da lì non nasce, e l’unica esperienza che il comune utente realizza è quella prensile. Non creiamo immagini, le impugniamo. Non realizziamo un mondo, semplicemente lo registriamo sottraendogli tutto il suo patrimonio formale e metaforico. Per questo ciò che abbiamo visto dello tsunami non è altro che la registrazione di un velo di acqua che scivola da una vasca, non l’immane tragedia che è stata. Per intenderci, non è il contenuto che è venuto a mancare in quelle riprese, ma quel capitale di forma di cui sempre si ha bisogno per avvicinarci al complesso retorico che la realtà sa vestire leggera. Con la telecamera in mano sembriamo come i primati di 2001 di fronte al monolito, sconcertati da un oggetto che non si sa da dove arriva e a che cosa serve veramente.

 

Bricolage cinematografico (il Cinema)

La democratizzazione dell’immagine nell’organismo cinematografico apportata dall’avvento del digitale, è quindi qualcosa che investe il film per mezzo di un percorso discendente che dal bricolage casalingo vira verso il cinema. Ma che tutti possano girare un film poco importa, soprattutto quando nella maggior parte dei lavori è evidente la tara che ne consegue. E cioè che il fine non giustifica il mezzo, anzi, che il mezzo, per la facilità d’impiego, diventa la cifra del film per merito di un utilizzo così manifesto da schiacciare l’essenza stessa del cinema. Quando il digitale oltrepassa il suo essere mezzo tecnologico e si fa discorso solipsistico (si pensi ai dogmi…), significa forse che ha già ecceduto, che ha varcato la soglia entro cui lavorare. Quando la facilità di utilizzo si rivela come facilità di cinema, semplicità concettuale, significa non avanzare ma tornare indietro di quarant’anni nella storia del cinema. La pellicola certo può essere soppiantata dal digitale senza problemi (e lo sarà), ma questo sorpasso non necessariamente dovrebbe andare a discapito dell’essenza del cinema. Il digitale è un nuovo mezzo di “elaborazione” della realtà, non uno schiacciasassi che in nome della democrazia artistica brucia le conquiste estetiche della pellicola. Il digitale dovrebbe darci e dirci di più, il suo linguaggio dovrebbe essere massimalista oltre e più di quello della pellicola, e non giustificare il suo minimalismo con la scusa (puerile) della povertà del mezzo. Quasi tutto il cinema digitale sembra incredibilmente già morto, e questo perché non lo si usa come mezzo per la ri-rappresentazione del reale, ma come promozione e riproduzione autoreferenziale di se stesso. Quello che vediamo in circolazione dunque non può essere ancora il linguaggio “modernizzante” del digitale, quello che ci aspettiamo da tempo, ma semplicemente le sue qualità intrinseche. Non una sua dialettica ben affinata, ma semplicemente una pratica digitale, pragmatica del suo impiego, meglio, il suo bricolage.

 

Zoom, o dell’oggettivismo (la Tv)

Siamo ancora all’alba dell’uomo digitale. Il percorso che lo porterà a una piena coscienza di sé è a dir poco lungo. E’ una forbice dura a chiudersi anche per merito dell’ambigua prassi che si è abituati a chiedere all’immagine digitale. Il dilettantismo, il falso documentarismo derivato dall’immediatezza dell’uso che si è propri fare e richiedere a una telecamera, sono il passaporto di credibilità. Più un’immagine digitale è scevra di una messinscena, più si è portati a crederle, così da avvalorare proporzionalmente una certa rozzezza e grossolanità. Basti pensare che innumerevoli servizi di real tv (dove protagoniste sono le imprese rischiose del cittadino) vengono prima girati da troupe professionistiche e poi “sporcati” in post-produzione, proprio per creare un filtro d’immediatezza, realismo, e dunque casualità. Ma quello che più interessa rimane l’approccio che l’amatore (o scimmia tecnologica) ha nei confronti della telecamera digitale e dello spazio in essa inglobato. Un approccio che a dire il vero viene adottato anche dalla Tv. Per esempio la zoomata, che con il cinema chiude pressoché nella seconda metà degli anni ’70 (Kubrick con Barry Lyndon ne fa un geniale e definitivo epitaffio) sembra essere l’ultima garanzia di oggettivismo televisivo imprescindibile; un cambiamento di focale repentino annuncia allo spettatore che chi sta riprendendo è in balia degli eventi e, come lo spettatore, non può sapere a cosa sta per assistere. Questo, dicevamo, è l’atteggiamento tipico dell’uomo della strada con in dotazione una digicam: continue zoomate a saturare una distanza solo con l’occhio, non con il corpo. Certo, è arcaismo stilistico questo, ma per lo spettatore urbano rimane un potentissimo dispositivo voyeuristico, esente però dal pesante onere di mettersi in gioco personalmente.
Arriverà quindi il bel giorno in cui qualsiasi cittadino sarà dotato di una telecamera digitale (come oggi di un cellulare) e all’informazione televisiva non rimarrà che inserirlo nei suoi ranghi. Sino a quando…
 

Epilogo fantastico (il futuro?)

… giungerà un tempo in cui l’informazione ufficiale verrà registrata dal comune cittadino. I telegiornali e le trasmissioni a carattere informativo saranno impaginate con immagini prodotte in loco dall’uomo della strada, poi montate in studio e accompagnate dal commento giornalistico. Si stabilirà coi residenti delle città un rapporto lavorativo a cottimo, verranno pagati solo i minuti mandati in onda, al netto, dopo che la postproduzione avrà defalcato le immagini inservibili. Padroncini, con le proprie telecamere, esperiranno alla funzione di testimoni della strada con la compiacenza e la volontà carrierista di liberi professionisti. Verranno fissate parcelle, nelle quali sarà la regola dell’esclusiva a determinare il costo del servizio. Paradossalmente, la ripresa di una tragedia tra le pareti domestiche, proprio per la singolarità e soggettività delle immagini, conterà su di una remunerazione molto superiore rispetto ai documenti di una guerra o strage collettiva, con tutto il loro prontuario iconografico e pluralità di prospettiva di cui si è soliti entrare in possesso. Naturalmente, il rischio che le aziende televisive cadano nell’acquisto di immagini falsificate, viziate dal morbo dell’arrivismo e del guadagno facile, sarà tanto probabile quanto la possibilità che evenienze di questo tipo si verifichino su incentivo delle Televisioni stesse. In internet si scaricheranno semplici e veloci manuali del giovane videoreporter, i conseguenti attestati garantiranno una severa competenza e un maggiore guadagno rispetto ai non professionalizzati. La nascita di un sindacato sarà poi l’ultima frontiera, lo spartiacque tra l’arrembaggio selvatico del libero professionismo e l’organizzazione artigiana nelle catene di montaggio dell’immagine tout-court.

(Pubblicato su “Duellanti”, 2005. Immagine: il regista danese Lars von Trier, “santone” del digitale, in “The five obstructions”, di Leth/von Trier.)
 

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8 Commenti

  1. Ciao Franz, forse è il tono un po’ troppo sicuro a non invogliare … comunque io penso che abbia torto ad equiparare fotocamere e telecamere: mentre davvero qualsiasi imbecille può imbroccare un buon scatto, il montaggio di un filmato interessante oltrepassa di gran lunga i limiti della serendipity.

  2. @Mario
    Con il sensore puoi permetterti centinaia di scatti al giorno (con risoluzionii ormai rispettabili) senza dissanguarti finanziariamente, e quindi delle modalità di apprendimento/sperimentazione dell’arte fotografica che in precedenza erano molto più esclusive.

  3. Sarò schietto e decisamente sarcastico.

    Limitatamente ai contenuti, trovo campata in aria e snobisticamente marameldesca questa continua confusione tra il Cinemacollacimaiuscola e l’uomo della strada che si balocca colle dvcam, che Ciaruffoli bolla come scimmia tecnologica. Non so, è un po’ come se su un pezzo dei Cahiers qualcuno avesse confuso i film di Howard Hawks colle riprese improvvisate nei filmini familiari in super8 di mio nonno.

    L’autore gioca bazinianamente colle ontologie, guardandosi bene però dall’incarnarle in meticolose analisi testuali come faceva il buon Bazin.
    Così è tutto un ciarlare nell’aria di Cinemacollacimaiuscola, e di digitale – col che l’autore intende il fatto di riprendere qualcosa con una videocamera digitale, che evidentemente è solo un aspetto parzialissimo e striminzito rispetto all’organico e radicale impatto che hanno avuto i bit sul regime delle immagini.

    Si parla anche di cinema digitale – che è? boh! Si sa solo che secondo l’autore nasce già morto, scimmiotta il dilettantismo e i tic del reportage televisivo facendone dei vezzi, e che invece dovrebbe fare così e colà, e poi che altro? Ah sì, s’allude, senza nominarlo (se non nella didiascalia dell’immagine), a Lars Von Trier. Uhm, uhm, e se tutta la pappardella qui su fosse solo un modo molto elaborato per dire “A me Lars Von Trier mi fa cagare”? Il sospetto c’è.

    Così, sospesi tra la logorrea dei filmini delle vacanze, la retorica televisiva e Lars Von Trier, si rimane col dubbio che cosa s’intenda, nel surriportato pezzo, con “cinema digitale”.

    Per quanto mi riguarda, fossi il suo consigliere spirituale, inviterei Ciaruffoli a mollare il fumoso (sta bruciando?) ramo accademico a cui è appeso, e a fare una capatina ristoratrice in luoghi in cui è possibile osservare, allo stato brado, interi branchi di splendidi esemplari di testi (cioè di prodotti di un’intenzione linguistica ed estetica) audiovisivi pascersi beati nelle praterie dei bit: l’imminente Festival International du Court Metrage di Clermont-Ferrand, e, in giugno, il Festival International du Film d’Animation di Annecy.

  4. “Ah sì, s’allude, senza nominarlo (se non nella didiascalia dell’immagine), a Lars Von Trier. Uhm, uhm, e se tutta la pappardella qui su” eccetera.

    @Luca. La scelta della foto a corredo è mia, nel senso che non ho interpellato l’autore del pezzo (non lo faccio mai, le immagini le scelgo sempre io). Non c’è alcuna allusione, anche se potrebbe parere, in effetti. Ci tengo a farlo rilevare perchè io (Ciaruffoli non so) sono un fervente ammiratore del tremendo Lars. Ho messo lui perchè lui “è” il digitale.

  5. ok franz, incasso la precisazione.

    ma poichè nel pezzo si dice:

    “Quando il digitale oltrepassa il suo essere mezzo tecnologico e si fa discorso solipsistico (si pensi ai dogmi…)”

    – ed essendo questo l’unico indizio di “cinema digitale” riconoscibile – mi sento in diritto di mantenere intatta la mia perfidia.

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