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Vita da prete. 3 – il canto del gallo

di Fabrizio Centofanti

Prima o poi ti fanno la domanda: perché la  vocazione? È imbarazzante: dovresti prendere tempo, spiegare, entrare nei dettagli, ripercorrere momenti che marchiarono a fuoco l’esistenza. Invece sintetizzi e circoscrivi, con una sorta di pudore che sottintende una sottile riserva: riuscirò mai a farmi capire?

La sigaretta. Quel fumo era come un rito sacro: suscitava in me non so che sensazione di pienezza. Non per il fumo, ma per il gesto, per il fatto di stare lì e vedere la mano che scivolava sul pacchetto, estraeva la marlboro, prendeva l’accendino.

 

La domanda, quindi, ne contiene un’altra: è comunicabile quello che viviamo? Tu che leggi i caratteri neri sullo schermo, indovini se c’è dietro qualcosa. O, forse,  rimane solo un ponte gettato sopra il nulla: a un certo punto s’interrompe e impedisce di guardarsi, precaria metafora di  qualsivoglia incontro.

 

“La nuova capricciosa”. Per me era tutto nuovo, mi pareva impossibile: mangiare al ristorante, ero l’invitato, la persona importante. Che l’amore sia questo? Farti sentire indispensabile.

 

Ma devi rischiare. Provi a dire che è nata da una luce improvvisa, mentre prima sembrava tutto grigio. Ho visto la vita: colori, sensazioni, come si fosse risvegliato qualcosa di potente, di vivido. Di intenso.

 

Camminavo nel fango, verso quella casa. Dopo il diluvio, nelle viuzze quasi di campagna, la scampavi solo se portavi gli stivali. Io mi lanciavo con i miei mocassini, incurante di tutto. Che l’amore sia questo? Uno slancio che ti spinge oltre l’ostacolo.

 

Mi suggerì di leggere la prima lettera ai corinzi, capitolo 13. la ritrovai anni dopo, in un film duro, Mission, con De Niro, negli inediti panni di un missionario da combattimento. Quel coro ce l’ho ancora nella mente, le vesti bianche, macchiate di sangue, o di vernice.

 

Di notte sentivo gli odori, i rumori dei gatti dal pelo rosso che mangiavano spaghetti. Poi, prima che la luce apparisse dagli scuri, il canto del gallo: innocente, ma già foriero di futuri tradimenti.

 

Sentivo come un flusso, e lo chiamavo spirito. Un giorno chiesi a un padre di quelli famosi, da conferenza in aula magna: faccio bene a sentire così? Si chiamava Marko.

 

Quando seguivo quella scia, mi veniva tutto bene. Rispondevo a ogni domanda. Il mio carisma. Tutto è grazia, disse il curato, prima di morire. Le journal. La vocazione è scoprire che il mondo esiste veramente. In quel flusso che chiamavo  spirito.

 

 

Le precedenti puntate qui

 

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152 Commenti

  1. Riuscire a farsi capire, a comunicare quello che viviamo, a uscire dalla metafora di carta e darle carne.
    Sentirsi indispensabili, vedere i colori e le loro gradazioni, andare con slancio oltre gli ostacoli, sentire lo spirito che inietta le vene: anche i futuri tradimenti e canti del gallo nella Grazia, nell’intimità con Dio trovano il loro senso, il loro marchio potente, la loro vivida coralità. NECESSARIA.

  2. @de santis
    piuttosto che “uscire dalla metafora di carta e darle carne”, io uscirei dalla metafora di carne per darle carta.
    poi mi piace “sentire lo spirito che inietta le vene”, perché sembra bourroughs: in effetti cosa fa un prete giornalmente, se non farsi di spirito direttamente in vena?

  3. Chi ti chiama?
    La libertà
    Che vestito indossa?
    Un vestito di abisso
    Che forma ha l’abisso?
    L’abisso ha la mia forma
    E se ci cadi dentro?
    Ci sono già caduto
    Hai avuto paura?
    Terrore
    Cos’hai trovato?
    Il mio nulla
    Come si può trovare il nulla?
    Toccandolo con le mani
    Cosa hai provato?
    Ho sentito una voce che mi chiamava
    Come hai fatto e non morire?
    Mi sono detto: sono me stesso
    Chi chiamava?
    La libertà: forse io, forse la voce di Dio
    Come farai a scoprirlo?
    Ho una vita, la spenderò per questo
    E se non lo scoprissi mai?
    Seguirò per sempre la voce

  4. tu che leggi i caratteri neri sullo schermo, indovini se c’è dietro qualcosa

    Questo è un richiamo, una vocazione: tu che leggi
    Questa una pro-vocazione ( una vocazione verso):indovini-
    Questa una richiesta ad andare oltre: dietro i caratteri neri sullo schermo
    ma come andare oltre?
    forse
    attraverso quel ponte che non sai dove finisce – come l’arcobaleno, segno di alleanza per la vita, quando appare, ricordi che Dio ha fatto una promessa, non sai dove come o quando la raggiungerai, ti raggiungerà
    ma non importa, perchè sai che ovunque sarà, quella promessa è già stata realizzata-
    forse attraverso la vita

    grazie, elena.f

  5. Grande emozione il leggerti, sempre.
    La domanda dentro la domanda….
    “è comunicabile quello che viviamo?”
    Leggendo queste righe io mi tuffo nel tuo mondo, nuoto nei tuoi pensieri, nelle tue immagini, così vivide nella loro semplicità: LIBERO.
    Mi catapulto, letteralmente, nelle atmosfere che sai disegnare così bene perché hai la grande capacità di far si che il lettore TI VEDA,
    e quindi, è comunicabile quello che viviamo, Fabrizio, perchè animato dall’impeto che la nostra personalità può essere in grado di mostrare all’altro.
    Che l’amore sia questo?Uno slancio che ci spinge oltre l’ostacolo.
    L’amore è interrogarsi, sempre.
    un caro saluto
    Carla

  6. piccola precisazione:
    quel LIBERO veniva preceduto da:io mi lanciavo con i miei mocassini, incurante di tutto.frase che mi trasmette un grande senso di libertà, libertà fanciullesca.(lo avevo messo tra parentesi)
    scusatemi!
    di nuovo un salutone
    carla

  7. “è comunicabile quello che viviamo? ”

    Difficilmente: sovente non si soddisfa la premessa: comunicarlo a noi stessi.

    @andrea

    “altro non e’ che la nostra esitazione”

    … o altro non è che la nostra esistenza?

    Mario

  8. come al solito, di notte.

    anche i tradimenti trovano il loro senso. il canto del gallo può segnare un inizio o una fine.

    l’unica risposta che conta è quella vitale. le altre le lasciamo agli intellettuali che fan deboli sorrisi solo se si parla di strutturalismo (via paolo fabbri 43).

    pensa che è il contrario, Giacomo:ci sono persino finte sofferenze. e sono quelle che si sopportano di meno. l’ala che non sbianca m’ha ricordato certa impermeabilità a prova di bomba.

    hai citato un grande, Enrico. ha abbracciato anche la morte, nell’ultima lezione regalata al mondo.

    a quest’ora potrei farmi di qualunque cosa, Tash. ma finisco sempre col farmi le mie quattr’ore di sonno pesante.

    è Turoldo, Gian? mi ricorda il Dostoevskij di “anche se Cristo fosse fuori della verità, lo seguirei lo stesso”.

    quella sigaretta è un rito a parte, Marco: quando incontri il messaggero, detto anche angelo, ogni gesto diventa sacro.

    ti raggiungerà, Elena: ecco, quello in cui credo. al di là di noi, del nostro povero, ma libero arbitrio.

    la domanda che mi interessa di più, Carla: sentinella, quanto resta della notte?

    esistenza o esitazione? credo entrambe. anche quando ci lanciamo, il dubbio ci scava con violenza.

    comunicare a noi stessi. il mio Calvino: non c’è più nessuno che ascolti nessuno. solo la notte ascolta se stessa.
    e il mio Lorca: il poeta sa che i sentieri sono tutti impossibili. per questo li percorre nella notte, calmo.

    come al solito, di notte.

    fabrizio

  9. La questione non è farsi capire, ma farsi parola.
    Io non capisco te, tu non capisci me. Credi che sia possibile denotare? cosa? Non ci sono occhi per queste vedute.
    Io non arrivo a te, tu non arrivi a me. Pensi di toccarmi? dove?
    Non c’è fede per queste credenze. Credi, sì, prima ancora di pensare, di tenere tutto in mano: ma non tocchi.

    “Come un sentiero in autunno: è appena spazzato che le foglie secche lo ricoprono di nuovo”.

    Il poeta ha sempre trovato una via migliore. Lui sa. Lui sa come essere, prima ancora di arrivare, di pensare, o di credere d’arrivare.

    “C’è una mèta, ma non una via; ciò che chiamiamo via è un indugiare.”

    La questione non è farsi capire, ma farsi toccare. Ma il mio corpo lo tocchi, se lo vuoi. E’ qui, la locanda sempre aperta. Lo senti. E’ per il resto che c’è da farsi toccare. Il poeta lo ha capito bene. Il poeta ha sempre trovato una via migliore. Il poeta è maieuta, il poeta è mammana. Ma poeta da baracca. Caccia la prole come catarro dalle tonsille malate. Non si fraintenda, è scarto degli dei, che va all’insù. S’appiglia all’albero e lo fa in fiore. Quel fiore è il fiore che mangi, che digerisci. E’ il frutto nuovo. E’ qualcosa che tocchi, finalmente. Vedi? Sì, lo puoi vedere; hai nuove mani per toccare.

    Farsi tocco è farsi parola. E’ ri-cominciare, mettere in piazza. Buttare sulle mani.

    E’ correre affannati nella via, nella via, nella via affollata. Girarsi, guardare, scontrarsi. Fuori dalle tasche: con le mani, con le braccia; prendere la “roba”, la “materia”, obbligarla alla gente, alle sue mani, alle mani della gente: .

    Solo questo è far capire, anche quando di capire non si sa. Questa è la parola, la parola di corpo. Il corpo da sbatterti addosso. Il corpo da digerire, da con-siderare.

  10. certe cose non si possono tradurre, Domenico: kai ai cheires emon epselaphesan peri tou logou tes zoes (1Gv 1,1). è l’unica musica che si può davvero condividere. musica, dico: felice te, cicala, ti feriscono invisibili le spade dell’azzurro. la ferita del corpo, attraverso cui passa la vita.

  11. Tash, un giorno avrai la bontà di spiegare qual è la differenza (che non c’è) tra te e un qualsiasi testimone di ge(n)ova in salsa darwiniana mal digerita. Dovresti aggiornare il repertorio, caro ragazzo, basta con la solita battutina e con i tuoi ridicoli e abortiti tentativi di varianti. Non è che ne stai uscendo bene dal confronto. Nemmeno agli occhi di chi la pensa, teoricamente, come te. Argomenti (sic!) esattamente come un qualsiasi trolletto di periferia in libera uscita, con bomboletta spray alla cintura e le sinapsi azzerate. Come uno che, uscendo di casa per andare in missione per conto di sua maestà il dio “Nulla”, si è preoccupato unicamente di riporre il cervello nel frigorifero. Noli fora exire, intus rede, che è meglio. Ne va della (residua) reputazione del vecchio tash.

    Lazzaro Visconti Pera

  12. “Noli fora exire, intus rede, che è meglio.”
    che significa?
    se lazz-visc-per non è in grado di percepire il ridicolo in affermazioni come “sentire lo spirito che inietta le vene”, che ci posso fare?
    @lazz. ecc.
    cos’è una salsa darwiniana mal digerita?
    e com’è che si digerisce *bene* darwin?
    se lo sai, perché non me lo dici?

  13. A quali conclusioni perveniamo, leggendo l’intervento di Fabrizio, se non a quelle che non è solo cosa da sacerdoti quella della vocazione? Nemmeno dei soli artisti anche se ad essi, per più d’uno aspetto, potrebbero a mio parere accomunarsi (e uso le parole di Fabrizio: rito, rischio di un ponte gettato sul nulla, luce improvvisa, colori, sensazioni, come si fosse risvegliato qualcosa di potente, di vivido, slancio che ti spinge oltre l’ostacolo, percezione di un flusso chiamato spirito, scia seguendo la quale tutto veniva bene. La chiamata, però, è qualcosa che ci riguarda tutti indistintamente e, se non piace la parola religione, si può usare il meno impegnativo termine di “chimica”. Siamo composti chimici in complessissima composizione, in mirabilissimo equilibrio e sappiamo, nel profondo – appunto, chimicamente – ciò che ci fa bene lasciandoci permanere in equilibrio, in salute; al di là degli ovvi cambiamenti, al di là delle fisiologiche trasformazioni a cui ciascuno è soggetto nel corso della vita. Il nostro destino, il nostro sviluppo naturale si lega dunque a questa consapevolezza, a questa capacità percettiva, a questo ascolto attento che ci rivela a noi stessi, giorno dopo giorno, indicandoci sottovoce la via, la soluzione, volta per volta (le crisi, i malesseri, le incertezze sono forse allora punti di snodo lungo un percorso): ognuno, ovviamente, la sua. Sosteneva Hermann Hesse che nessun obbligo ha l’uomo su questa terra (prescindendo dunque da costrizioni istituzionali e sociali in genere), se non quello di realizzare sé stesso secondo il proprio destino peculiare. Seguendo dunque una chiamata personalissima rivolta a lui e solo a lui, dalla cui risposta, dalla cui rispondenza alla sua reale condizione sta forse il senso della sua, della nostra esistenza.
    Giovanni Nuscis

  14. E’ un’impresa particolarmente ardua quella tentata da Padre Fabrizio di parlarci della sua vocazione.
    In materia alcuni possono essere indotti da una soggezione eccessiva, altri da un sarcasmo preventivo.
    Credo che il punto sia nel fatto che nel rispondere alla chiamata la libertà si trasforma tutta senza residui in amore.
    Temo che noi che siamo così affezionati al culto della nostra persona, così gelosi della nostra libertà, siamo poco adatti a capire esperienze diverse, e facili al fraintendimento.
    Ma ogni tentativo di farci superare questi limiti, preziosi per la nostra salute odierna e futura, è meritorio e benvenuto.

  15. credo che non sia facile da capire questo flusso per chi non è stato toccato dallo Spirito, con la esse maiuscola, come te, per chi non è stato chiamato, questo flusso che ti faceva venire tutto bene e ti faceva rispondere a tutte le domande è difficile da capire, deve essere un flusso enorme che ti riempie tutto, però assomiglia un poco a quello che si sente quando si pervasi dall’amore (quello terreno intendo dire, l’amore coniugale ad esempio, l’amore quello per i propri simili, per i figli) la luce, la gioia, la forza, tutto s’allarga, tutto diventa grande, sentire che tutto è bello e tutto è buono, tutto è superabile, ogni intralcio, ogni intoppo, ogni ponte crollato può essere ricostruito, ogni fiume attraversato, e se non si riesce ad attraversalo ci si ferma nella radura in paziente attesa. direi che sei un fortunato, anche se la parola fortuna non è adatta alla vocazione, allora direi che sei un graziato, toccato dalla grazia e dalla bellezza, dall’amore e dalla gentilezza. insomma beato te, insomma sei un beato :-) a.

  16. a questo punto ricordiamo un passo di Carmelo Bene (fa sempre bene…):

    “Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla. […] I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono. […] Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. E’ l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. […] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati -erano di pietra gli strati- li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo. […] I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti di preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è la conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione”.

  17. Per lungo tempo ho creduto che Dio non esistesse, e mi stupivo di come, malgrado l’evidenza delle prove di cui disponiamo, molti continuassero a negare l’idea che sistemi così complessi e interconnessi potessero derivare da un processo governato dal caso. Come credere che la meccanica perfetta del nostro corpo, lo stesso cervello che riflette su se stesso, sia arrivato a questo grado di sofisticazione a causa di un semplice gioco di mutazioni senza un fine predefinito, cioè per innumerevoli tiri di dadi successivi avvenuti nel corso di una evoluzione che si perde nella notte di miliardi di anni fa? Capiscono tutto questo intellettualmente, ammettono che le prove ci sono e non potrebbero essere più evidenti, ed è possibile perfino analizzare e spiegare le ragioni della loro stessa incredulità, eppure qualcosa in loro è restio ad ammettere questa costruzione del caso, forse gli sembra che sottragga al mondo e a loro stessi ogni significato profondo. Pensavo insomma, come scrive Camillo Sbarbaro in “Quisquilie”, che la vita ha bisogno di un alibi: quello dell’aldilà, quello dell’arte, quello dell’amore, in mancanza di meglio, quello della prole. A sé la vita non basta. Ma di recente mi sono convertito. Ora ho la prova inconfutabile della sua esistenza. Difatti, se fosse solo una mera superstizione, un semplice caso di psicosi collettiva, come molti autorevoli scienziati sostengono, io ci sarei cascato in pieno. Insomma, se non esistesse io lo avrei visto certamente, o perlomeno mi sarebbe apparso in sogno. Ma non l’ho mai visto, dunque Dio esiste.

  18. Semplicemente. la fede è qualcosa che si ha o non si ha. Penso, già, che vivere giorno dopo giorno richieda “una grande vocazione”. Ciascuno si sceglie liberamente la propria , dal pregare a scolarsi una bottiglia di Jack…,etc,etc

  19. da non credente mi ha sempre affascinato un teologo su tutti, Bonhoeffer. Trovo su internet e propongo il seguente passaggio.

    “il mondo è diventato adulto, ha cioè smarrito il senso della fede in quanto, di essa, ha sviluppato prevalentemente l’aspetto pietistico e intimistico, facendone altra cosa rispetto alla controversa storia degli uomini. Fede e storia sono miscelati in un tutt’uno indissolubile: Cristo è l’uomo autentico. E Cristo non è uomo religioso, non rimanda al tempio, ma nella vita dove Dio gioisce per la sua creazione, e dove soffre. Dice ancora Bonhoeffer: “Chi ha perso il contatto con la terra, ha perso Dio e trova un idolo: niente di più irrazionale. Ma l’uomo non ha perso Dio, bensì ha perso il giusto rapporto con la terra”. Di qui la ‘suggestione’ di Bonhoeffer nell’equilibrio faticoso ma esaltante che deriva dal rapporto dinamico fra l’uomo provvisorio e mutante, e il Dio creaturale, presente e assente: DAVANTI A DIO E CON DIO NOI DOBBIAMO VIVERE SENZA DIO.

  20. Tash, quel “ridicolo” (ma io lo chiamerei in un altro modo) io l’ho avvertito. Non ho mai avvertito, però, quella stessa sensazione nelle parole di Centofanti, in nessuno degli interventi che Krauspenhaar ha postato finora. In essi ho letto, fin dal primo momento, un profondo rispetto per l’alterità, comunque si manifestasse (nel caso, per il mio essere “altro”, cioè ateo, rispetto alle sue scelte esistenziali). E non sono mai stato sfiorato dalla voglia di ironizzare, tantomeno di contrapporre verità (che non ho) a presunte altre verità.

    Visto che non credo che l’intento di Krauspenhaar (e dello stesso Centofanti) sia quello di evangelizzare chicchessia (credo che esistano luoghi “deputati” alla bisogna, ben più “accoglienti” e confortevoli di un litblog), mi sono messo a dialogare, in silenzio, coi suoi versi e la sua prosa, scoprendo uno scrittore di valore e, stando ai contenuti che mi propone (indipendentemente dalla lontananza o meno dalle mie scelte e dalla mia esistenza concreta), un uomo che si interroga sul senso del suo fare, che cerca anche nelle più piccole azioni quotidiane di trovare non tanto un “segno” che giustifichi la radicalità della sua opzione, ma un rovello ulteriore, quello che spinge a continuare la “ricerca”, nella consapevolezza della sua possibile inutilità. E, inoltre, una persona coltissima, nel senso più vero e meno arrogante e spocchioso del termine, cioè quello di uno che sa trasformarla in uno strumento di incontro e dialogo e, soprattutto, sa metterla a disposizione degli ultimi, al cui servizio si è volontariamente e deliberatamente messo. E quest’ultima, per me, è anche, e soprattutto, una scelta etica e politica ben precisa.

    Se mi fossi, anche solo per un attimo, sentito invischiato in una rete suasoria tesa, e stesa, a propinarmi verità e ipostasi incarnate, sarei passato oltre. E allora mi chiedo: perché siamo sempre pronti a gridare al miracolo davanti a testi e raccontini, editi o meno che siano, talvolta insulsi, i cui autori dovrebbero essere rimandati a un corso veloce di alfabetizzazione di sintassi e stile, perché magari non hanno letto nient’altro nella loro vita che se stessi, e poi, in questo caso, lasciamo che sia l’abito che lo scrittore indossa tutti i giorni (affari suoi, per quanto mi riguarda) il metro di giudizio nei confronti di una materia che, comunque la si rigiri, non ci lascia indifferenti? E che non ci lasci indifferenti, lo dimostrano certi tipi di reazioni, tutti egualmente fuori luogo, secondo me: la critica preconcetta che attribuisce all’altro intenzioni che non ha, e, ancora peggio, il panegirico, in risposta alla prima, altrettanto sterile e fine a se stesso.

    Avrei altre osservazioni da aggiungere, ma il lavoro mi chiama. Magari provo stesera.

    Lazzaro Visconti Pera

  21. Scappo.

    Sono le stesse “sensazioni” scaturite dalla mia personale conoscenza di Alex Zanotelli. E allora chiedo, ancora: qualcuno avrebbe becerato lo stesso s-commento insulso (ogni riferimento a marcelli, libere e affini non è casuale) se i testi postati avessero portato quella firma?

    Pace e …ene.

  22. bello.
    perché ogni scrittura che si accosta al problema di dio, del credere/non credere, ecc. tende, furbescamente (come in bene) o no (come in garufi) ad ingarbugliarsi e perdere naturalmente di senso.
    il problema non è se esista o meno un dio creatore eccetera.
    il problema è che esistono le religioni con i loro adepti e i loro addetti, per così dire, professionali.
    quando il bisogno individuale di sovra-naturale come fonte di legge morale e consolazione dall’idea/realtà della morte si unisce con tutti gli altri a fare sistema, allora, se mi si consente la volgarità, sono cazzi amari per tutti quelli che a questo gioco da dementi non ci voglio stare.
    perché dovranno subire la volontà di questa sterminato branco di invasati che non si rassegnano al nulla, al caso, all’assenza di significato, che come bimbi hanno bisogno di credere che arrivi babbo natale con la slitta, e decretano la sacralità di questo e di quello, impongono la superiorità di un concetto confuso come quello di vita ad uno più preciso e doloroso, come quello di persona, eccetera.
    spero che almeno il paradiso esista e che per punizione ci vadano tutti i credenti, a rompersi il cazzo per l’eternità nella contemplazione infinita del loro dio idiota e fascista.

  23. …ene.

    Se volessi convincerti di qualcosa (ma io non ho questo “qualcosa”) ti direi (facciamo così: lo dico a me stesso):

    1) credere o non credere non è problema che possa riguardare un ateo: vivere radicalmente questa scelta e cercare un senso, ammesso che esista, tra/con gli altri uomini, esclude automaticamente la questione;

    2) questa scelta radicale non può mai porsi come “paradigma” in base al quale giudicare scelte di altra natura o senso;

    3) quando ciò avviene, la radicale finitudine della scelta si muta, ipso facto, in un modello aprioristico che non ha niente da invidiare, in fatto di verità di supporto, alle teo-logie più o meno mascherate che l’ateo rifiuta intellettualmente ed eticamente;

    4) contrapporre a “dio”, “vocazione”, “chiamata”, “redenzione”, “assoluto”, termini quali “caso”, “determinismo”, “istinto”, “nulla”, “contingente”, equivale a contrapporre metafisica a metafisica, in un gioco di rimandi e di specchi, contrapposti ma simmetrici, dove ciò che si perde, per sempre, è l’individualità finita dell’essere uomo e l’irripetibilità della sua vicenda in quanto vivente (con tutto ciò che questa irripetibilità comporta, anche in termini di immaginario “acquisito” dalla specie, rielaborato e autonomamente prodotto);

    5) l’ateo non è mai intollerante;

    6) l’ateo non ha bisogno di convincere nessuno della “giustezza” delle sue scelte: semplicemente le vive;

    Lazzaro Visconti Pera

  24. “indicandoci sottovoce la via, la soluzione, volta per volta (…): ognuno, ovviamente, la sua. Sosteneva Hermann Hesse che nessun obbligo ha l’uomo su questa terra (prescindendo dunque da costrizioni istituzionali e sociali in genere), se non quello di realizzare sé stesso secondo il proprio destino peculiare”.
    mi piace anche il collegamento con l’intervento di Vasta, perché l’urlo, spesso, è solo indice di una debolezza malata, non la sana debolezza che ci contraddistingue, e ci rende più veri.

    “Credo che il punto sia nel fatto che nel rispondere alla chiamata la libertà si trasforma tutta senza residui in amore”.
    io credo in questo. è una linea Cristo – Jung – Rogers quella che più mi interessa.

    “un flusso (…) che (…) assomiglia un poco a quello che si sente quando si è pervasi dall’amore (quello terreno intendo dire, l’amore coniugale ad esempio, l’amore quello per i propri simili, per i figli)”.
    la vocazione è ad ampio raggio. l’aneddoto dei tre operai che lavoravano insieme, facendo la stessa cosa: uno spaccava pietre, un altro costruiva una cattedrale, il terzo salvava l’umanità.

    “L’umiltà è la conditio prima”. Bene. in tutti i sensi, secondo me.

    “se fosse solo una mera superstizione, un semplice caso di psicosi collettiva, come molti autorevoli scienziati sostengono, io ci sarei cascato in pieno. Insomma, se non esistesse io lo avrei visto certamente, o perlomeno mi sarebbe apparso in sogno. Ma non l’ho mai visto, dunque Dio esiste”.
    mi sembra un bell’esempio della suddetta.

    Penso, già, che vivere giorno dopo giorno richieda “una grande vocazione”.
    lo penso anch’io. e me ne convinco meglio quando parlo con gente che parla spesso di suicidio.

    “E Cristo non è uomo religioso, non rimanda al tempio, ma nella vita dove Dio gioisce per la sua creazione, e dove soffre”.
    quando lo dico dall’altare, ancora qualcuno strabuzza gli occhi (si vede che è la prima volta che viene alla mia messa), ma per la maggior parte è un dato ormai acquisito.

    “un uomo che si interroga sul senso del suo fare, che cerca anche nelle più piccole azioni quotidiane di trovare non tanto un “segno” che giustifichi la radicalità della sua opzione, ma un rovello ulteriore, quello che spinge a continuare la “ricerca”, nella consapevolezza della sua possibile inutilità”.
    grazie, Lazzaro: io mi sento precisamente così.

    “a rompersi il cazzo per l’eternità”.
    lo accosto ai “buoni sentimenti” citati più sopra. io guardo negli occhi spacciatori e papponi e altre persone così. se non ho paura non è solo perchè faccio arti marziali. il fatto di essere adepti professionali di non so quale sistema te lo scordi presto quando per sopravvivere devi avere due palle così. e di romperti il cazzo non te lo sogni nemmeno.

    “l’ateo non è mai intollerante;
    l’ateo non ha bisogno di convincere nessuno della “giustezza” delle sue scelte: semplicemente le vive”.
    finalmente.

    fabrizio

  25. Penso, già, che vivere giorno dopo giorno richieda “una grande vocazione”.
    lo penso anch’io. e me ne convinco meglio quando parlo con gente che parla spesso di suicidio.

    Fabry, non ho mai parlato e pensato al suicidio in vita mia. Amo troppo la vita terrena.
    Un abbraccio
    Marco

  26. La Vocazione Religiosa è esotericamente e autenticamente conoscenza dell’Essenza della Religione che è conoscenza della quatripartizione dell’Uomo e delle loro relazioni (con tutte le conseguenze che implica farsi agire da esse, e per ultima tra loro l’Amore che guarisce e la Gioia, da non intendersi in senso psicologico, poca roba): Corpo, Ragione, Anima, Intelletto (denominazioni alternative ad Intelletto sono Spirito, Lume della Ragione, Sapienza).
    Questo in linea generale e con differenze (nominalistiche e non) nella partizione tra le religioni se ci si accosta ai rami del buddismo con le sue classificazioni dei livelli di mente sottili e degli ottanta livelli grossolani della coscienza e le gocce dei fluidi essenziali, si proceda con le Sephirot della Cabala, si ascenda al Cristianesimo con il suo Corpo di Risurrezione, si attraversi la vasta gamma dei significati del (dei) Nafs nei Sufi Nematollahi o si guardi ai livelli corporei dell’Iran Mazdeo e Sciita, o si passi la vita ad esaminare lo sciamanesimo tribale sumero-babilonese, quel crogiolo di attività sciamaniche, principalmente quelle che si trovano a Maiorca e seguono il solco di Raimondo Lullo, e mi fermo qui perché a comparare e saper ricondurre il Molteplice all’Uno non mi basterebbe una Notte di effluvio verbale.
    Ogni autentica vocazione non può che passare per questo lungo solco!

    Al di là di questa linea – in mezzo per l’esattezza – c’è la ciurma che si muove tra le nebbie! compreso lo psichiatra che nella perizia alla Franzoni scopre nel tracciato elettroencefalografico onde theta, che farebbero tanto male! Niente di più falso!

    Ancora oltre c’è il Theologus absconditus. Nella manualistica teologica si trova di più sul concetto principale (nel linguaggio cerimonioso dei manuali, >) che non nelle fonti religiose.
    La religione fu sempre una cattiva ispiratrice al riguardo. Essa non sa nulla o poco più di DIO, cioè dovrebbe stare in testa ad ogni filosofia della religione. Nella manualistica, invece, prevale un robusto istinto di conoscenza o l’abitudine del manualista – a votre plaisir – una familiarità con il concetto di Dio, con il quale egli si consente anzi certe confidenze. > dice Calvino (Institution de la religion chrestienne). Ma, chi l’apprende > se non il connaisseur de Dieu, il teologo manualista? Secondo Calvino, nelle mani dei teologi Dio > (Commentaire sur Jean).
    Ciò che fa fremere il religioso non squieta punto il teologo manualista che, nel segreto del suo cuore, sa che non esiste religione ma solamente idolatria. (> esige Newman, uno degli ultimi ad avere ancora il senso della religione: On Justice, as a Principle of Divine Governance, in Fifteen Sermons Preached before the University of Oxford, 1843, p.138).
    Con la Theologiae utriusque compendium cum naturalis tum revelatae (1704) di Salomon van Til e le Institutiones theologiae dogmaticae (1724) del Buddes, la manualistica registra il passaggio ad una nozione di theologia naturalis attraverso il concetto intermedio di religio naturalis: la conclusione di van Til sulla teologia naturale concede alla religio revelata l’onore del ruolo solo perché si accorda > (Prefactio ad lectorem). Chi, d’altronde, oserebbe sostenere che nel Petavius o nel Tomassinus, manualisti navigati, l’esperienza di Dio sia inferiore a quella di Juan de la Cruz? O che i Dogmata theologica non possono stare degnamente a fianco del Cantico espiritual? Al principe dei manualisti, al vecchio caro Wolff, va data infine l’ultima parola: >, che bisogna leggere secondo la nascosta intenzione di ogni teologo:
    non esisterebbe Dio se non esistesse la teologia.

  27. La Vocazione Religiosa è esotericamente e autenticamente conoscenza dell’Essenza della Religione che è conoscenza della quatripartizione dell’Uomo e delle loro relazioni (con tutte le conseguenze che implica farsi agire da esse, e per ultima tra loro l’Amore che guarisce e la Gioia, da non intendersi in senso psicologico, poca roba): Corpo, Ragione, Anima, Intelletto (denominazioni alternative ad Intelletto sono Spirito, Lume della Ragione, Sapienza).
    Questo in linea generale e con differenze (nominalistiche e non) nella partizione tra le religioni se ci si accosta ai rami del buddismo con le sue classificazioni dei livelli di mente sottili e degli ottanta livelli grossolani della coscienza e le gocce dei fluidi essenziali, si proceda con le Sephirot della Cabala, si ascenda al Cristianesimo con il suo Corpo di Risurrezione, si attraversi la vasta gamma dei significati del (dei) Nafs nei Sufi Nematollahi o si guardi ai livelli corporei dell’Iran Mazdeo e Sciita, o si passi la vita ad esaminare lo sciamanesimo tribale sumero-babilonese, quel crogiolo di attività sciamaniche, principalmente quelle che si trovano a Maiorca e seguono il solco di Raimondo Lullo, e mi fermo qui perché a comparare e saper ricondurre il Molteplice all’Uno non mi basterebbe una Notte di effluvio verbale.
    Ogni autentica vocazione non può che passare per questo lungo solco!

    Al di là di questa linea – in mezzo per l’esattezza – c’è la ciurma che si muove tra le nebbie! compreso lo psichiatra che nella perizia alla Franzoni scopre nel tracciato elettroencefalografico onde theta, che farebbero tanto male! Niente di più falso!

    Ancora oltre c’è il Theologus absconditus. Nella manualistica teologica si trova di più sul concetto principale (nel linguaggio cerimonioso dei manuali, “causa efficiens principalis”) che non nelle fonti religiose.
    La religione fu sempre una cattiva ispiratrice al riguardo. Essa non sa nulla o poco più di DIO, cioè dovrebbe stare in testa ad ogni filosofia della religione. Nella manualistica, invece, prevale un robusto istinto di conoscenza o l’abitudine del manualista – a votre plaisir – una familiarità con il concetto di Dio, con il quale egli si consente anzi certe confidenze. “Parquoy ils n’appréhendent point Dieu tel qu’il s’offre, mais l’imaginent tel qu’ils l’ont forgé par leur témérité” dice Calvino (Institution de la religion chrestienne). Ma, chi l’apprende “tel qu’il s’offre” se non il connaisseur de Dieu, il teologo manualista? Secondo Calvino, nelle mani dei teologi Dio “n’est autre chose sinon une source horrible d’idolatrie” (Commentaire sur Jean).
    Ciò che fa fremere il religioso non squieta punto il teologo manualista che, nel segreto del suo cuore, sa che non esiste religione ma solamente idolatria. (“Più superstizione” esige Newman, uno degli ultimi ad avere ancora il senso della religione: On Justice, as a Principle of Divine Governance, in Fifteen Sermons Preached before the University of Oxford, 1843, p.138).
    Con la Theologiae utriusque compendium cum naturalis tum revelatae (1704) di Salomon van Til e le Institutiones theologiae dogmaticae (1724) del Buddes, la manualistica registra il passaggio ad una nozione di theologia naturalis attraverso il concetto intermedio di religio naturalis: la conclusione di van Til sulla teologia naturale concede alla religio revelata l’onore del ruolo solo perché si accorda “plus quam reliquas cum lumine naturae” (Prefactio ad lectorem). Chi, d’altronde, oserebbe sostenere che nel Petavius o nel Tomassinus, manualisti navigati, l’esperienza di Dio sia inferiore a quella di Juan de la Cruz? O che i Dogmata theologica non possono stare degnamente a fianco del Cantico espiritual? Al principe dei manualisti, al vecchio caro Wolff, va data infine l’ultima parola: “nulla esset theologia naturalis nisi existeret Deus”, che bisogna leggere secondo la nascosta intenzione di ogni teologo:
    non esisterebbe Dio se non esistesse la teologia.

  28. Per fortuna c’era il riferimento al testo (1° lettera di Giovanni). Io il greco nun lo sacce! mi fate andare a naso.

    “dimoriamo in lui ed Egli in noi: ch’egli ci ha donato parte del suo Spirito” (1Gv 4, 13)

    Vediamo se qualcuno indovina chi e dove usò questa citazione come esergo.

  29. Aditus, vacci piano, si inizia sempre così, prima si va “a naso” e poi non si sa come si finisce…

    Gotu kola anche tu, vero?

  30. Credo che nella vocazione non ci sia nulla di diverso tra un prete ed un laico.
    La ricerca di Dio, per chi ci crede naturalmente, è un lavoro, una sottrazione di immagini preconcette e un’acquisizione di quello che si chiama Spirito Santo, cioè Dio, attraverso mezzi opportuni.
    Il servizio sacerdotale è appunto un servizio, un lavoro che alcuni uomini si sentono di fare, ma non è una maggiore vicinanza a Dio o una fede più forte, in quanto non è nei nostri sforzi la possibilità di avvicinarci a lui, tutto questo credo che padre Fabrizio lo sappia.
    Dio nelle scritture dice che si è scelto un popolo di sacerdoti, alcuni tra gli uomini scelgono di svolgere praticamente l’offerta del sacrificio e vengono ordinati, ma a questo sacrificio partecipano attivamente tutti i fedeli.
    Io credo che su questo punto ci sia da affrontare un nodo, che è il nodo che in occidente ha scavato il profondo solco che separa il popolo dei fedeli dal clero, cioè il fatto che il sacerdote agisca o meno “in persona Christi” e che cosa significhi esattamente.
    Non è questa la sede per dibattere un peso di questo genere, ma mi sembra opportuno chiarire che non è sempre stato così, come non è sempre stata legge ecclesiastica il celibato dei sacerdoti, ma una riforma voluta da Carlo Magno, che concesse una notte di tempo a tutti i preti sposati dell’impero per scegliere se restare preti rinnegando moglie e figli, o perdere casa e mezzi di sussistenza.
    Anche questi caro Padre Fabrizio sono ostacoli che vanno superati, affrontati per lo meno.
    Tu hai un modo molto poetico di affrontare la tua scelta e non sono io certo a discuterlo, ma se parli di vocazione, che è il termine comunemente usato per indicare il desiderio di diventare sacerdote, mi sento di porti questi argomenti, e altri se ci fosse tempo e non si annoiasse troppa gente, su cui amerei conoscere il tuo parere.
    Ti prego di non considerarmi uno stuzzicatore, sono cose che a suo tempo mi hanno tenuto distante e penso lo facciano ancora con molti.
    Grazie

  31. Gotu Kola is a perennial plant native to India and other tropical countries. Its appearance changes, depending on growing conditions. In shallow water, the plant puts forth floating roots and the leaves rest on top of the water. In dry locations, it puts out numerous small roots and the leaves are small and thin. Typically, the constantly growing roots gives rise to reddish stolons. The leaves can reach a width of 1 inch and a length of 6 inches. Usually 3 to 6 red flowers arise in a sessile manner or on very short pedicels in auxiliary umbels. The fruit, formed throughout the growing season, is approximately 2 inches long with 7 to 9 ribs and a curved, strongly thickened pericarp.

    Gotu Kola has been used as a medicine in the Ayurvedic tradition of India for thousands of years. It is listed in the historic Susruta Samhita, an ancient Indian medical text. The herb is also used by the people of Java and other Indonesian islands. In China, gotu kola is one of the reported “miracle elixirs of life”. This was attributed to a healer named LiChing Yun who, legends say, lived 256 years by taking a tea brewed from gotu kola and other herbs. Gotu Kola is prominently mentioned in the Shennong Herbal compiled in China over 2000 years ago. In the nineteenth century, Gotu Kola and its extracts were incorporated into the Indian pharmacopeia, wherein addition to being recommended for wound healing, it was recommended in the treatment of skin conditions such as leprosy, lupus, varicose ulcers, eczema, and psoriasis. It was also used to treat diarrhea, fever, amenorrhea, and diseases of the female genitourinary tract. Gotu Kola was first accepted as a drug in France in the 1880’s.

    The primary active constituent is triterpenoid compounds. Saponins (also called triterpenoids) known as asiaticoside, madecassoside, and madasiatic acid are the primary active constituents. These saponins beneficially affect collagen (the material that makes up connective tissue), for example, inhibiting its production in hyperactive scar tissue.

    Also contains a green, strongly volatile oil composed of an unidentified terpene acetate, camphor, cineole, and other essential oils. Cintella oil also contains glycerides of fatty acids, various plant sterols such as campesterol, stigmasterol, and sitosterol, and various polyacetylene compounds.

    [?]

  32. Marco, non mi riferivo a te, naturalmente.

    Luminamenti, ci andrei più semplice. il discorso su Dio deve rimanere in contatto con Dio. ma già lo sai.

    Aditus, è uno degli incipit più famosi: e lo riferivo al tuo “toccare” (quello che le nostre mani hanno toccato, cioè il “logos” (oggi intraducibile) della vita (ma qui è vita definitiva, da non confondere con quella effimera né con quella eterna; dunque altrettanto intraducibile).

    Rififi, l'”in persona Christi” salvaguarda la trascendenza (come l’ex opere operato: il sacramento vale anche se il prete non è in grazia di Dio); il celibato è tradizionale in occidente. in Oriente non c’è.

    la poesia colma le lacune. una teologia che perde l’aggancio con la vita e con la storia è diabolica.

    fabrizio

  33. Io francamente trovo un po’ stucchevole tutto ciò. Una esibizione del sé, di quanto si è bravi e sensibili.
    In realtà, non è che abbia capito molto di questa vocazione. Almeno, non da questa pagina. E concordo con TopoRififi, riguardo al fatto che esiste anche la vocazione laica. Così come mi è piaciuta l’espressione di Tash..lo spirito che si inietta nelle vene. Ognuno ha il suo. Come ognuno, anche non credente, ha i propri comandamenti di amore e civiltà (cui tiene moltisismo), senza per questo doverli attribuire ad una provvidenziale vocazione divina.

  34. infatti l’idea è quella: la vocazione come scoperta della vita: il mondo esiste veramente. il riconoscimento dell’altro scavalca ogni fede (semmai è “fiducia”, che è lo stesso che “fede”) e ogni ideologia.

  35. …Caro Fabrizio, lasciamo stare i preziosi all’asta: mi basta già non esser stata censurata, come spesso accade quando commento un tuo post.
    E ricorda che la tua ironia non elimina il fatto che certi argomenti non sono esclusiva di nessuno.

  36. missy na crozza sopra nu cantuni…
    ferrazzi ogni volta che parla missy applaude… vabbè ‘a ferrà, sei ‘nnammurato, comme ‘o surdato, o no?
    grande padre fabbry, seguite un po’ le sue parole, miscredenti, e abbasta con st'”orgoglio laico”, comunistacci!

  37. Vedo che altri la pensano come me. Caro Tash e cara Missy benvenuti! Finalmente pareri che si distaccano da questo coro di voci bianche ed eunuchi.
    “Io francamente trovo un po’ stucchevole tutto ciò. Una esibizione del sé, di quanto si è bravi e sensibili. In realtà, non è che abbia capito molto di questa vocazione. Almeno, non da questa pagina. E concordo con TopoRififi, riguardo al fatto che esiste anche la vocazione laica. Così come mi è piaciuta l’espressione di Tash…lo spirito che si inietta nelle vene”, dolce Missy, e sempre dalle donne giunge la “parola buona”! Preti maschi, dio maschio, verbo maschio: da 2000 anni questa litania. Vergogna!

  38. Continuando così raggiungeremo presto il traguardo dei 100 post! allora contiamoci: quanti atei oltranzisti, atei anarcoidi, agnostici di centro, cattolici pentiti, formigoniani e oltranzisti dell’Opus? Si dia via alle votazioni e…mi raccomando sine brogli elettorali….

  39. a parte libera/marcello ecc. che ha problemi personali arretrati nei miei confronti, quindi è tutto un altro discorso , mi permetto di non impegnare energie su commenti che girano intorno alla questione dell’io (esibizione del sé ecc.): fase che – grazie a Dio: posso dirlo? – ho superato da tempo, e che ha ancora a che fare con dinamiche adolescenziali. quanto alle tematiche in esclusiva, Missy, non posso che essere d’accordo, naturalmente, e mi sembrava che fosse chiaro. se raggiungiamo i cento si brinda? io ho solo spumante di serie b, però.
    saluti
    fabrizio

  40. L’unico contatto che vedo con Dio è quello di natura mistica (oltrepassando la vocazione. Perché al di qua ci sta solo il teologo che squarta il concetto di Dio). Ora, c’è la mistica com’è intesa da Panikkar, ma ho delle perplessità al riguardo. Il suo modo di rinnovellarla mi sembra fatto con una pasta alquanto incerta. Ma se devo pensare invece ad un contatto con Dio – cioè l’esperienza mistica – e dovendo scegliere e orientarmi dentro la storia della mistica, diciamo fino alle soglie del Settecento, mi sovviene un pensiero di Naropa: l’immagine sacra non è un essere e nemmeno un non essere perché si ha la visione di una cosa che è tuttavia Vuota di realtà. Nonostante l’assenza d’un ente reale, qualcosa tuttavia appare, come maya: come sogno o magia. Benché non vi sia una sostanza reale, ben si vede tuttavia che qualcosa nasce, e come la gemma dei desideri, ha il potere di adempiere alla aspettative di infinite creature.
    O nelle parole di Meister Eckhart: ein und niht vereinet; unum et non unicum.
    O per ultimo Rupa Goswami che scrisse un’opera grandiosa: Il nettare marino della devozione.

  41. Do il mio contributo per raggiungere il fatidico cento (manco fossimo a ok il prezzo è giusto). Visto che non vi piacciono gli indovinelli mi rispondo da solo.

    Il riferimento della seconda epistola di Giovanni Evangelista è usato come esergo da Benedetto Spinoza, nel Trattato teologico-politico. Il che è tutto dire, non credete?

  42. Aditus, scusa, ma tu credi davvero che noi diciamo di non credere perché non crediamo di credere o crediamo di non credere? O non credi, piuttosto, che noi crediamo di non credere solo quando non crediamo di credere che, credendo, potremmo benissimo credere di non credere?

    Io non credo proprio che tu creda di non credere in quel che credo.

    Ci credi?

  43. Luminamenti, è vero che c’è il momento della nullificazione – dell’io, appunto, il che evita inutili perdite di tempo – , ma contemporaneamente c’è un’esperienza-vertice che introduce in un’altra consapevolezza, più profonda. il contatto è quello, a mio parere.

    in effetti è curioso, Aditus.

    Lazzaro, El(e)azar significa “Dio aiuta”: mica male, per credere.

  44. @Lazzaro Visconti Pera

    dimentichi la possibilità, l’eventualità più agghiacciante. Se io non credessi che voi crediate di credere? Allora per me sarebbe come se voi credeste. E se io credessi che voi crediate di credere? in quel momento sarebbe come se voi non credeste.

    Dite che sto imparando il metodo diairetico?

    p.s. non dovrei mettermi al pc in certe condizioni.

    @fabrizio

    Per quanto ho capito io di Spinoza, quell’ esergo apre le porte alla sua comprensione e allo stesso tempo rappresenta un distillato del senso che anima la sua Filosofia.

  45. Il me conduit ainsi, loin du regard de Dieu… ma quanto sarebbe meno interessante la vita se così fosse? Anche in chi non crede in Lui, Dio diventa possibilità di pensiero, e altro non si può desiderare. Un continuo dubbio, un altalenare fra desiderio e rinuncia, un porsi oltre o in Egli, un celare lo sguardo alla Grazia, oppure il renderla fissa ai propri occhi.
    Di che cosa potremmo scrivere, forse di uomini imprigionati dalla logica? Non è forse meglio il mistero che ogni mitologema in sé racchiude piuttosto che un’attesa disperata della morte… della cessazione del battito?
    Chi bestemmiare e chi osannare… forse l’uomo e la sua idiozia, o, meglio, deificarne la possibilità di deificazione?
    Così il ‘gioco’ sul credere diviene gioco di vita, o il come giocarsi la vita, o la triste consapevolezza che la vita è un gioco di pensieri e parole, nella totale insapienza qua e là consolata dall’immaginazione. Ma non è stato anche detto che “immaginazione” è parola chiave dell’epistemologia di Hume? E sembra che lo sia stata, più segretamente forse e, certamente, solo temporaneamente, anche per Kant… ? Come è stato rilevato da Heidegger, infatti, nel passaggio dalla prima edizione della “Critica della ragion pura” alla seconda, il primato un tempo assegnato all’immaginazione (motivato dal fatto che la conoscenza è in tanto possibile in quanto finita) cede il passo al primato della ragione. Ma ciò non può portare all’inaridimento del significato dell’arte, così come di ogni altro gesto mosso da passione?
    Quanto è piacevole intrattenersi tramite queste riflessioni, come quando si segue una scia, in mare o in cielo, e il tutto, infine, risulta perfetto e struggente; preferibile e nell’oblioso perdersi.
    In tal modo si risponde a ogni domanda, seguendo le onde o le folate di vento.
    “Infine tutto è grazia, disse il curato prima di morire”. Forse che la vocazione sia lo scoprire che il mondo esiste veramente in quel flusso che chiamiamo spirito? Direi di sì… mi sento di condividere, e lo stesso valga per chiunque si cimenta in una creazione… altrimenti solo un misero beneficio transitorio, e non il respiro quale oltranza.

  46. per la questione dell’etica e della natura della felicità, lo penso anch’io, Aditus.

    “Chi bestemmiare e chi osannare… forse l’uomo e la sua idiozia, o, meglio, deificarne la possibilità di deificazione?”. su questo vale la pena ritornare, Gian Ruggero.
    grazie.
    fabrizio

  47. Aditus, credo che in te alberghi almeno una traccia dell’esprit de finesse d’antan, c’est à dire l’air du temps jadis. E’ proprio grazie ad esso che, nel p.s., hai trasformato il “dovresti”, rivolto a me, in un “dovrei”, rivolto a te stesso.

    Anche questa è classe, diciamolo.

  48. Etica per Spinoza è tutta una cosa particolarissima, anzi (che dico?) generalissima. Penso che l’Etica necessiti piu’ riflessione sul titolo che sulle pagine di testo. Detta così è tanto, è un’iperbole, prendetela per quella che è (una figura retorica).
    E’ così che dicendo che concordi sull’etica, Fabrizio, in realtà estendi il giudizio anche alla teoria della conoscenza, ad una cosmologia (?), ad una teoria degli affetti e delle passioni, ad una teologia o una ontologia (nella sede spinoziana è lo stesso). In questo senso concordo a mia volta.

    Mò continuo l’esercizio diairetico, interrotto ieri notte (il rum rimestava troppo). Bisogna andare in fondo a tutte le vie percorribili, così diceva il vecchio Parmenide.

    Se io credessi che voi non crediate di non credere? non credereste all’evidenza di non credere e quindi rimarrebbe il fatto che non credete? oppure la vostra non credenza nella non credenza vi porterebbe a conservare l’illusione della credenza?

    continua…

  49. Aditus, natura naturante e natura naturata, insomma. con tutto quello che segue. meglio non imbarcarsi negli intricati anche se geometrici meandri del benedetto baruch.

    Missy, concordo anche stavolta!

  50. Se io non credessi che voi non crediate di non credere? Allora per me sarebbe come se voi non credeste oppure potrebbe darsi l’eventualità che io non creda alla vostra incredulità di fronte al fatto di non credere e che quindi voi continuate ad illudervi di credere.

    Come vedete, tra le nostre quattro mura siamo arrivati ad un punto morto.

    * no, no, Lazzaro Visconti Pera. Il mio esprit è ancor piu’ de Finesse dacché avrei voluto scivere “non dovremmo”, ma mi son limitato a un “non dovrei”; perché se non lo era del tutto la tua, almeno la mia condizione mi era chiarissima.

  51. Aditus, arrivare a un punto morto a natale, mi sembra un po’ stonato: a meno che a morire non sia l’io.

    Missy e Carla: non so perché le bollicine mi fanno pensare solo a uno di Zocca. (cioè lo so: lui c’ha fatto i miliardi con le suddette)

  52. Ancora con Hume (che S. Marck giudica il grande oppositore dell’iluminismo) si è all’altezza della ragione quando dimostra l’insussistenza dell’io che già la logica buddista, cresciuta per un certo periodo in Giappone come scienza esoterica, aveva ampiamente illustrato.

    E catastrofe dell’Occidente fu la perdita dell’Immaginazione.

    E che dire di quel Kant che s’inventa l’io trascendentale perdendo così ragione e lume della ragione?

    La Filosofia e l’amore per il lume della ragione recupera però il vertice con il Nietzsche di Heidegger (dopo la meteora spinoziana e l’ombra del circolo fenomenologico di Monaco) per poi inabissarsi nuovamente e rilucere finalmente con l’opera del futuro, con cui il nuovo secolo dovrà confrontarsi, La Gloria di Severino, vertice supremo del pensiero speculativo occidentale.

    L’illuminismo contaminò con il lavacro del patibolo infame ripetendo nel circolo eterno nietzschiano la spugna imbevuta di fiele che sputò sull’unzione cristica annichilendo il battesimo mistico, inaridendo con l’arsura di ogni atroce sitio la preghiera estrema, rastremando la grandezza immane dell’agonia suprema nel rantolo del cialtronesco sodalizio che oltraggiò la maestà del morire.

    Se mai perisse la mia voce a terra,
    la porterete a livello del mare:
    la deporrete là, presso la riva.

    Voi me la poserete accanto all’onde…

    O mia voce…
    porti un’àncora sul cuore,
    sopra l’àncora una stella:

    sopra la stella, il vento
    libero, e sopra il vento, alta, la vela.
    (Alberti)

    In attesa del Sentiero del Giorno…

  53. Il punto morto era riferito all’esercizio diairetico.. Con “a meno che a morire non sia l’io” intendi dire che se morisse l’io non sarebbe stonato o che se l’io fosse quello che muore allora, sì, sarebbe stonato (il Natale)?

    (scusa, ma Lazzaro mi ha scatenato il torciglio)

  54. Luminamenti, bisogna ammettere che nel tuo intervento c’è una tragicità lirica notevole. poi si può dire quello che si vuole sui contenuti, ma il primo dato rimane inalterato.

    buona la prima, anche per la tua domanda, Aditus.

    Lazzaro vieni fuori! ehm, no, Luminamenti, va be’, è natale, non soffrire più (mi pare che fosse Charlie Brown).

  55. Scusi Fabrizio, me ne vado subito. Il mio problema, da semianalfabeta quale sono, è che, di fronte a quei paroloni, a quei nomi carichi di sapienza e verità, mi sento un po’ come l’asino in mezzo ai suoni. Così, per non sentirmi escluso (sono già abbastanza emarginato di mio, non si lasci ingannare dal titolo nobiliare), scelgo questo modo, sbagliato, di intervenire. Ma, se mi conosco anche solo quel tanto, credo che il mio comportamento sia il sintomo palese di una inconscia voluntas sciendi. O di una malcelata invidia sapientiae: il che, poi, è la stessa malattia, in definitiva.

  56. per carità, Lazzaro: il “vieni fuori” era una citazione della risurrezione del tuo omonimo nel quarto vangelo (Giovanni 11,43). si riferiva, di riflesso, al tuo “liberatelo” (Luminamenti).

  57. Mi liberai il giorno in cui afferrai l’idea che la conoscenza è memoria, che lo spazio è una rappresentazione, ma già alcuni secoli prima di Aristotile dice l’Upanishad: “Vi è, o Signore, qualcosa che oltrepassi lo spazio?”
    “Certemente vi è qualcosa che è più dello spazio”
    “Insegnatemelo o Signore”.
    La memoria in verità è più dello spazio”

    A saper cogliere vivendo la profondità di questa verità ci si libera dalle ugge quotidiane, tutto si ridimensiona e nello stesso tempo si dilata oltreppassandolo.

    Ma, esperienza quotidiana insegna disattendendo, ciò che l’oracolo eracliteo aveva avvisato: sebbene il logos sia comune e concatenato, i più vivono come se ciascuno avesse un proprio mondo di pensiero.

    Indicazione di percorso o VIA SUPREMA (sull’onda sonora del MAGNIFICAT di Constance Demby’s)

    Il rintocco greve dell’ora che cade immobile nella reclusa cella della mente che incarcerò allora, all’uscita dalle grotte di Eleusi e ache a Foce, città delle foche, borgo situato sopra Smirne, non rattenne l’anelito dell’ala e del suo liberarsi del peso mortale, colma le stanze del durare superstite delle ore impedite del vivere e dal suo insonne contemplare il non passare dell’istante e il suo fulmineo trapassare.

    Non scriverti tra i mondi
    Ma al margine della traccia di lacrima
    impara a vivere
    (Celan)

  58. stavolta concordo perfettamente, Luminale: la memoria come fondamento di ogni autentica spiritualità. è qui il seme del futuro.
    appello: qualcuno faccia sapere a Lazzaro che il “vieni fuori” era una citazione scritturale e non un invito ad andarsene.
    fabrizio

  59. Si tratta di una delle varianti di una breve poesia rimasta inedita.
    Dovrebbe trovarsi in Paul Celan, a cura di G. Bevilacqua, 1989 Mondadori,
    p.320.

    N.B. vado a memoria non ne sono assolutamente certo della pagina.

  60. Minchia, pure la pagina a memoria? Non è che sei il “bibliotecario di Leibniz”?
    Scherzi a parte, non è presente (la poesia) sul Meridiano Mondadori, vero? Lì dovrebbero starci solo le raccolte edite e riconosciute da Celan.

    La raccolta delle inedite non è curata da M. Ranchetti per Einaudi 1998?

  61. SCHREIB DICH NICHT
    Zwischen die Welten,

    komm auf gegen
    der Bedeutungen Vielfalt,

    vertrau der Tränenspur
    und lerne leben.

    (23-24 aprile 1966 – 12 luglio 1966)

    *

    Shining, dove hai imparato il tedesco, a Eleusi?

  62. Il testo è riportato in Paul Celan, Sotto il tiro di presagi. Poesie inedite 1948-1969, cura e traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Torino, Einaudi, Supercoralli, 2001.

    Se qualcuno sentisse il bisogno di una “rinfrescatina” su Celan, può sempre tuffarsi tra i quasi ottocento commenti del post “Psalm”. E’ tutto gratuito (compresa la lettura della mano, con conseguente liberazione dalle ugge quotidiane), basta andare al mese di settembre.

  63. La poesia riportata e le sue varianti si trovano edite originariamente in P. Celan Gesammelte Werke in sieben Baanden, Frankfurt am main, Suhrkamp Verlag, 1983, paragrafo o capitolo settimo, pag 320.

  64. Senti, shining, quale sarebbe, di grazia, il Celan-Bevilacqua-Mondadori del 1989? Alludi forse al “meridiano”? Beh, quello è del 1998. E a pagina 320 c’è una fotografia di mia nonna in tanga a novantotto anni sulla spiaggia di Rimini.

    Perché non la smetti di fare il Pico della Mirandola de noantri (i.e. “er fighetta”) e di arrampicarti sulle colonne del tempio di Apollo figlio di Apelle (quello che fece una palla di pelle di pollo)?
    Se vuoi citare, o lo fai fonti alla mano o rinunci (a meno che tu non aspiri a fare l’incantatore di serpenti o il venditore di tappeti).

    Anche la tua seconda citazione profuma di bufala, almeno se riferita all’anno 1983, quando da Suhrkamp è uscito solo questo:

    “Gesammelte Werke in fünf Bänden, a cura di Beda Allemann e Stefan Reichert con la collaborazione di Rolf Bücher, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983.”

    Il testo da me riportato, invece (quello di cui assemblavi tre versi mal tradotti), lo trovi qui:”

    “Die Gedichte aus dem Nachlaß, a cura di Bertrand Badiou, Jean-Claude Rambach e Barbara Wiedemann, note di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997.”

    Che è la stessa opera di cui Ranchetti ha curato l’edizione italiana (da me citata) pubblicata da Einaudi nel 2001.

    p.s.

    Approfitta delle feste di fine anno e prenditi una vacanza, o ti si spengono tutte le candeline. Ma cerca di tenerti lontano dai templi. Mi sa che li frequenti anche troppo.

  65. Auguri a tutti, a cominciare da luminamenti.

    Buon riposo e buone letture. Con un occhio sempre aperto e vigile sull’orrore che ci circonda.

    Let the peace in.

  66. sì, Enrico, e anche Calvino, Leopardi, Pavese, Montanelli, il primo Rebora…buon natale a te, a Lazzaro, ad Aditus, a tutta la nazione, indiana e non, senza dimenticare nulla di ciò che è passibile anche della più distratta o flebile memoria.
    fabrizio

  67. Buon Natale. In quanto alla mia citazione è quella che ho controllato nei volumi originali in tedesco che chiunque può controllare. In quanto all’altra dei meridiani non mi appartiene perché non mi appartiene neanche chi l’ha scritta a nome mio.
    Inoltre non mi appartiene neanche il livore, il sarcasmo e sopratutto esprimermi secondo i parametri morali di chi non rispetta la libertà di espressione degli altri e pretende di dirti cosa, come dovrei scrivere e dove dovrei andare e cosa e chi frequentare. Continuo per la mia strada serenamente e appasionatamente (per chi conosce la passione nello scambio libero delle idee). Buone feste.

  68. oh, mi pare che stia andando tutto abbbastanza bbbene. eh? oh. il pranzo sta per essere regolarmente servito, eh? oh. tanti cari auguri di buon natale e felisce anno nuovo a luminamenti, eh? oh, a dottor visconti pera e a don centofanti, sperando che eh? oh, vengano presto come concorenti, eh? oh, al mio quiz il pranzo è servito regolarmente in onda dall’aldilà, eh? oh.

  69. Leggo due commenti, entrambi targati “luminamenti”, pieni di inesattezze. Lo faccio notare. Poi scopro che di “luminamenti” ce n’è più di uno (ah, già, siamo in pieno clima di festa e di luminarie!). Vuol dire che a sbagliarsi non è uno solo. Se poi (il vero) “luminamenti” scambia un po’ di ironia per “il livore, il sarcasmo e sopratutto…i parametri morali di chi non rispetta la libertà di espressione degli altri” (quale, quella di sparare cavolate passandole per dotte citazioni a memoria?), allora vuol dire che ha davvero dei problemini (con se stesso), che gli auguro di risolvere approfittando della “ri-nascita” che ogni natale porta con sé.

    Auguri, Auguriiiiii, Auguriiiiiiii, Auguriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii….

    Lazzaro Visconti Pera

  70. Vedo progressi nella discussione sui contenuti…

    Caro Pera, non credo debba affaticarmi oltre con te che fai sproloqui sull’esattezza di una citazione che chiunque può sbagliare (ma per quanto mi riguarda, quella che ho citata è esatta e precisa e detta senza nessuno sfogio o atto mnemonico visto che ho preso i volumi e l’ho cercata credendo di fare cosa gradita a una domanda. Non capisco quale infamia o presunzione avrei compiuto nel cercare tra i miei libri il testo che riporta quella citazione che avevo riportato originariamente su N.I: a fine di un mio discorso che usava, tentava il tono linguistico delle lettere di Paolo (perché mi sembrava congeniale al contenuto storiografico di una interpretazione, discutibile quanto si vuole, della gnosi religiosa che annovera ancora tanti illustri studiosi e anche con una velata autoironia)
    Se poi tu o qualcun altro si diverte a usare il mio nick usuale per aggirare i contenuti di un discorso che usa (anche) allusioni, metafore o altro, e preferisca usare quella che tu chiami ironia per abbarbicarsi a una fonte citata da me o da altro sosia, continui pure. Ma, mi sembra, se è lecito pensarlo, che poco abbia a che fare, con i contenuti di un discorso, piuttosto sembri l’occasione voluta e aspettata (da te) per attaccarmi per dissentire dai miei discorsi (e non dalla mia citazione e modo che tu presumi di come io debba pure ricordarla e riportarla. In ogni caso anche se avessi sbagliato, cosa c’entra con i discorsi fatti? Non è più sereno dire: ricordi male la citazione, ti stai sbagliando invece di fare della facile facile ironia che di costruttivo non ha nulla? Cos’è la prima volta che qualcuno sbaglia una citazione? Ma non ho sbagliato e se avessi sbagliato trovo la tua reazione spropositata, mancante di equilibrio e sopratutto di educazione civica, sempre più rara a trovarsi. Ti potrò sembrare che mi atteggio a dotto o altro qualsiasi, ma questo non giustifica, se non rispetto ai problemi che hai con te stesso, lo scendere nella tua replica sul personale, che implica una vicinanza con la persona che non abbiamo. Dissenti sul contenuto, contesta l’errore crudamente senza avverbiare e colorire i tuoi pensieri di altre implicazioni che non offendano la sensibilità del modo di essere altrui che ti può piacere o meno ma non puoi cambiare. Guarda che si vive meglio in società senza accapigliarsi).
    Cmq la citazione è esatta e se qualcuno mi dimostra che è sbagliata gli sarò grato (sarà difficile visto che quell’edizione io l’ho comprata e l’ho qui sotto i miei occhi e vedo che un nick sconosciuto che non so chi sia la riporta in una tesi di laurea che ignoravo) senza ricorrere all’atteggiamento di Pera che poco ha a che fare con una serena discussione con il tema, che era quello che m’interessava (mentre a lui interessa animarsi su una citazione. Che cattivo uso dell’anima).
    Cmq quando l’ho riportata la prima volta a fine di un mio discorso, cioè prima che si chiedesse da quale fonte era ricavata, si sappia che la ricordavo originariamente dall’editoriale di Grazia Longo del volume Radure, quaderni di materiale psichico, volume primo, anno quarto, 2001, Moretti e Vitale. Quando poi è stato chiesto dove si trovasse originariamente sono andato a cercarla nei volumi in tedesco che possiedo, né certo potevo ricordare a memoria (nonostante la mia ottima memoria per fortuna) dove si trovasse pensando di fare cosa gradita. Anzi è stata cosa gradita la domanda, perché occasione per rispolverare un volume. In quanto alla traduzione, qualcosa di tedesco so, e cmq l’ho riportata a memoria nella traduzione che lessi su radure (in verità, guardando adesso radure vedo che manca un ma) e che ho conservato nella mia memoria perché per me questa breve poesia ha un signifcato divenuto personale. Senza rancore e sperando in una maggiore serenità futura.

  71. Grazie, Ivanovna. Quando hai smaltito i fumi del cenone, controlla anche il Mondadori 1989. Tu sicuramente ce l’avrai.

    Per digerire, ti consiglio un brodino di cardi.

  72. Senti Luminamenti, proprio perché è natale: io non uso il nick di nessuno, ma solo e unicamente il mio nome, quello che leggi qua sopra. Ho solo fatto dell’ironia su un riferimento bibliografico sbagliato, senza sapere quanti illuminati ci sono in giro, anche se vedo che, ultimamente, il numero è in crescita esponenziale. Dell’edizione Suhrkamp, io ho quella in cinque volumi. La battutina sulla traduzione (il tedesco imparato ad Eleusi) non mette minimamente in discussione le doti di studioso di nessuno, anche se non è un blog il luogo dove questo sapere rifulge. E il sapere, per quel che mi riguarda, più e umile e conscio dei suoi limiti, meno pomposo è, più facilmente giunge ad effetto. Questo permette, anche, di non prendersi troppo sul serio in ogni occasione, cosa che a lungo andare ha evidenti ricadute sul processo di ipertrofizzazione dell’io. Malattia che porta, magari, a scambiare qualche battuta in clima natalizio per “rancore”, “offese alla sensibilità” e amenità del genere. Tutte cose che, in un contesto del genere, tornano immediatamente al mittente, continuando ad aleggiare nella ben poco aerata torre d’avorio in cui, forse, vive.

    Saluti luminosi.

    Lazzaro Visconti Pera

  73. “Questo permette, anche, di non prendersi troppo sul serio in ogni occasione, cosa che a lungo andare ha evidenti ricadute sul processo di ipertrofizzazione dell’io”.

  74. volevo commentare così: “la guerra di citazioni, la bisanzio dei post liceali devoti, col prete che li osserva affettuosamente mentre si accapigliano nel cortile della parrocchia” eccetera.
    ma mi sembrava troppo acido per il giorno di natale.
    quindi non l’ho scritto.

  75. Miracolo di natale! Nomini l’allievo, e subito ecco comparire anche il maestro!

    Comunque, “bizantino post liceale devoto” mi piace e me lo tengo. Lo attacco al bavero.

  76. Ma no, Fabrizio, non preoccuparti. Tash è fatto così, ci teneva tanto a farci sapere che c’è anche lui. Non lo confesserebbe mai, ma anche lui ha il VII volume delle Gesammelte Werke di Celan, annata 1983, la migliore. La più utilizzata (e bevuta) dagli abitanti dello stato libero di Coglio.

  77. Ieri notte sarebbe stato un vero piacere ascoltare la missa in latinorum.
    Ma i commentatori della minchia giornalistica hanno pensato bene di italianizzare il tutto. Non potevano fare il ponte scioperistico anche loro?

  78. Caro Lumina, a proposito di gnosi non so se hai letto Visioni Profetiche di Harold Bloom. A me è sembrato un gran libro. Ultimamente, frequentando la scuola di formazione politica di Acireale, si è parlato di esicasmo. Avresti qualche libro serio da consigliare? Grazie.

  79. Quel libro di Harold Bloom è stupendo. Bloom è stato molto criticato rispetto ai suoi ultimi volumi editi, a mio parere ingiustamente, e senza tenere in sufficiente conto il punto vista dal quale lui compie le sue sofisticate analisi di critica letteraria. Quello che voglio dire è che non condivido la scelta di metodo (come è stata fatta in Italia) nel criticarlo, quasi ignorasse o volesse rimuovere il punto di vista gnostico dal quale lui parte per costruire il suo panorama letterario. Se deve essere criticato è a partite da questo punto di vista che bisogna iniziare, cosa che evidentemente resta ostica da affrontare alla maggior parte della critica letteraria italiana contemporanea. Ed è proprio nel libro da te citato, che si trova un riferimento (tra i tanti) a questo suo punto di vista gnostico da cui guarda al mondo della letteratura, quando a pagina 21 del testo dice: conoscere me stesso, conoscere Shakespeare e conoscere Dio sono tre obiettivi distinti eppure strettamente collegati (N. B. per la fonte della mia citazione rimando al curatore ufficiale della Biblioteca di Babele, dott. Lazzaro Visconti Pera, che vi informerà sull’esattezza della fonte e se la citazione è riportata bene, tradotta bene e se l’ho citata estraendola dalla mia memoria, dal presunto esistente o meno libro o se mi è stata suggerita, o trovato sul web).
    Sull’esicasmo c’è un libro completo: Sulle tracce della Filocalia, ed. San Paolo.
    Ma se ti devo dire la mia personale preferenza al linguaggio della preghiera, mi ha convinto la lettura Della Cosa Ultima di Cacciari e l’esempio che lui riporta (pag 456-457) dal Proslogion di Anselmo. Lo trovo bellissimo e di straordinaria purezza espressiva!
    In quanto alle guerre di citazioni, non sono interessato alle guerre se non per difesa immunitaria. Personalmente non ho fatto alcuna guerra di citazioni, ho solo riportato una fonte a fronte di una domanda di richiesta a quanto avevo citato ( e mi accorgo solo adesso che qualcuno ha riportato in un commento un link di una tesi di laurea che ignoravo dove è indicata la mia stessa fonte. Quindi non l’ho solo io quel volume. D’altra parte chi ha per primo chiesto la fonte della citazione potrà con tranquillità cercare. Per quanto riguarda il meridiano della mondadori non ne so proprio nulla perché non l’ho mai posseduto, quindi non metto in dubbio che a quel numero di pagina ci sia la foto della nonna di Lazzaro Visconti Pera. Quindi è parente di Celan?).

    Se ho citato male la citazione e la fonte bastava dire che sbagliavo e riportare la citazione esatta e la fonte corretta.

    Così non è stato, quindi tutto il resto è stato vaniloquio, guerra con se stessi, e dimostra che non interessava correggere l’errore, ma piuttosto usare l’errore con intenzione differente che non mi va di indagare. Posso solo qualificarla come poco civile (se il rispetto altrui è ancora un segno della civiltà) e questo probabilmente, dato che qualcuno l’ha detto, potrebbe configurarsi come ipertrofia dell’io (ma non sono interessato neanche a valutare quest’aspetto. Preferisco credere a un momento di cattiva digestione piuttosto che i consigli psicoterapeutici che il Lazzaro visconti pera profonde!)

    In quanto alla sensibilità, ognuno spero abbia la propria e mi auguro che non ci sia nessuno qualificabile come insensibile. Per quanto riguarda la sensibilità poi ritengo, con buona compagnia, che riguardi la dottrina morale dell’anima (teoria del sentire di R. de Monticelli) piuttosto che l’io insussistente. Ma proprio perché so che ognuno è sensibile a modo proprio evito accuratamente di urtare la sensibilità altrui mostrandomi poco educato in senso civico e morale (non scambio l’esser disinibiti nel conversare con estranei sul web o altrove come segno di emancipazione e di avanguardia, piuttosto mi fa nascere un sentimento di pietà).
    Ma sembra, che sul web, accada quello che si vede accadere in televisione, dove il senso della misura nella conversazione diviene senso di chi è più bravo a sciorinare la sua ironia distruttiva e malevole e dove il linguaggio è degradato, svilito e privato dei suoi contenuti. Ci sono altri modi anche per scherzare e fare intelligente ironia anche sul web!
    Ormai abituati ad assistere in televisione a spettacoli penosi, a risse sfrenate, ci si è assuefatti e abituati a considerare questo stato lo standard normale della discussione.
    Lo stesso fenomeno accade nel campo delle analisi cliniche, dalla quali si può constatare, osservando l’emocromo e in particolare la conta degli eosinofili, come i valori standard considerati normali vanno elevandosi in conseguenza del fatto che ormai sono sempre più le persone che soffrono di allergie, e quindi tanto più sono le persone in questo stato, tanto più è considerato normale un certo valore alto di eosinofili. Tutti sulla stessa barca (del diavolo). Quando così non è! Non per nulla si diffonde a macchia d’olio il fenomeno delle intolleranze alimentari.
    Personalmente rimango allergico, per rimanere in tema, ai vaniloqui gratuiti e vuoti e fuori luogo e ai toni e a agli inviti poco signorili per chi li fa e sempre continuerò a farli notare come caduta della Civiltà. Sembra che oggi avere forma oltre che sostanza sia superfluo, anzi ridicolo. Se è così sto dalla parte del ridicolo con somma gioia! Ora mi ritiro sul monte Athos (con una fetta di cassata) !

  80. Così parlò l’Empedocle alla cassata. Colui che non offende nessuno, perché la sua superiore moralità glielo impedisce (e infatti basta leggere il suo ultimo “appello”).

    Aera i locali, Anselmo Bloom, che è meglio.

  81. Oh Lazzareto, ma se come tu dici basta non prendersi troppo sul serio, quest’affermazione che tu proclami dobbiamo anche questa non prenderla sul serio oppure sì? E poi, una volta che uno ha stabilito se prendersi o meno sul serio che fa? usa lo stesso metro di pensiero quando parla col prossimo tuo anche se il prossimo se la ride della tua persuasione intelligente?

    Cmq ci sei simpatico anche se furbescamente invece di riconoscere che lumina aveva citato bene, te ne esci con l’affermazione che il VII volume delle Gesammelte Werke di Celan, annata 1983 è la migliore.

    Ma non era un’altra la domanda posta? semplice semplice?

    Che si prova a fare una figuraccia?

  82. Senti, cara/o Iv-ano-vna, cos’hai fatto, ricerche bibliografiche nel giorno di natale? O stai scrivendo una tesi sulla masturbazione dei grilli con guanti di pelle? Se rileggi il thread dal mio intervento, io ho fatto due osservazioni: contestato l’esistenza di un Celan-Bevilacqua-Mondadori del 1989 (che non esiste); avanzato dubbi sull’esistenza dei “sette” volumi delle GW all’anno 1983 (“Anche la tua seconda citazione profuma di bufala, almeno se riferita all’anno 1983”). Nel secondo, c’è un “almeno” che la dice lunga (ma tu, impegnata/o a seguire seminari e ricerche dei tuoi amichetti, non te ne sei accorta/o): avendo io l’edizione in cinque volumi, che contiene una nota editoriale che annuncia per i prossimi anni la pubblicazione di inediti e lettere e ignorando che i luminamenti si clonano soprattutto durante le festività, non ho fatto altro che mettere assieme le due cose. L’ironia sulla conoscenza del tedesco, poi, nasceva dalla traduzione dei versi riportati da luminamenti 1, a fronte del testo che in seguito avevo riportato in originale. Questo è quanto, mascherina: deponi per un attimo il pirla che è in te, e rileggi. Anzi, non rileggere. Fa, invece, un’altra cosa: aspetta la notte di capodanno: allo scoccare della mezzanotte, prendi le domande che coronano il tuo test(icolo) delle h 8.40, infilale delicatamente nella parte centrale del tuo cognome, e guarda l’arrivo del nuovo an(n)o: ti si apriranno prospettive sorprendenti, inaspettate…

    Addio, mascherina. Alla prossima.

  83. La traduzione del testo di lumina è stata usata pure nella tesi di laurea di cui ho riportato il link per cui dubito che tu possa vantare diritti ineguagliabili sulle traduzioni. E anche nella rivista radure è tradotta allo stesso modo. Che quell’edizione in tedesco esiste è dimostrato da questa tesi di laurea prima ancora che qualcuno se la vada a cercare e veda confermato quanto sostenuto da lumina. Il resto di quello che dici si commenta da solo come il link che ho riportato. Che figuraccia che hai fatto!!

  84. Grazie per la risposta lumina e lascia perdere le persone che masticano scurrilità senza argomenti…salutoni come sempre

  85. Oh Lazzareto, ma se come tu dici basta non prendersi troppo sul serio, quest’affermazione che tu proclami dobbiamo anche questa non prenderla sul serio oppure sì? E poi, una volta che uno ha stabilito se prendersi o meno sul serio che fa? usa lo stesso metro di pensiero quando parla col prossimo tuo anche se il prossimo se la ride della tua persuasione intelligente?

  86. “Grazie per la risposta lumina…”

    Ecco svelato l’arc-ano…

    Che bella famigliola, complimenti!

  87. ringrazio coloro che hanno capito, ma ormai mi sono spostato su altri articoli e non sono interessato qui oltre.

    La fonte della mia citazione esiste e il modo di tradurla in quel modo è stato fatto anche da altri come si è visto e né pensavo di essere un grande traduttore dal tedesco (oltretutto citavo per finire un discorso di altra natura), né meritavo per questa mia incapacità traduttiva tutto l’incivile ricamo del Visconte che continua a visitare questi commenti non sapendo più come frenare la bile che lo attraversa per essere stato smentito

  88. Visto che le acque sembrano calme, mi permetto di approfittarne per chiedere alla dott.sa Ivanovna e/o al dott. Luminamenti di voler soddisfare, gentilmente, qualche curiosità. Sono un piccolissimo cultore dell’opera di Celan e, avendo contribuito in minima parte, con studiosi veramente di nome ed esperti della lingua tedesca, al thread di commenti che, partendo da ‘Psalm’, ha toccato quasi tutta la produzione dell’autore in questione, mi piacerebbe saperne qualcosa in più. Ad esempio:

    > Chi è l’autore della traduzione di cui il dott. Luminamenti riporta tre versi: se l’inedito a cui ci si riferisce è lo stesso riportato in Die Gedichte aus dem Nachlaß del 1997, la traduzione di ‘vertrau der Tränenspur’, con ‘Ma al margine della traccia di lacrima’ è quantomeno azzardata, o una vera licenza poetica di cui ogni traduttore serio dovrebbe dar conto, visto che modifica sostanzialmente il senso del testo. Non so se esistono altre varianti di quel componimento; qualora esistessero, uno studioso le cita, così come cita, sempre, le fonti a cui attinge, soprattutto quando si tratta di traduzioni poetiche e, in particolare, di un autore ‘controverso’ come Celan.

    ‘Stare al margine’, se non erro, ha un significato; ‘Affidarsi, consegnarsi con fiducia’, sempre se non erro, ne ha uno ben diverso.

    > Anch’io posseggo l’edizione completa delle opere di Celan pubblicata da Suhrkamp nel 1983 in cinque volumi (ne ho dato conto, su richiesta, anche nel post sopra citato del mese di settembre). Poiché immagino che quella in sette volumi sia la stessa, visto che ha la medesima curatela, e magari sia stata stampata in un’edizione tascabile, chiedo cortesemente al dott. Luminamenti di verificare, dal momento che possiede l’opera, quali testi contiene il suo terzo volume, ad esempio. Così, solo per capire quale distribuzione delle opere è stata fatta nel passaggio da un’edizione all’altra. E’ una cortesia da poco che gli chiedo, basta tirare fuori il libro e dare una guardata all’indice.

    Grazie per l’eventuale risposta.

    Su NI, almeno fino a poco tempo fa, si usava ancora così. E poi, tra ‘studiosi’ della materia ci si intende sempre. Il vostro ‘interlocutore’, ad esempio, al quale non ho chiesto niente solo per evitare di sentirmi dire, magari, dove infilarmi le domande a capodanno, aveva almeno il merito di far riferimento a testi ben precisi. Soprassediamo sul modo. Ma non vorrei scoprire, e sarebbe un vero peccato, non raro nemmeno qui del resto, che tanti ‘patrimoni’ culturali nascono unicamente dalla frenetica compulsione del motore di ricerca di google.

    Cordiali saluti.

  89. Notte di baldoria. Non solo i preti la passano a vegliare ma anche i blasfemi come noi. Streghe in arrivo! Un giro per blog poi una bella dormita e domani una relazione nel pomeriggio. Alleluia! Il prete ha finito! Andate in pace! Ma che bel gruppo di gente che si masturba con citazioni a vanvera. Solo qui dal prete si poteva riunire. Prendetevi queste vacanze per studiare un po’. Per il ragazzotto sopra: non sono lesbo, sono emancipata. Bollicine anche per me. Tante.

  90. Il mio interlocutore come lo chiami tu mi ha dato il merito di dimostrare che quest’opera in tedesco esiste e che non era una bufala. Se poi questa opera sia migliore o peggiore di altre non so giudicare perché non è a me che devi chiedere, non ho approfondito oltre tale questione. Cmq appena torno dal mio viaggio (sono fuori città da ieri sera) ti darò le informazioni che mi hai chiesto.

    Cmq quella versione di traduzione circola non su Google ma su vari testi, riviste da almeno 5 anni (di questo ne sono certo e mi stupisco che chi dice di appartenere a un gruppo di studiosi, che quindi si suppone di avere approfondito la questione, non ne sappia nulla e gli sia sfuggita tale cosa. Ma può capitare).

    Personalmente non sono uno studioso di traduzioni e la mia (l’avevo già detto, e con un minimo di attenzione alla lettura dei post c’era già la risposta) traduzione che è la stessa che circola da tempo non vuole certo pretendere di essere quella più esatta. Oltretutto l’ho inserita all’interno di un discorso di altra natura che non riguardava Celan e cmq era lecito indicare come autore Celan dato che già come ti ho detto in diversi testi circola tale versione riferita a Celan, per non dire poi che è stata così tradotta anche in tesi di laurea (come è stato cortesemente non da me indicato).
    Inoltre al mio interlocutore non interessava l’eventuale errore e i suoi argomenti trascendevano la questione e avevano altro tono e temi che quelli che cortesemente tu mi poni. Il suo era solo un pretesto.

    In quanto al problema della traduzione ricordo la posizione di Elémire Zolla dalla quale non si sposto di una virgola per la stima della vastità, preparazione e serietà dell’uomo:

    “Sulla traduzione disse il dicibile, assai poco, Benjamin. C’è un solo modo di creare una teorica nuova della traduzione, abbracciare la tesi così ovviamente falsa di Galvano della Volpe, sulla possibilità del tradurre.
    Ogni comunicare implica un tradurre, dal testo interiore a quello espresso e da questo all’esperienza interiore del destinatario. A questo tradurre quotidiana e incessante si può aggiungere l’alterazione o traduzione fra una lingua e l’altra (Zolla, Un Destino itinerante, Marsilio)

    Su quanto tu qui dici:
    “Non so se esistono altre varianti di quel componimento; qualora esistessero, uno studioso le cita, così come cita, sempre, le fonti a cui attinge, soprattutto quando si tratta di traduzioni poetiche e, in particolare, di un autore ‘controverso’ come Celan”, ho già sopra specificato che non è a me che devi chiedere l’approfondimento. Non stato scrivendo su Celan nel post dove ha fatto la sua comparsa tale citazione, non ritenevo la questione così rilevante dentro il discorso e il contesto nel quale era emersa da dovermi porre il problema di citare tutte le questioni che tu poni. davo per scontato che quella traduzione fosse conosciuta ai più.
    Successivamente c’è stata una reazione di ben altra natura di quella tua e gli argomenti erano altri (a parte l’accertamento che non di bufala trattasi, dato che il testo in tedesco di cui si è detto che non esisteva invece esiste!)

    Questo non toglie nulla alla legittimità della tua richiesta di esattezza e approfondimento.

  91. Grazie della risposta, ma, ti dirò, a me continuano a rimanere dei ‘dubbi’. Senza voler fare l’avvocato di nessuno, ma solo per chiarezza, te ne espongo un paio, se la ‘sublime’ presenza che si firma ‘libera’ (sic!!!) me lo consente. Credo che le discussioni a volte degenerino, anche, perché si dà poca o nulla importanza ai particolari. Non entro nel merito delle tue argomentazioni sulla ‘traduzione’, non mi sembra né il caso né il luogo. Mi permetto solo di farti notare che il concetto di ‘alterazione’ che richiami, con tutto il rispetto per lo studioso che lo propugna, è ‘scientificamente’ inapplicabile, almeno dal mio punto di vista, perché, usato arbitrariamente, sfocia nell’abuso e nella cancellazione di ogni rigore critico ed ermeneutico: e infatti, tornando all’esempio di ieri, se io traduco ‘rimani al margine della traccia di lacrima’ ciò che, letteralmente, mi dà ‘affidati alla traccia di lacrime’, la poesia, e non solo quella, diventa il campo dell’ambiguità, del dilettantismo e della baraonda elevata a sistema. Per il resto mi chiedo:

    > se il commento a firma ‘luminamenti’ del 23 dicembre alle h. 12.38 non è tuo, perché non intervieni subito a smentirlo, visto che contiene inesattezze clamorose: e sono proprio quelle inesattezze che fanno propendere, da quello che posso capire, ma forse sbaglio, il signor VP a mettere in discussione tutto il resto, passando dall’ironia a un sarcasmo assolutamente fuori luogo;

    > visto che possiedi le GW di Celan, ti bastava risalire ai curatori per dimostrare che si tratta della stessa opera citata, correttamente, dal tuo ‘interlocutore’; l’equivoco nasce proprio dal fatto che la stessa casa editrice annuncia come imminenti altri volumi; e, in ogni caso, avresti permesso alla dottoressa Ivanovna di non perdere tempo con google, come fa di solito, e di occuparsi, magari, di faccende più confacenti (e sì, il ‘verme taglierino’ è proprio un suo cult, un vero marchio di fabbrica!);

    > la traduzione del frammento da te riportato, a quanto mi risulta, è, e deve essere, opera del dottor Paolo Graziani, ed è tratta dalla sua (pur pregevole) tesi; ma, si dà il caso che, con tutto il rispetto verso questo giovane studioso, egli non è ancora un Ranchetti, un Reitani, un Bevilacqua, tanto per citare solo qualcuno degli studiosi e traduttori italiani ultradecennali dell’opera di Celan; e, infatti, ci sarebbe da dire su talune ‘sue’ traduzioni presenti nel lavoro;

    > a me sembra, e lo dico senza nessuna ironia, che la suddetta tesi sia l’unica fonte alla quale avete attinto, a fronte di una sterminata opera di traduzioni e di studi critici ampiamente reperibili anche in italiano, tanto tu che la dottoressa Ivanovna, dimenticando che: si tratta di un’opera di cinque anni fa; che in questi cinque anni gli studi specifici su Celan sono cresciuti in quantità e qualità esegetica; che, nel frattempo, la stessa Suhrkamp ha pubblicato le stesse GW in una serie di volumi monografici ancora più rigorosamente curati dal punto di vista filologico e critico.

    Questo è quanto, solo un modo per riempire il vuoto di queste ultime ore di ferie: nel pomeriggio riprendo a lavorare.

    Cordiali saluti.

    p.s.

    Egregia dottoressa ‘libera’, a me sembra che lei faccia onore al suo nome solo in quanto libera da ogni sia pur minima parvenza di ritegno e di intelligenza. Perché non ci illustra i suoi campi di indagine, magari proponendoci un indice ragionato delle sue mirabili pubblicazioni? Siamo qui, ai suoi piedi, per imparare.

  92. Che inutile e stucchevole perdita di tempo, quante energie preziose sottratte al riposo prima del lavoro. Bastava pazientare quattro giorni e all’alba del primo gennaio vedere gli effetti della cura.
    Che spreco, avvocato, pensando anche al fatto che non pago nessuna parcella.

  93. Senza dover precisare che non sono Libera sarò però libero di dire che quello che Libera dice mi piace innanzitutto per come lo dice e in quanto al contenuto che significa io sono e non sono d’accordo (forse si capirà da quello che ora dirò).
    Come ti ho detto mi trovo fuori casa e risponderò appena torno ad anno nuovo alla tua prima domanda precedentemente risposta. Sono nella mia casa di montagna in famiglia e non ho il volume con me.

    Rispondo a quanto mi chiedi nel tuo ultimo post.

    Mi chiedi: “se il commento a firma ‘luminamenti’ del 23 dicembre alle h. 12.38 non è tuo, perché non intervieni subito a smentirlo”.

    Scusami un po’ di ironia nei tuoi confronti, ma se tu traduci così bene e sei così preciso e attento come vorresti o mi eri sembrato, come mai non ti sei accorto che ho già smentito da molto tempo quel post di cui tu mi chiedi sopra?
    Già così mi dai un’impressione differente dalla prima che mi avevi dato sulla tua affidabilità in materia (il che sarebbe analogo o equivalente a quanto tu dici sul fatto che da inesattezze VP ha messo in discussione tutto il resto. Così io dovrei mettere adesso in discussione tutta la tua affidabilità in materia di Celan, traduzioni ed edizioni solo perché disattentemente non ti sei accorto che avevo già smentito. Perchè certo la disattenzione non gioca a favore dell’attenzione necessaria nella competenza filologica eccetera eccetera). Questo già a me basterebbe per non sprecare altro tempo nei discorsi. Utilizzerei così lo stesso metro di pensiero che tu sembri giustificare in VP pur con il tuo distinguo che i suoi toni non erano accettabili né io adesso con tale leggera ironia pervenire ad insultarti cosa che infatti non faccio perché non avrebbe alcun senso come non ne aveva il linguaggio di VP. Sei stato solo disattento e un errore non è strumento per costruire castelli in aria.

    Ma voglio essere cortese e gratuito e utilizzare il mio metro di pensiero, quindi proseguo convinto che un tuo errore non meriti valutazioni precipitose sulle tue competenze in materia.

    Dici: “e sono proprio quelle inesattezze che fanno propendere, da quello che posso capire, ma forse sbaglio, il signor VP a mettere in discussione tutto il resto, passando dall’ironia a un sarcasmo assolutamente fuori luogo”.

    Mettere in discussione tutto il resto cosa? ti sembra che da quanto avevo scritto in quel post in cui ho inserito la poesia di celan il signor Vp ha detto qualcosa al riguardo? o ha chiesto delucidazioni? e inoltre: con tono civile? Vedo che concordi sul sarcasmo. Aggiungo: fuori contesto; perché da esperto che dice di conoscere Celan sarebbe bastato dire che non era esatto quanto affermato sull’edizione mondadori e correggere. Un’eventuale errore non implica l’annullamento di tutto il resto del discorso che tra l’altro non era su Celan. In questo modo avrebbe fatto servizio per la comunità.
    Ma ho già precisato che chi si firmava con il mio nick non ero io e devo solo supporre che qualcuno si sia divertito in questa operazione o benevolemente ipotizzando l’abbia fatto in buona fede facendo confusione e atteggiandosi con il mio nick per motivi che mi sono oscuri.

    Vengo alle altre questioni. Mi contesti il concetto di alterazione, ma non si capisce sulla base di quali argomenti presunti scientifici (qualunche cosa per te significhi la parola scientifico applicato al campo della traduzione letteraria che non precisi).
    Mi ricordi tra l’altro nel tuo precedente post che certe licenze poetiche andrebbero giustificate (suppongo che vuoi dire razionalizzate che significherebbe suppongo equivalenti al tuo scientifico).
    Ricordo a mia volta certe discussioni a cui in passato ho avuto modo di assistere sulla esattezza e affidabilità della traduzione in italiano del capolavoro di Pynchon, Mason e Dixon e alla fine la conclusione che a me sembrò più veritiera era che ogni differente posizione aveva la sua leggittimità ( a me quella traduzione piace da morire e poco m’importa se Pyncon magari si rode il fegato che il traduttore è più bravo di lui a parte l’invenzione della storie e trama). In ogni traduzione c’è sempre licenza letteraria e tentare di giustificarla è un’ozioso esercizio del nulla o può essere utile non per dire quale traduzione sia più vera ma solo per un’arricchimento conoscitivoed esperienziale della comunità (dei traduttori soprattutto).
    Non è questa la sola mia opinione, ti faccio notare, perché a parte l’autorevole Zolla, altri scrittori autorevoli hanno più volte espresso in articoli, convegni, interviste e attraverso i loro libri editi tale posizione: ricordo la posizione dell’Adelphi, di Roberto Calasso, di Harold Bloom e di George Steiner che più volte hanno spiegato ognuno a modo proprio e seguendo una propria motivazione l’inesistenza del problema. Il fatto è che il traduttore è un’autore a tutti gli effetti (cosa che è pericolosa da dire pubblicamente ed esplicitamente sul piano dell’economia politica dell’editoria) e questo è compreso ormai molto bene anche dalla maggioranza degli scrittori tradotti, che, quando capaci di spogliarsi dall’idea del possesso della loro opera e del loro narcisismo, ben comprendono l’inevitabile trasformazione della loro opera a causa dell’invenzione di Babele che nessuna comunità di traduttori ha mai risolto. Ti rimando su questa questione e sul tradimento della traduzione a Errata una vita sotto esame di Steiner edizioni Garzanti (se è il caso, mi riprometto tornando a casa di prendere in mano Steiner per riversarlo).
    Inoltre vorrei precisare che sebbene ci siano persone autorevoli che la pensano in questo modo, questo non significa che riferire dell’esistenza di questa posizione sia un argomento o argomentazione (quella di Zolla che ho riversato io la sposo, è per me un argomento più che sufficiente), tuttavia ti faccio notare che per quanto mi riguarda il principio di autorevolezza, quando uno lo riconosce in un altro è per me principio di ragione. Immagino che questo in epoca post-moderna e malata di democrazia suoni male né mi va di dilungarmi filosoficamente e storicamente parlando, sul perché il principio di autorevolezza sia principio di ragione, ben sapendo come la trasmissione accertata del sapere si è spezzata (e tu stesso contraddicendomi contraddici te stesso quando alludi ai guai che fa Google. Pensa che guai ne vengono a non riconoscere autorevolezza ai personaggi che ho citato sopra e che non sono da meno ma più di quelli che tu nel tuo post verso la fine mi indichi).
    Ma vorrei, nonostante sia supefluo, fornirti un principio di ragione sotto forma di argomento che non includa il principio di autorevolezza.
    Si riverisce in certe civiltà un testo remoto del quale non è dimostrabile la fonte. Strack e Billerbeck riuscirono a compiere un’opera analoga per i Vangeli. Si procede a sviscerare un testo, fino alla più scatenata eversione.
    L’interpretazione ebraica della Bibbia, basata sulle “misure” o middot, regole che allargano e rafforzano la logica di stampo greco, può essere sufficiente ad assorbire tutta una vita e sicuramente squaderna una possibilità di bizzarria e di pieghevolezza. Naturalmente il fondamento di tale atteggiamento riposa su una questione dottrinaria molto complessa che non è possibile adesso porre e che investe il significante e il significato, la parola orale e scritta come simbolo e il suo utilizzo gnoseologico e mistico e altre questione remote perse nella notte dei tempi; e per chi vuole porsi ancora delle domande, invece di spiattellare certezze e risposte fragili in materia di traduzione e polisemia, c’è molto da cercare piuttosto che accapigliarsi su una frase tradotta e su una fonte ignorando la questione di fondo che investe, anche, l’origine sorgiva della parola, del verbo nella creazione letteraria e il modo di usarla nella ricezione (tre opere per affondare tanta linguistica moderna: un capitolo profondissimo di Destino della Necessità, gli scritti di Semerano e l’ontologie du secret di Boutang)!
    Ma proprio a lato della questione di fondo c’è un altra questione meno difficile da sviscerare e ciò mi riporta a una tua osservazione su Nazione Indiana e alle sue regole e su questa tua affermazione: “Su NI, almeno fino a poco tempo fa, si usava ancora così”.
    Partecipo ai commenti su NI sin dalle sue origini e non mi sono mai accorto di tutta codesta precisione in tanti articoli e commenti neanche fossimo al Convegno Mondiale dei filologi, dei traduttori e critici di Celan che poi non era certo l’articolo che commentavo dal titolo Il canto del Gallo. Fossimo su una Comunità di traduttori e filologi e allora qualcosa in codesta presunta comunità, qualcosa di questo genere avvicinabile al genere masturbatorio della cultura che dovrebbe accrescere lo Spirito secondo i principi di Simmel, allora dicevo avrebbe una parvenza di senso e di senno porre. Ma così non è per chi ancora ci vede!
    Inoltre. Si usava così, presuppone che ci siano su NI delle regole (implicite o esplicite?) in materia di fonti e citazioni.
    Supponiamo pure che esistono e che qualcuno se ne sia accorto da quando NI esiste.
    Penso, in base ai miei principi di ragione (non è quindi un atto capriccioso), sopraesposti, di poterle liberamente disattendere, dato che il rispetto di una regola è vincolante fintantoché limita la libertà altrui di dichiarare l’errore e correggerlo (senza fare il cafone) per chi lo sa, e per chi non lo sa o accettarlo cmq se si riconosce autorevolezza o andarsi a documentare. Tutte cose che nessuno è impedito di fare!
    Infini su quanto tu mi dici: “visto che possiedi le GW di Celan, ti bastava risalire ai curatori per dimostrare che si tratta della stessa opera citata, correttamente, dal tuo ‘interlocutore’;
    Quando tornerò a casa controllerò, il tuo discorso, questa tua ipotesi la trovo possibile, il che confermerebbe la gratuità incivile del mio contestatore che è come tu stesso puoi vedere molto differente da quanto tu stesso mi scrivi con tue parole dell’equivoco possibile.
    Ma perché, dell’equivoco parlava il mio interlocutore? Mi sembrava parlasse di me come persona. Se si fosse espresso come te avremmo risolto prima il dilemma. Ma non lo interessava ( e se a una persona interessa altro altro gli offro perchè non si può donare altro ciò che l’altro non vuole per-donare) né gli interessa Celan e il vissuto personale di una cultura (che è poi quello che mi sembra che anche tu rischi di perdere inseguendo questo tuo discorrere. E te lo dico con rispetto e sospetto non certo per denigrare).
    In quanto a interventi di altri nick non ne sono responsabile se qualcuno si è divertito nei suoi confronti complicando.
    Sulle tue ultime questioni mi sembra di aver risposto sopra ed abbastanza per un sito web. Non sono un traduttore di professione, ho dimostrato che questa traduzione esiste, circola, è reperibile, ampiamente lecita (sopratutto non perché circoli, sebbene ciò possa bastare ed essere più che lecito non trovandomi in alcun ruolo ufficiale di traduttore su un sito come NI che non è l’Accademia della Crusca delle traduzioni, per questo ci sono luoghi più consoni, ma per le ragioni sopraesposte. Quella traduzione è per me quella che più mi soddisfa e non immagino che debba soddisfare chiunque altro. Non sono interessato a un discorso culturale basato sulla storiografia letteraria alla quale attribuisco mediocre valenza culturale quando si fossilizza su questioni che escludono l’atto della ricezione. Ma il discorso sarebbe troppo lungo e già sono stato fin troppo lungo. Magari è occasione per porre articoli su queste questioni, ma dubito che la cultura nella sua essenza abiti tali argomenti e possa interessare a qualcuno)

  94. Che dire, Luminamenti, mi dispiace di averti deluso, ma, ti assicuro, sono esattamente la stessa persona del primo post. Infatti, educatamente, rispondo solo per salutare e, per evitare ulteriori equivoci, tolgo il disturbo da questo spazio occupato un po’ abusivamente; mi rimane la consolazione di essere intervenuto solo quando i commenti al post di Fabrizio Centofanti sembravano già appartenenti al passato.

    Vedi, io non mi sono mai permesso di mettere in discussione né la tua cultura né le tue competenze e quando sono entrato nel merito dei tuoi riferimenti a Zolla, l’ho fatto con un ‘almeno dal mio punto di vista’ che la dice lunga sulla mia presunta volontà di negare validità ed esistenza a dottrine che non condivido. Forse ti è sfuggito. I problemi, enormi, che tiri in ballo, meriterebbero ben altre discussioni che il botta e risposta di un blog, come tu stesso osservi; e, infatti, non entro nel merito, sperando possano esserci situazioni meno caotiche per confrontarsi. Solo una piccola osservazione, a questo proposito. Da lettore da sempre di NI, non ti sarà sfuggito che questi temi sono stati spesso trattati, visto che della redazione fanno parte studiosi e traduttori di valore e che, di tanto in tanto, tra i commentatori si trovano altresì traduttori di valore, in particolare germanisti. Credo che le teorie sulla ‘traduzione’ e la ‘ricezione’ che proponi, e il riferimento agli autori che citi, troverebbero ben poco seguito; ma questo non significa assolutamente niente, sono scelte di campo che ognuno liberamente fa, e vanno tutte rispettate. Per quanto riguarda il principio di ‘autorità’ in materia, al quale fai particolarmente riferimento, a me, personalmente, basterebbe richiamare quella del Dante del De Vulgari Eloquentia e del Convivio, e le cose andrebbero di nuovo punto e a capo. Non mancheranno occasioni in futuro per confrontarsi, spero.

    Un’ultimissima notazione sul ‘problema’ che ha determinato il mio ‘sciagurato’ intervento in questa sede: sciagurato perché l’idea di trovarmi, come possibile, a controbattere alle ‘libere’ e a lvp, soprattutto dopo il suo ultimo intervento, è quanto di più lontano possa esistere dalle mie intenzioni e preoccupazioni; e sciagurato perché, per rispondere, rischio il posto di lavoro, visto il luogo da cui sto scrivendo.

    Ti assicuro che, pur non essendo un filologo, ho letto attentamente tutti gli interventi prima di postare il mio: ‘tutti’ significa anche la tua smentita al ‘falso’ luminamenti, arrivata quasi due giorni dopo e, soprattutto, dopo che eri ancora intervenuto, avvalorando, quindi, l’ipotesi che ho fatto. Quanto a quel ‘tutto il resto’, per me era pacifico si trattasse unicamente dei riferimenti a Celan, e non ad altro, infatti non sono mai entrato nello specifico dei tuoi commenti o delle tue discussioni con Centofanti a proposito del suo testo.

    Per quanto riguarda la ‘traduzione’ da te utilizzata, ti assicuro, credimi sulla parola, che la conosco benissimo e, per i problemi di cui sopra, non la condivido. Ma non è questo il punto. Prova a seguirmi un attimo, così chiudo senza strascichi o problemi di nessun genere, che comunque lascio a chi, a quanto pare, in rete o meno che sia, se ne nutre. Se per avvalorare la traduzione si cita una tesi di laurea, nella quale oltretutto i versi originali non vengono mai riportati ma si fa riferimento a un volume delle GW; se, nella stessa tesi, è detto che tutte le traduzioni, laddove non diversamente specificato, sono dell’autore; se, contemporaneamente, qualcuno propone l’unico inedito riconosciuto che quei tre versi contiene… etc., trai tu le conclusioni e vedi bene chi manca di rigore. Ma, per quanto mi riguarda, sono quisquilie: è facile, soprattutto in Italia, viste le condizioni pietose della cultura, universitaria e non solo quella, svegliarsi una mattina e trovarsi, in modo cosciente o inconsapevole, scaraventati tra le pagine borgesiane del racconto ‘Pierre Menard’ l’autore del Chisciotte’.

    Per il resto, goditi le vacanze in montagna, visto che ne hai la possibilità, e non perdere nemmeno tempo a dirmi il contenuto del terzo volume dei sette. Lo conosco già: l’ho appena riposto sullo scaffale deputato della biblioteca in cui lavoro; e lo conoscevo già prima.

    Ti saluto, sperando di incontrarti e discutere dei tanti (altri) temi che sollevi su pagine ad essi espressamente dedicate.

    Ad maiora.

    p.s.

    A Milano, all’Università Statale, presso il Dipartimento di Filosofia, c’è un docente che tiene un seminario su Celan e la traduzione. Se qualcuno passasse da quelle parti, consiglio di dare un’occhiata. Ne vale veramente la pena.

  95. Penso caro Cato che sei un interlocutore con cui mi piacerà conversare in futuro.
    In quanto al tuo invito a seguirmi su queste tue parole: “Se per avvalorare la traduzione si cita una tesi di laurea, nella quale oltretutto i versi originali non vengono mai riportati ma si fa riferimento a un volume delle GW; se, nella stessa tesi, è detto che tutte le traduzioni, laddove non diversamente specificato, sono dell’autore; se, contemporaneamente, qualcuno propone l’unico inedito riconosciuto che quei tre versi contiene… etc., trai tu le conclusioni e vedi bene chi manca di rigore”, la conclusione esatta da trarre è:

    1) non è a me che devi attribuire la tesi che è cosa che ignoravo e non m’interessa. E’ solo indicativa del fatto che quel tipo di traduzione esiste e non era una bufala la sua esistenza (dimenti sempre di rimanere al contesto in cui si trovava il discorso), circola da tempo e quindi non sono il solo che l’aveva tradotta così e conosciuta anche così come l’ho postata.
    2) che il riferimento alla fonte esiste e quindi anche questo non è una bufala (senza nulla togliere all’equivoco possibile che hai intelligentemente posto. Ma anche qui in contesto della mia risposta è ancora di nuovo un altro).
    3) infine il punto essenziale che mi sembra ignori e cioè che il contesto complessivo del discorso al suo sorgere in questa catena di commenti, che era ben altro, non necessitava di tanti sproloqui, ma semplicemente di una rettifica semplice semplice da parte di chi ritiene di stare dalla parte del rigore. Ma di questo rigore ho visto solo la spocchia accademica di chi ha poco a che fare con il che farsene intimamente di una cultura (il mio riferimento non è a te).
    4) In quanto alla presenza su NI di traduttori, commentatori e studiosi di valore preferisco non esprimermi in termini generici, né dilungarmi sui singoli, non m’interessa urtare la sensibilità di ciascuno, preferisco avere la mie specifiche valutazioni differenziate sui singoli che conosco meglio, alcune positive, altre negative e non metto in dubbio che alcuni di loro non seguirebbero gli autori da me citati, abituati come sono a difendere il loro piccolo territorio conquistato. Ma basta conoscere e leggere uno come George Steiner (o avere avuto esperienze d’incontro con Zolla o con un Peter Kinsley o con Hans Mayer) con umiltà per accorgersi della differenza del retroterra culturale e della pochezza delle teorie moderne. Forse certi studiosi di NI farebbero bene a rileggersi (o leggersi) il De Interpretazione di Aristotile e vedrebbero risolti molti loro dubbi che fanno passare per certezze di rigore.
    Il mio è un dissenso civile, credo educato perché comprendo le umane debolezze su cui normalmente non dico nulla fintantoché non vengo attaccato. Infatti non intervengo da tempo su NI non trovandovi sempre stimoli di confronto validi. La mia presenza sarà quindi sempre sporadica.
    Non c’è su NI lo spirito che circolò alcuni anni fa su Clarence che contribuì a confronti anche duri ma ricchi di circolazione di pensiero. Ma sappiamo bene che le cose non durano!

  96. La questione che è stata posta un giorno, che la struttura essenziale delle lingue indoeuropee è data dal contrasto tra il timbro dell’inflessibile e il timbro del flessibile non appartiene al corpo dottrinale delle scienze del linguaggio, all’interno delle quali diviene il discorso o scienza della traduzione, e tuttavia si riferisce alla lingua della preistoria dell’Occidente, in quanto essa appare all’interno dell’interpretazione costruita da tali scienze. A partire da ciò che quella lingua è e dal modo in cui essa si mostra all’interno di questa interpretazione, l’affermazione dell’esistenza dei due timbri contrastanti va oltre i risultati raggiunti dalle scienze del linguaggio, lungo un percorso che ad esse è consentito seguire fino a un certo limite, superando il quale esse dovrebbero uscire dall’orbita dell’Occidente e, quindi, innanzitutto, cessare di essere scienze del linguaggio.
    Qualunque posizione che voglia eludere questa questione è fuorviante.
    Dubito ci siano Germanisti e traduttori capaci di affrontarla.
    Ma sarei lieto di sbagliarmi.

  97. Che la vocazione non sia altro che un bell’alibi dietro cui nascondersi per amare tutti, per non amare nessuno?
    Me lo sono chiesto tante volte e me lo chiedo in questi giorni di abbuffata di buoni sentimenti , di tensione ideale verso gli altri, almeno i più prossimi,cristo, i tuoi parenti ,cazzo, i tuoi figli, perdio, i tuoi amici.
    Questa voglia di disegnare un mondo di armonia, dove l’amore trionfa, trionfa dentro di te e dentro il bisogno di affidarsi ,trionfa prepotente, come il bisogno di assoluto che ti esce a volte come un urlo ,come necessità ultima, quella che sai essere l’unica cosa , l’unica cosa che ti importa, l’unica cosa che dà un senso a questo non senso pauroso in cui affoghiamo , inconsapevoli, complici, e vittime.
    E fa nulla se tradirai prima che il gallo canti, fa nulla se ti tradiranno prima che il gallo canti, fà nulla riconoscersi umani, fà nulla riconoscersi finiti, e riconoscerlo negli altri.
    Fa nulla
    Anzi, non fà , nulla, fà molto di più, fà la consapevolezza.
    Vocazione, vocazione verso te , te stesso, che è, diventa, poi, vocazione verso il prossimo, il prossimo, quello che ti è vicino che noi mica siamo fatti per gli amori universali, che l’amore, universale è consentito solo metafisicamente, e la metafisica non la palpi, non l’abbracci, non l’accarezzi, non la trombi, la metafisica ci consola e sublima la nostra pavidità.
    Questa dovrebbe essere la vocazione che tutti dovremmo esprimere, la nostra di vocazione, la vocazine ad essere Uomini, vocazione a quella bella metafora che è il nazareno, che la vocazione non può essere prerogativa di pochi eletti, eletti istituzionalizzati, la vocazione non abbisogna di paramenti,la vocazione non va spasso con il divino ma prende sottobraccio l’umano in tutta la sua miseria.
    La consapevolezza della chiamata, della vocazione verso noi stessi, ce la dovrebbe insegnare la vita, perchè la vocazione si impara, passo passo, se sappiamo “guardare”, se impariamo a “sentire”.
    La vocazione non ti fulmina, la vocazione la definiamo piano piano se non abbiamo paura di guardare dentro e vedere di quanto male siamo fatti, di quanto male saremmo capaci, noi, povere creature, in balia delle nostre sublimi certezze.
    Due mani sporche di terra e gli occhi al cielo,questa è l’immagine della mia vocazione, due occhi al cielo , sì, ma solo per scrutare la mia infinita finitezza, che il cielo, lo vedo, solo se non lo guardo.
    Ci ho avuto la vocazione a 12 anni, davanti ad un altarino della madonna, volevo consacrarmi a qualcosa di assoluto.
    Ora sono senza dei ,ma con principi, inizi, conati, di vocazione umana.
    Un bacio a tutti
    la funambola

  98. sei una funambola col filo steso per terra. nessun pericolo per te, nessuna caduta.
    se davvero avessi avuto la vocazione ora saresti stata capace di vedere l’assoluto dentro la finitudine umana.negli occhi di chiede un amore assoluto, e magari avresti provato a donarlo tu quell’amore e non solo a chiederelo, a pretenderlo.
    ma che ci vuoi fare
    un amore metafisico non lo trombi, è questo che ti dispiace e allora : a farsi fottere la vocazione dei dodici anni. meglio fottersi a venti ,trenta, quaranta, finchè dura poi sarà notte. strana funambola senza alcun volo se non dal letto di qualcuno.

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