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L’inventore della verità

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Piero Sorrentino intervista Domenico Scarpa

Racconti, ritratti, poesie, polemiche recita il sottotitolo di Cinematografo (pagg. 506, euro 14, Sellerio), ultima tra le succose pubblicazioni soldatiane che la benemerita Sellerio sta sfornando da qualche anno a getto continuo. Curata da Domenico Scarpa, l’antologia di scritti cinematografici di Mario Soldati si presenta, per dirla con l’aletta firmata da Salvatore Silvano Nigro, come uno straordinario “romanzo involontario”. Un libro nelle cui maglie resta impigliata la voce, e la scrittura, di uno dei maggiori narratori del Novecento.

Ti sei inventato un libro che, fin dall’apertura di prefazione, dichiara quello che non è: non è “un volume documentario”, “non si propone di ricostruire una filmografia”. Che cos’è Cinematografo allora?
Cinematografo è un libro di letteratura che non è stato materialmente allestito dal suo autore. Un libro apocrifo, come dico alla fine di quello scritto introduttivo. Un libro nel quale Soldati ci lascia leggere la propria vita attraverso il cinema e il suo amore-odio per il cinema. È un libro di passioni, di intemperanze, di elogi, di risentimenti, di soliloqui, di polemiche, di memorie. Ma soprattutto è un libro di racconti, perché Soldati attacca a raccontare non appena mette la penna su un foglio.

Racconta quando scrive racconti (il libro ne raccoglie nove), e racconta quando scrive recensioni per i film di Pasolini o di James Bond, oppure filastrocche in versi dedicate a Alida Valli, o noterelle polemiche sul perché i registi più bravi sono inetti a esprimersi con la parola. Cinematografo è un libro dove il cinema è nello stesso tempo un luogo indispensabile per vivere e un puro pretesto per fare letteratura. È un libro che vuole mostrare, attraverso il cinema, il modo che Soldati aveva di vivere con le parole e per le parole.

Mi attacco subito a un sintagma che hai usato sopra, e che mi sembra decisivo per quello che stiamo dicendo: “Un libro nel quale Soldati lascia leggere la propria vita”. Lasciare leggere la propria vita è tutto quello, o molto di quello, che Soldati ha fatto nella sua opera, spesso proprio nel cinema, innestando nella scrittura filmica grossi pezzi di autobiografia (penso, tanto per dirne uno, all’episodio dell’arresto del suo amico Carlo Levi, trasposto pari pari in una scena di Piccolo mondo antico). Se le cose stanno così, è possibile, come affermi in un altro passo dell’introduzione, “separare Soldati dal cinema” ?
Infatti. “Lasciar leggere” non coincide esattamente con “scrivere”. Soldati aveva progettato di scrivere le proprie memorie (e di venderle all’asta ricavandone un compenso il più esorbitante possibile), ma poi non realizzò mai questo progetto. Comisso diceva, già negli anni Quaranta, che a Soldati sarebbe bastato appunto mettere su carta le sue memorie di regista per ottenere un capolavoro. E alcuni dei racconti inclusi in Cinematografo sono i testi che più si approssimano a quel progetto incompiuto. Però non sono capitoli di autobiografia: sono storie in chiave autobiografica, diverse per registro, per collocazione del punto di vista, per impostazione narrativa. Esiste sempre una distanza ben percettibile tra l’io che racconta e l’io che viene raccontato. Il che è garanzia di stile, di dignità di scrittura: anzi, del fatto stesso che Soldati è scrittore. Hai evocato la scena dell’arresto di Levi, raccontata per iscritto (sia da Soldati, sia dallo stesso Levi: ed è una straordinaria esperienza leggere quei due testi l’uno a fronte dell’altro) e poi intarsiata in un film, Piccolo mondo antico. Questo modo di procedere è una vera e propria chiave dello stile di Soldati, anzi, del suo modo di indagare il mondo. Era proprio Carlo Levi a dire che la poesia è “l’invenzione della verità”; e Soldati, quando porta un episodio della propria vita in un film la cui vicenda si svolge ottant’anni prima di quell’episodio, non fa altro che questo, inventare la verità, darle una sagoma narrativa, un frame formale, una icasticità d’immagine.
Ora, io capisco che l’espressione “separare Soldati dal cinema” sia un po’ forte. Ma come critico letterario, come saggista che costruisce libri altrui, sono stato guidato proprio da questa idea faziosa: confermare, far emergere la natura di Soldati scrittore proprio dal suo rapporto con il cinema. Volevo mettere insieme un libro che fosse di narrativa e insieme di metodo. Ho voluto far vedere, attraverso il cinema come funzione primaria della vita, e insieme come divertentissimo tema-pretesto, il modo in cui Soldati sta al mondo (come dire: “sta al gioco”). Nei suoi libri, nei suoi articoli dispersi, anche nelle sue interviste, ho cercato il cinema scritto, ho cercato un equipollente non cinematografico del cinema, una scrittura dinamica e trasmutabile, per immagini. Volevo che di Soldati si vedesse questo. Volevo, ecco, che si vedesse con l’orecchio.

Leggendo Cinematografo, soprattutto la sezione “Da spettatore”, l’impressione che se ne ricava è che Soldati fosse prima di tutto uno spettatore che al cinema chiedeva il divertimento, l’evasione, la risata, lo stupore incantato o la meraviglia visiva che ti fa esclamare “oooh” – penso per esempio ai pezzi su 007, Incontri ravvicinati del terzo tipo o a quelli su Buster Keaton. Soldati insomma sembra proprio incarnare alla perfezione quel ruolo di spettatore che Benjamin chiamava “esaminatore distratto”…
Io, più che all’esaminatore distratto di Benjamin, preferisco pensare a quella “attenzione fluttuante” che Freud – tanto per restare in territorio germanofono – raccomanda allo psicoterapeuta. Soldati non è mai distratto; semmai è svagato, cosa abbastanza diversa. Soldati cerca la divagazione. Cerca la fuga per la tangente. Ma la sua attenzione, per esempio agli aspetti tecnici del cinema, è continua, minuziosa, persino amabilmente pedante.
E infatti, gli studiosi di cinema che sto incontrando in queste settimane restano incantati soprattutto da quella sezione Da spettatore, che raccoglie recensioni cinematografiche, e questo proprio grazie al sapere specifico di Soldati.
Quanto alle sue preferenze di spettatore, lui per quelle recensioni che uscivano sull'”Europeo”, dove aveva sostituito il povero e geniale Giuseppe Marotta, morto abbastanza giovane, Soldati, dicevo, si era inventato le categorie Beldì e Belnò, ossia “Bello e divertente”, “Bello e noioso”. Ovvio che preferisse i primi, i Beldì, soprattutto se guardiamo ai film che aveva girato lui stesso, ai tanti filmetti commerciali che tante volte potevano essere Brudì, brutti e divertenti.
Ma certo a Soldati interessa l’avventura, la corsa, la maraviglia come fine del poeta, il rocambolesco, il colossale. Gli interessa il cinema come circo, come ciarlataneria, come industria raffazzonata e precaria contro la quale sfogare le sue nevrosi estrovertite di piemontese cascato a Roma. Gli interessa il cinema-Barnum, nel quale porta una vena di follia pianificatrice, dove la pianificazione è anche più cervellotica del disordine centro-meridionale.
Basta un aneddoto. Soldati si era divertito un mondo a girare le scene di massa, le scene di battaglia, per il Guerra e pace di King Vidor. E dicono che una volta, durante una carica di fanteria che lui in persona diresse con troppa foga, sfondò addirittura la linea delle macchine da presa… Questo mi sembra veramente un bell’apologo. Perché Cinematografo è anche un libro nel quale la parola ha un’irruenza che sfonda la linea, il contorno, il frame dell’immagine filmata.

Dopo aver lavorato a questo libro, ti convince ancora (semmai prima ne fossi persuaso) l’affermazione di Garboli, che pure a un certo punto citi, per cui “i veri film di Soldati sono i suoi romanzi” ?
Beh, quella è un’affermazione dalla quale mi sono lasciato guidare quando, alcuni anni fa, ho cominciato a pensare a questo libro. È una frase suggestiva, come tutti gli aforismi: apodittica, paradossale.
Karl Kraus diceva che in un aforisma non si trova mai la verità: si trova o mezza verità o una verità e mezzo. Mi sembra che valga anche per la frase di Garboli, e se vogliamo, il libro che ho fatto è anche un tentativo di aggiustare il tiro, di trovare il numero intero, l’unità semplice: una strada mediana per mostrare i rapporti di Soldati con il cinema e con tutto ciò che non è cinema.
No, provo a dirlo meglio: Cinematografo è un libro che nasce da una ignoranza. Quando ho cominciato a disegnarlo conoscevo pochissimi libri di Soldati, quasi tutti di tipo saggistico (diari, scritti di memoria; la raccolta delle sue recensioni cinematografiche è il primo libro di Soldati che ho letto). Perdipiù, non avevo visto nessuno dei suoi film. Ora mi sono rimesso quasi in pari coi libri, molto meno coi film. A cose fatte mi sembra che la frase di Garboli conservi tutta la sua forza di suggestione, e meno forza di verità. Mi sembra vero che Soldati pensa per immagini anche quando, nei suoi racconti e romanzi, si addentra per pagine e pagine, per capoversi che sembra non debbano finire mai, nella psiche dei suoi personaggi, in quei nodi e intrecci e bubboni interiori. Mi sembra che anche lì lui produca immagini: immagini astratte e coloratissime, come quelle di certi quadri di Fantasia di Walt Disney, un film che non so proprio se gli piacesse.

A un certo punto della sua vita, e della sua carriera, Soldati guarda alla televisione. Nel 1957 la televisione manda in onda le 12 puntate del Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini: ed è un trionfo. Soldati diventa famosissimo. Eppure non è un giornalista, non è un documentarista, conosce pochissimo il neonato mezzo televisivo, ma riesce, con una curiosità e una umiltà impressionanti, a raccontare pezzi di un’Italia sconosciuta ai più. Come spieghi questo passaggio così radicale e improvviso al mezzo televisivo? Pensi che in qualche modo Soldati avesse già intuito le straordinarie potenzialità del mezzo?
La mia impressione, se ripercorro tutta la vita di Soldati, è che lui avesse un intuito immediato per tutte le forme nuove di comunicazione. Ti faccio due esempi.
Il suo primo lavoro intellettuale maturo è, nel 1927, la compilazione del catalogo della Galleria d’Arte Moderna di Torino (Soldati si era laureato in storia dell’arte con uno dei grandi di allora, Adolfo Venturi). Beh, ho avuto la fortuna di leggerlo, ed è un catalogo perfettamente documentato, impeccabile dal punto di vista compilativo: ferratissimo, affidabile, solido. Ma è anche un libro narrativo, dove Soldati non parla affatto da compilatore, e smette ben presto di parlare da critico d’arte. Soldati, già lì, a ventun anni, senza essere investito di particolare autorità, parla da scrittore, da narratore. Con quella voce, con quel piglio, con quel taglio verbale e costruttivo.
Sono gli anni dei primi saggi letterari del suo concittadino Giacomo Debenedetti: la tecnica del “racconto critico” nasce allora.
Secondo esempio. Tra gli articoli di Cinematografo ce n’è uno intitolato L’ampex. È datato 1967. Soldati intuisce all’istante le possibilità del nuovo mezzo e se ne entusiasma – questo sapersi entusiasmare è tra le ragioni più vere del suo fascino come persona e come artista. E, aldilà dell’entusiasmo tecnico, intuisce la rivoluzione, come dire, conoscitiva che la registrazione su nastro magnetico può offrire. Si passa dal discontinuo al continuo, dall’immagine singola al flusso, e non a caso in quell’articolo lui consiglia l’uso della nuova tecnica ad Antonioni, che gli pare il più tagliato per fare un cinema di pura bellezza pittorica, un cinema “astratto”. Bene, sarà proprio Antonioni, con Il mistero di Oberwald, a fare per primo quell’esperimento, molti anni dopo.
La televisione, dicevi tu giustamente. Scegliendola subito come mezzo di comunicazione, Soldati ebbe non solo un grande intuito commerciale, ma anche un grande intuito antropologico. Pensa ai due programmi che realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta: un viaggio alla ricerca dei cibi genuini e poi, in collaborazione con Cesare Zavattini, una inchiesta sulle abitudini di lettura nel nostro paese (lungo la fascia tirrenica). Cioè, Soldati usa il più nuovo dei mezzi di comunicazione per verificare il passato. Per indagare le radici, le radici vere, materiali e immateriali, su cui si può fondare una convivenza civile.
Un’Italia non ancora unita per davvero, dove i cibi sono diversi, sconosciuti da regione a regione, dove le abitudini in cucina segnano differenze profonde. Soldati ci mette davanti a uno specchio, ed è sempre lì lui in persona a descrivere, a commentare, a spronare, a gesticolare e urlacchiare, ad alzare la voce per aiutare la realtà a farsi vedere.
Il nutrimento della pancia e il nutrimento della testa, pensa che idea.
Beh, finisco ricordando un’altra idea di Soldati, l’idea per una trasmissione TV che non gli fecero fare perché, già allora, i dirigenti RAI la considerarono troppo intellettuale. Soldati aveva pensato di fare un viaggio nei luoghi che Dante descrive nella Divina Commedia. Andare a verificare, a provocare, a illustrare Dante, verso per verso, nei luoghi da lui calcati. La scintilla del confronto fra ieri e oggi. Un “come eravamo” misurato sul metro dei secoli e non dei decenni, come al massimo arriviamo a fare ora recuperando gli spezzoni dei vecchi varietà con Mina e Alberto Lupo.
Ecco, credo che Soldati arrivasse ad avere idee come queste perché la sua formazione culturale era tra le più solide e raffinate, mentre il suo istinto per l’avventura, per l’esperimento, per la novità, per il “vediamo come funziona, vediamo che cosa succede”, era tra i più animaleschi, tra i più gioiosi che possano capitare in sorte a un individuo.

Nella prefazione a Vino al vino scrivi che in Soldati il desiderio “nasce sotto forma di capriccio”, si materializza da “una parola che via via prende forma e consistenza di oggetto”. Recensendo America primo amore, Mario Praz scrisse che “il fascino peccaminoso dell’America esercitava sull’animo di Soldati un misto di repulsione e attrazione”. Come si conciliano secondo te questi due aspetti, quello del desiderio e quello della repulsione, che in Soldati vanno quasi sempre a braccetto? C’entra sempre e solo la rigorosa educazione gesuitica?
Non credo che repulsione e attrazione si concilino. Lottano continuamente tra loro, e tra i piaceri di chi legge Soldati c’è anche il farsi spettatore di questa lotta. Ogni scrittore è un luogo di contraddizioni, una sede psicologica e formale di conflitti.
L’educazione dai Gesuiti è importante, certo, ma non può bastare come spiegazione. C’è una vena di follia che corre in tutti gli scritti del primo Soldati, soprattutto in America primo amore, in Un viaggio a Lourdes e in La verità sul caso Motta, testi coesi intorno alla metà degli anni Trenta: testi sperimentali dove Soldati le tenta tutte, si butta con generosità oculata e scriteriata, e sempre con un successo acrobatico, in forme nuove e strane di narrazione, di reportage, di divagazione saggistica, di romanzo autobiografico di viaggio e formazione, di storia fantastica con brusca virata nel surreale. C’è un bell’aneddoto. Dice che quando su “Omnibus”, il rotocalco inventato da Leo Longanesi, apparve la puntata del Caso Motta in cui si scopre che l’avvocato Motta, misteriosamente scomparso dalla circolazione, si trova nelle profondità sottomarine e si è unito con una sirena, Antonio Delfini e Tommaso Landolfi si entusiasmarono e andarono apposta da lui per fargli i complimenti.
Che cosa voglio dire con tutto questo? Che Soldati, fin dall’esordio, è uno scrittore fortemente radicato nel presente; un uomo, un artista, che vive il presente adoperando tutti i mezzi d’espressione disponibili, e addirittura inventandosene di nuovi quando ci riesce: per esempio, come ho già detto, in quel catalogo d’arte usato come pretesto per raccontare. Soldati è una persona che sta nel presente con una energia intensa di desiderio e di percezione. Eppure, se noi provassimo a scattargli una fotografia, l’immagine che ne verrebbe fuori risulterebbe mossa: perché Soldati è sempre in fuga da quel presente che pure vive con tanta passione. In fuga verso il passato e verso il futuro, di volta in volta e simultaneamente: ecco la contraddizione, una contraddizione che non si sana. Del futuro ho detto: la sua curiosità per tutti i nuovi mezzi d’espressione, la tivù, l’ampex, la pubblicità dei Caroselli, il racconto di fantascienza… Mentre il passato è un luogo amato e odiato dove sarebbe bello aver vissuto, dove si è anzi abitato per un breve periodo, e dove sarebbe bello tornare ad abitare ancora una volta, magari, ma sempre e ancora con l’impulso di fuggirsene di là. Come si spiegano altrimenti certi paesaggi e certi interni di Piccolo mondo antico e di Malombra, quelle stanze vetuste, quelle imposte che scricchiolano, quella carta da parati su cui si avverte lo strato del tempo, quel senso di blanda putrefazione dei laghi sui quali ci si affaccia dalle balaustre delle ville, quella pietra da costruzione nobile e rosicata, quell’odore di foglie che stanno marcendo, il fatto stesso che il bianco e nero riesca a imporre nelle sue sfumature il senso tattile della corruzione in corso, il processo del decadimento di un paesaggio venerato e che si desidera distruggere? Quel paesaggio è il paesaggio dei padri: del padre e della madre.

Un cortocircuito tra alcune pagine di Cinematografo e certi capitoli di Vino al vino porta dritti dritti a Napoli: com’è che il torinese Soldati, naturalizzato romano, guardava così spesso alla Campania? addirittura sostieni che, spinto dall’entusiasmo, c’è la possibilità che in certi soggiorni partenopei si sia messo a parlare in napoletano…
Non so se Soldati possa essere definito, come il suo amico Carlo Levi, “un torinese del Sud”. Ci sono in lui aspetti culturali e religiosi di tipo “protestante” che sono troppo evidenti e radicati, e che ce lo impediscono. Il fatto certo, però, è che Napoli è sempre stata un polo di attrazione magnetica per Soldati: tutta Napoli, in lungo e in largo e dall’alto in basso.
C’è quel bellissimo sogno in cui Soldati immagina di saltare fino al livello delle finestre degli ultimi piani e di dialogare con Benedetto Croce, uomo da lui veneratissimo. E’ una scena che ha il valore di un apologo: l’autodidatta Soldati, l’eterno ragazzo Soldati, può giungere al livello del senatore Croce solo salendo di molti metri in alto: ma ci riesce grazie alla forza di una fantasia adolescente, che pretende e ottiene l’impossibile con la massima naturalezza, con una prepotenza dolcissima. Su Croce, Soldati avrebbe voluto fare un film: un film da intitolare Gli ultimi anni di Benedetto Croce.
Ma Soldati non fa altro che fuggire verso Napoli, in molti suoi libri. A parte il caso clamoroso delle Lettere da Capri, basti dire che Fuga in Italia è appunto una fuga verso Napoli in tempo di guerra, dopo l’otto settembre del ’43, e che più tardi Soldati, in tempo di pace e in periodi successivi e diversi della sua vita, ha riscritto più volte quel libro come se non gli bastasse mai, e ha riproposto quella stessa corsa di desiderio verso una città femminile, opulenta e anche tiranna. La busta arancione (1966) e Lo smeraldo (1974) sono altre due fughe in Italia, e l’Italia è in entrambi i casi l’approdo a Napoli, a Napoli e non in un’altra città.
Soldati che in una botta di entusiasmo parla il dialetto napoletano, questo mi ero spinto a dire: e non credo che sia una esagerazione. Nel bel saggio che apre il “Meridiano” Mondadori dei Romanzi di Soldati appena uscito, Bruno Falcetto recupera un’autodefinizione di Soldati che proviene, guardacaso, proprio dallo Smeraldo, romanzo il cui protagonista è Soldati stesso nei panni del pittore Andrea Tellarini. Il quale Tellarini definisce se stesso come “un mimetico libero”. E’ questo lo stile con cui Soldati si avvicina a Napoli, la guarda, la parla, entra in simbiosi con lei.
E’ una forza mimetica di libertà che gli permette di parlare di vini napoletani con don Vicienzo Triunfo alla Riviera di Chaia; di parlarci forse, probabilmente, in napoletano.

(pubblicato, in forma ridotta, su stilos)

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