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Due ballate eretiche

di Francesco Marotta 

DOPO LO TSUNAMI (CANTO PER LA NOTTE DI CAPODANNO)

rovine aperte al nulla del risveglio
aborti di rose nel grembo umido dell’alba
che rampica latrine e
accende lumi su terre di naufragio –
un faro
dove solitario frange
il canto veggente dell’onda
l’eco che dilegua
del suo piumato alfabeto di semi
la schiuma che resta
un attimo e non dura…

solo ieri il diluvio
era una corsa di mani accalcate
a liberare lacrime dal ciglio
e i poeti
spargevano coriandoli di versi e di cordoglio
dai loro scranni di scribi senza voce
(il padrone
solenne
pagava profumate antologie da tramandare ai posteri
che hanno già smarrito l’arte di leggere
pensare
coniugare un fiore)

il diluvio – ricordi?

ora è un’acqua che consola
scivola tra le cosce e i seni
di vite patinate per la cena del perdono –
grasso e merda
fusi in un’unica colata di passione
miscela di accelerazioni senza nessun tormento

guardali –
ora hanno un altro cielo che li può sentire
un orizzonte nuovo
disteso ad arco sull’ultima disfatta
e un paradiso dove si può svernare
dimenticando i passi che pestano la fame
lontano dagli occhi che si aggrappano
come edere al balcone
gli occhi che parlano dal braccio della morte
dai tumuli di un mare costruito ad arte
tra un monte di lava e le sabbie di catrame

anche oggi
Mahmud
inciampava in uno sputo –
il primo rantolo del sole
al levare del giorno
una sferzata d’odio dalla gola del mattino
per celebrare l’avvento
per annunciare al mondo altre stirpi
di uomini e di ali
schiere fedeli di pellegrini traboccanti d’estasi
le carte di credito strette alla cintura
e voglie infami in voli transatlantici
tra l’oriente e il samba –

(dio intanto urinava beato nelle ampolle
al coro plaudente degli eletti
al canto degli schiavi liberati)

… ho raccolto lo sguardo intravisto
solo immaginato
del bambino che camminava al suo fianco a testa bassa –
l’ho conservato come una reliquia
per il compleanno di mio figlio
una candela accesa al cambio d’equinozio
a illuminare la tavola imbandita dei suoi giorni

insegnami con quante lettere si scrive la parola memoria
conto i millenni a manciate
le epoche riaffiorate dalla polvere dei libri e mai
la terra è stanca
di restituire alla pietà dei solchi semine di vite
sacrificate per il pasto dell’abisso

raccontami di tuo padre delle cifre stampate a caratteri di fuoco
sul suo braccio – delle miniere di carbone e fame
della paura che m’assale prima di dormire
delle favole che non acquietano il grido delle fonti…

…ti parlerò del tuo nome Gabriele dei sogni
che custodiscono l’impronta del seme e
la risposta

è fiore pietra carne respiro sangue
voce
che non tace

gridalo contro il vento
che frana la radice dei ricordi
contro le mani insozzate di crimini e pietà
la pietà
che cancella la giustizia e
oscura anche gli astri dei cieli che verranno –
grida il tuo passato d’esule
quando il tuo nome era Mikhal o Ismail
Jeoshua o Salomon

grida Gibril

stanotte sei tutti i nomi che la storia ha cancellato –

grida
stringili nel pugno sillaba per sillaba
strappali alle sabbie raggelate della lontananza
falli riemergere dai fondali sbarrati della morte –

questo è il tuo destino il tuo domani
la sorgente l’oasi
il cammino –

imporre ai deserti di fiorire

 

LA FAVOLA DEL MANDORLO IN FIORE 

rimanere – come un ultimo ricordo
che ridipinge vite su fogli murati
o calce che sbianca
pietre e
innaturali lame sospese sull’acqua
nerosangue –
risalire dal baratro al chiarore
seminati di nomi e di licheni
le dita che si nutrono di abbandono
al chiuso delle strade
la pupilla ammutolita
che scorta lo scafo dei dannati
alle dimore sbarrate di ponente

dalle torri di guardia
sparano gomitoli di lettere e immagini di bambini
lievitati come il pane
malati di purezza e di opulenza
prima ancora di nascere
i corpi lucenti che perdono lune dall’iride
i sogni plasmati nella lingua
senza memoria
di schermi modulari –

altrove
anche il mare s’impasta di vele e
tra mani e sudori rappresi
resuscita all’onda una testa un grumo di alghe
una foto bruciata di sale
unghie capelli
frammenti di pelle che sembrano pece
piume annerite catrame
istantanee sbiadite
per il notiziario serale

… la cucina ribolle di suoni e ovatta il cervello
gli occhi sono timer azzerati
che seguono le immagini senza guardare
ormai lontana
fuori quadro
la scia dell’azzurro
striata da florescenze di sangue –

la cena è servita
dai piatti fumanti sale un profumo
che invita a raccogliersi come in preghiera
a stringere forte
quell’amore di moglie di mamma quel mostro
che colleziona tinture e ricette
da provare mese per mese

che ha partorito tre volte senza dolore
carezzata da vestaglie di lino
imbottita di etere e pasticche
tra musiche soffuse
senza forcipi che frugano
slargano abbrancano
deturpano per sempre epidermide e vagina –

e allora finalmente sai capisci
perché più alta più
profonda risplende
agli occhi di dio
questa civiltà di vetrine e di insegne
che mascherano il vuoto
di cliniche stupri domestici feti allevati nei bidoni
cesarei pagati con la rinuncia
a quanto di umano resiste
nello spazio di un grido
che tracima rivoli di vita –
più alta più luminosa perenne
nel firmamento dei secoli
dei secoli…

… proprio lì all’altezza del cuore
dove battono cifre imbevute nell’oro
e l’ora benedetta
fermenta il programma serale
che scioglie il cerone dal viso
il giorno
inudibile nel suo smarrimento
deposita oceani e naufraghi relitti cromati –
l’usignolo intanto
delira di croci
nel salotto familiare della solita recita
il suo canto spalanca le porte
a un battesimo in diretta
in prima visione
lava a risme compatte
a gettoni di solidarietà
ogni peccato

(l’imbonitore che ha occupato le piazze
ride e ride suadente ai pensieri che vaporano
in fatui lampi azzurrini
da ipermercato
ride
a quelle anime ridotte a gusci vuoti
davanti al mistero di scatole numerate colme di tesori
ride strizza l’occhio
alla frana dei cieli come un complice scaltro)

stanotte Esterina
nell’ora leggera che ricama la pelle di echi
come un lavacro di fiori lustrali
e gli acidi
sparsi nell’aria
cancella dai tetti malati dai ricordi
dai suoi novant’anni di voci taciute e saggezza
dalla castità deflorata
di chi ha covato furtiva solo schegge acuminate
di esistenza

(l’hai mai vista aggirarsi
nei quartieri in degrado
cosparsi di aghi di neve
tra le case i tuguri
i dirupi di vite
lei che porta al pascolo figli mai nati
a osservare distese di campi seminati di spine?)

stanotte Esterina
la scema la santa la vecchia puttana del borgo
vissuta nell’ombra di campanili di fumo
ricorda
il primo mandorlo scoperto per caso
dalle grate murate di un giardino invernale
esploso di bianco
nel buio di un’infanzia negata
per soffiare luce all’aurora –

rivede la madre
chinarsi dai rami per cercarle la mano
stringerla forte per l’ultimo volo
chiusa a riccio in un chiostro di pace
svelarle il mistero
di una pupilla che rinasce al chiarore

– stanotte
è per sempre

raccoglie in un vaso le stagioni perdute
le labbra
gravate dal peso
di universi di versi mai scritti

e felice s’immerge
nell’unica lacrima
che scende dal ciglio ai suoi piedi

come rugiada caduta da un petalo
trascorre alla terra in natura di linfa
di fonte

nel sonno
approda al silenzio albeggiante

dei morti mai morti

(Da “Ballate eretiche”. Dedicato alle vittime dello tsunami, a due anni dalla sciagura.)

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8 Commenti

  1. Ogni volta che trovo su NI dei versi di Francesco Marotta non posso fare a meno di rallentare il ritmo consueto, sempre troppo frettoloso, della lettura on line.

    (Sullo sfondo, Pause dei Four Tet sommuove gli aneliti)

    Con quale risultato? Leggi, possibilmente ad alta voce, queste ballate e ti rimane dentro, con tutte le immagini, i suoni e la chiave dell’armonia che li organizza, la suggestione di aver onorato una piccola parte del tuo debito con i morti, ai quali sempre devi gli orizzonti di senso entro cui vivi.

    Grazie a Franz e buona giornata.

  2. trovo un incedere diverso
    in queste frasi come di getto
    e di imbrunire e corpo
    di resistenza

    così quando ti guida una speranza
    “stanotte sei tutti i nomi che la storia ha cancellato”
    raffiora da quei gorghi un vero respiro

    grazie
    effeffe

  3. Giusto proporre queste ballate eretiche in giorni in cui
    “la cucina ribolle di suoni e ovatta il cervello
    gli occhi sono timer azzerati”.
    Grazie a Francesco e a Franz

  4. Amo la poesia che dice, riflette e non si nasconde…
    Immagini e colori di diverse gradazioni, tonalità di un’unica grande melodia che ti avvolge nella consumata tragedia umana. Bellissime. da leggere e rileggere.

  5. (il padrone
    solenne
    pagava profumate antologie da tramandare ai posteri
    che hanno già smarrito l’arte di leggere
    pensare
    coniugare un fiore)

    ci sono tsunami altrettanto letali. anche se meno visibili.
    grazie, Francesco, per la tua voce incontaminata.
    fabrizio

  6. Grazie a voi, e a tutti coloro che hanno avuto la bontà di leggere.

    “la suggestione di aver onorato una piccola parte del tuo debito con i morti, ai quali sempre devi gli orizzonti di senso entro cui vivi”

    Stefano, questa me la lego al cuore: se un senso c’è nell’utopia di “Hairesis”, è tutto in queste tue parole. Ti sono grato.

    Francesco

  7. Penso anch’io che Stefano Zangrando (che saluto con grande stima ) abbia centrato il bersaglio con una frase. Potere della grande sintesi.
    Io penso che Francesco Marotta sia un poeta importante. E sono fiero di poterlo pubblicare qui.

  8. Non so che dire. Grazie a voi. Anch’io credo che F.M. sia un poeta importante. Di qui l’attenzione di cui sopra.

    Con egual stima e affetto, vostro

    S. Colpodicùlo

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