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Tre avvicinamenti alla vertigine

di Christian Raimo

1.

C’era una volta in America di Sergio Leone è stato per me “un film primario”. Una delle poche volte che con mio padre ci dicemmo qualcosa che andò aldilà delle nomali pratiche educative. Come esistono le scene primarie, mi ricordo i sentimenti che provai la prima volta che vidi C’era una volta in America in televisione, nel salotto di casa, insieme a lui mio padre, mia sorella e mia madre. Era un film che possedeva già un valore, interno nell’economia domestica. I miei, che in genere uscivano poco, andavano al cinema o a cena fuori rarissimamente, un giorno di qualche anno prima ci avevano lasciato a casa con una baby-sitter perché erano stati invitati all’anteprima a Cinceittà, con Sergio Leone, e Robert De Niro venuto apposta dagli States. (Mio padre ha lavorato per trentott’anni nel cinema, ma è stato completamente alieno da qualsiasi forma di mondanità).
Se vi ricordate, in una delle ultime scene, Noodles (De Niro), “dopo essere andato a letto presto per trentacinque anni”, torna a trovare nello studio il suo amico fraterno di gioventù, Max (James Woods), che pensava morto da anni. Oggi Max ha assunto un’altra identità, è diventato Mr. Bailey, e per far questo ha cancellato il passato rubando i soldi e l’amore proprio di Noodles.
Ora però Max è alla fine della vita, è braccato dai nemici, si sente un uomo morto e chiede a Noodles di ammazzarlo, soltanto da lui potrebbe accettarlo. Ma Noodles declina l’offerta: “Vede”, gli dice, “Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. E lo tradii per salvargli la vita… ma fu ucciso. Era una grande amicizia. È andata male a lui, è andata male anche a me. Buonanotte, Mr. Bailey”. Noodles esce dallo studio e va in strada. Mentre sullo sfondo, subito dopo, vediamo apparire prima un camion dei rifiuti, e poi l’ombra di quello che pare essere Max. Il camion dei rifiuti passa, e l’ombra è sparita. Noodles guarda il retro del camion. Max probabilmente si è buttato lì dentro.
Quando finimmo di vedere il film, probabilmente il giorno dopo o qualche giorno dopo ancora, chiesi a mio padre: “Papà, ma alla fine di C’era una volta in America non si salva nessuno?”. “Il regista”, mi disse lui.

2.

Tre anni fa collaboravo a una rivista che si chiamava Accattone – Cronache romane. Ero insistente, finanche molesto, alle riunioni di redazione, dicevo sempre che bisognava scrivere questi pezzi che erano pezzi narrativi dopo essersi documentati sul campo, uscire in strada invece di stare soltanto davanti al proprio computer; mi persuadevo io stesso in modo astrattamente fanatico della “retorica delle cose”, ero convinto che si dovesse scrivere di Roma disperdendosi, andare a naufragare dentro Roma stessa, cogliere le storie dove non si presentavano, lasciarsi contagiare più che coinvolgere. Col mio amico Francesco Longo leggevamo Underworld: riflettevamo sulla portata metafisica dei rifiuti, sul loro potere di attrazione, sul potere di richiamo del rimosso. “Una cosa che sfugge alla definizione è automaticamente relegata alla condizione di merda. Non si può darle un nome. È troppo grande o malefica o estranea alla nostra esperienza. È merda anche perché è spazzatura”.
Una sera, a mezzanotte passata, proposi a Francesco, di andare a visitare Malagrotta. Vivevamo a Roma da trent’anni e non avevamo mai visto dove andava a finire tutto lo scarto di questa città. Seguimmo un camion dell’Ama, fino al cartello che diceva “Benvenuti a Malagrotta”. Entrammo dal cancello senza problemi – il guardiano era fuori dal gabbiotto all’ingresso –, e cominciammo a vagare per le stradicciole scavate tra i terrapieni immensi che coprivano i rifiuti. Andammo avanti voltando a destra e a sinistra senza neanche senso. Avevo chiuso i finestrini e i bocchettoni della macchina, ma a un certo punto un miasma aggressivo era entrato dentro l’abitacolo fino praticamente a stonarci. Io mi sentivo male da svenire. Dissi a Francesco se poteva guidare lui, avevo le vertigini. Pensai anche: “E se adesso muoio qui? E se sto respirando delle sostanze tali che mi sto intossicando in modo letale?”. Perché eravamo lì? “La discarica”, dice Brian Glassic in Underworld, “è dove sfociavano tutti gli appettiti e le brame, i grevi ripensamenti, le cose che si desideravano ardentemente e poi non si volevano più”.
Volevo tornare indietro, ma avevo perso l’orientamento. Fin quando, attraverso un percorso tutto circolare, riuscimmo a ritrovarci all’entrata. Dove, sembrava, potevamo respirare. Scendemmo dalla macchina e andammo vicino al parcheggio dove si appostavano i camion appena arrivati. Era un’area slargata che s’interrompeva su un burrone. Così ci affacciammo su questo sprofondo nella terra che era la cava dove i camion si svuotavano della spazzatura raccolta. Un abisso gigantesco, un’apparizione del male, la Geenna appunto. Provammo a fare una foto con la macchinetta digitale, ma era talmente fondo e buio che non venne fuori nulla.
E tornando verso casa, all’alba, coi polmoni ancora oppressi, riprendemmo a guardare Roma, le strade, gli uomini. Come se solo adesso avessimo scorto il peccato originale che si portava addosso il mondo.

3.

Un anno fa andai al Cairo con Francesco Longo. Visitammo le Piramidi, la Cittadella, il quartiere copto, il mercato, e poi decidemmo di andare a Moqqattam, un quartiere che sta sopra la baraccopoli della Città dei Morti, e che è abitato dagli zabbaleen, “i raccoglitori di immondizia”. Ci facemmo accompagnare da un tassista che non c’era mai stato e non ci fece scendere dalla macchina. Tutte le strade, tutti i palazzi, l’interno dei palazzi di Moqqattam erano pieni d’immondizia. Sessantamila persone vivono qui, si alzano la mattina e raccolgono un’enorme parte dei rifiuti di una città di dieci milioni di persone. Ci campano, con la monnezza. La caricano su asini, su carretti, su camioncini scassati e la portano all’interno del quartiere, poi la ammucchiano dentro gli edifici sventrati, nei cortili, nelle strade. Le donne, i vecchi, i bambini si mettono a dividere i vari materiali e li smistano dentro enormi sacchi di iuta da rivendere ai grossisti. Il giorno dopo era domenica, Francesco era partito, e tornai a Moqqattam da solo, con padre Luciano, un comboniano che segue i bambini, i ragazzi, cerca di fargli scuola, doposcuola. E la domenica va a celebrare messa nella missione delle Suore di Madre Teresa di Calcutta. Restai a messa con lui. In questa casa delle Missionarie della Carità, l’unico posto pulito all’interno di un intero quartiere, vengono accolti soprattutto i malati di mente e i bambini orfani o handicappati che sono abbandonati dai genitori. Non capii una parola della messa in arabo, seguii a fatica il padre nostro. E dopo la messa padre Luciano mi disse se volevo andare a vedere il resto della casa. Allora una bambina di una decina d’anni mi portò sul retro. Mi fece entrare in questa stanza dove per terra, sulla moquette, giocavano o cercavano di giocare tra di loro una decina di bambini con malformazioni gravi e lo sguardo un po’ sperso. La bambina di dieci anni li accarezzava, gli diceva qualcosa. Mi resi conto per un attimo che sulla Terra non c’era altro posto dove stare. E rimasi lì dieci minuti finché padre Luciano mi chiamò, e mi disse che doveva andare.

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6 Commenti

  1. non è facile lo sguardo (e poi il segno) verso il collasso delle merci e del margine, sull’incarto totalmente sempre scartato che sono le persone senza difesa, finite nel tritaossa. secondo me Christian (qui soprattutto nel terzo testo, senza dichiarazioni, nemmeno iniziato e già interrotto) riesce ad avere questa tonalità di osservazione.

  2. Ma solo io sento la necessità di pensare che queste cose che ha scritto Raimo gli siano veramente (e “banalmente”, non “letterariamente”) successe per farmi piacere ciò che ha scritto? Mi piace quello che scrive Raimo e mi piace anche questa cosa così semplice ma questa sensazione che provo non è un cattivo segno? (non so bene se per me o per lui).
    Finirà per essere il mio supereroe (a cui nulla succede e che nulla fa). Chissà se si trovano i poster o i pupazzetti in giro :-)

  3. Senza contare la scena del “bordello”, che poi venne tagliata quasi completamente: così venti spendide “ragazze completamente nude”, ma non sul set, per i corridoi, per le scale, lungo i corridoi del teatro undici (a cinecittà). (sopra c’erano gli uffici di Fellini, momentaneamente fatto traslocare, dal cinque, si preparava E’ la nave va.) Giravano vestite solo con scarpe e piume in testa. Saranno questi (mi chiedo) i ” pezzi narrativi” dopo essersi documentati sul campo?”

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