Nous est un autre

nous-est-un-autre.jpgdi Sergio Garufi

Alla conferenza stampa che precedette l’inaugurazione della mostra su Christo e Jeanne-Claude, allestita pochi mesi fa al Museo d’Arte Moderna di Lugano, la maggior parte delle domande rivolte dai giornalisti alla celebre coppia di artisti concernevano la suddivisione dei ruoli. Sebbene siano ormai trascorsi più di dieci anni dalla dichiarazione pubblica in cui entrambi rivelavano l’assoluta condivisione di tutte le scelte creative dei loro progetti, dal concepimento fino alla realizzazione, ancora persiste il pregiudizio di voler assegnare alla moglie dell’artista bulgaro il sessista e riduttivo compito di musa ispiratrice, tutt’al più dandole atto di possedere una certa abilità nello sfruttare appieno le potenzialità dei mezzi di comunicazione e nel suscitare consenso e reperire finanziamenti per le idee del marito. Il riconoscimento della paternità congiunta di quei lavori, che risaliva già agli 60, fu molto tardivo perché – come ebbe a dire Jeanne-Claude – “sarebbe stato difficile cercare di spiegare che si trattava di opere d’arte fatte da due artisti”, oltretutto legati pure sentimentalmente. More...

Al di là della goffa misoginia che quelle interrogazioni denunciavano, è pur vero che per molta critica l’atto creativo resta di per sé un momento di solitudine, che sembra escludere a priori qualsiasi tipo di relazione. Nous est un autre, il pregevole e originale saggio di Michel Lafon e Benoît Peeters pubblicato di recente in Francia da Flammarion (pp.348, euro 22), ribadisce sin dall’incipit che da questa prevenzione non sono esclusi i libri, perché “uno strano tabù ricorre nella storia della letteratura: la scrittura in collaborazione. Nonostante le scuole e i gruppi, le influenze e le correnti abbiano interessato a lungo accademici, critici e biografi, perdura l’idea che un’opera degna di considerazione debba emanare da una sola persona. L’autore unico continua ad essere parte di questo dogma, e le coppie letterarie vengono sistematicamente ignorate o disdegnate”.

Non si tratta tanto di un libro teorico, dato che non potrebbe esistere una sola teoria delle coppie letterarie, ma di una galleria di storie, una per ognuno dei diciassette capitoli di cui è composto il saggio. Si va dai fratelli Goncourt a Deleuze e Guattari, passando per Flaubert-Maxime Du Camp, Willy-Colette, Erckmann-Chatrian, Marx-Engels, Boileau-Narcejac e Borges-Bioy Casares, fino a sconfinare nel cinema e in altre espressioni artistiche, nelle quali spesso la collaborazione è la norma, o perlomeno un’eccezione diffusa che non suscita alcun tipo di preconcetto perché l’opera stessa è necessariamente il frutto di competenze diverse. Si pensi, per rimanere in ambito cinematografico, alla coppia Powell e Pressburger, ai fratelli Coen, ai Taviani o ai Wachowski di Matrix.

Ma al di là dei differenti codici linguistici, che legittimano nel cinema la presenza di una pluralità di figure professionali mentre la escludono in letteratura, forse il pregiudizio sulla scrittura in collaborazione nasce soprattutto dall’approccio biografico del lettore e del critico, che cercano di rinvenire nel testo i riflessi di una psicologia e di un vissuto personali attraverso i quali ricostruire la precisa fisionomia dell’identità dell’autore. In questo caso, si potrebbe allora affermare che gli scrittori si mettono in società anche per arricchire e complicare la propria biografia intellettuale con nuovi personaggi e nuove storie. E’, in sostanza, la rivelazione di una nuova identità che si ottiene grazie all’occultamento o al camuffamento dell’identità precedente, un po’ come succede negli edifici e nei monumenti impacchettati da Christo e Jeanne-Claude. I sodalizi artistici inoltre depistano il critico-lettore, confondendogli le coordinate canoniche di interpretazione e, allo stesso tempo, invitandolo a concentrarsi sulla pura grammatica della creazione. Un processo, fra l’altro, che viene previamente sottoposto alla verifica del lettore, giacché ciascuno dei due autori è lettore dell’altro.

E’ il caso, per esempio, dei racconti polizieschi di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, scritti intorno agli anni 40 e firmati a volte con lo pseudonimo di H. Bustos Domecq (Sei problemi per don Isidro Parodi, Due fantasie memorabili), e altre volte con quello di B. Suárez  Lynch (Un modello per la morte). Solo pochi avvertiti lettori come il messicano Alfonso Reyes individuarono, dietro la fittissima e sovraccarica ragnatela di giochi verbali, digressioni e trame inverosimili, l’autentico valore di testimonianza sociale e di critica del linguaggio di quei testi. Più che personaggi letterari, difatti, quelli di Borges e Bioy Casares erano vere e proprie figure linguistiche che svelavano il tentativo di creare una narrazione solo per mezzo della parodia della forma. Un universo puramente linguistico e fabulatorio insomma, il cui motore immobile ma ubiquo è l’ironia, onde l’intero meccanismo narrativo non avesse a patire l’oltraggio di un’esegesi tignosa e ultimativa. Ma quando i lettori scoprirono che quegli autori non esistevano, pensarono che tutti i racconti fossero soltanto delle burle, degli scherzi ingegnosi che non meritavano particolare attenzione.

In realtà, con Bustos Domecq e Suárez Lynch era nato un nuovo autore, una terza figura indipendente che non si limitava ad un solo pseudonimo e che non era la semplice somma di Borges e Bioy Casares. Di più, come ha evidenziato Umberto Eco nel saggio L’abduzione in Uqbar (incluso in Sugli specchi e altri saggi), questi scritti innovavano profondamente anche rispetto al genere, perché nei confronti delle regole codificate dai teorici del romanzo poliziesco come S.S. Van Dine la loro struttura congetturale risultava totalmente “eretica”. Il fallimento di questo progetto letterario, che per certi versi dava forma all’utopia artistica di un panteismo estetico che potesse prescindere da un’unica figura autoriale storicamente accertabile e identificata, è l’ennesima riprova dell’inveterato tabù denunciato da Michel Lafon e Benoît Peeters in Nous est un autre. Da noi, la lunga e fruttuosa collaborazione di Fruttero e Lucentini incontrò forse miglior sorte, tuttavia si dubita fortemente che i loro testi troveranno in futuro asilo nel canone delle antologie scolastiche. Restano da chiarire i motivi per cui quasi tutte le scritture in collaborazione s’inquadrino sovente negli schemi rigidi del genere, forse per imbrigliare all’interno di strutture fisse una fantasia altrimenti incontrollata; anche se questo in parte spiegherebbe l’ostinata ritrosia di molta critica a considerarle “vera letteratura”.

 

 

 

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4 Commenti

  1. Mi è piaciuta molto, Sergio, questa tua incursione nelle scritture “a quattro mani”. E’ un argomento che ancora non avevo visto affrontare così.

    Condivido in pieno ciò che dici: quasi tutte le scritture in collaborazione s’inquadrano negli schemi del “genere”. Credo che il motivo sia la sostanziale “laboriosità” del processo creativo: laboriosità intesa come mettersi al tavolo, stendere un progetto – spesso per blocchi -, discuterlo, confrontarsi, ragionare, cercare, trovare e scartare, provare e riprovare.
    In definitiva, credo sia un processo creativo che implica necessariamente una “laboriosità” artigianale, che non può evitare d’inquadrarsi in schemi codificati.

    L’estro artistico è individuale, non si potrà mai ridurre a un esercizio che, per quanto virtuosistico e ispirato, dovrà sempre esser governato da pragmatiche regole “operative”.
    Come giustamente dici, la necessità e quella d’imbrigliare all’interno di strutture fisse una fantasia altrimenti incontrollata. Ma non solo. Se le teste pensanti e creativamente “partorienti” sono due, sono necessari anche altri esercizi: di generosità; di capacità di rinunciare – in tutto o in parte – ai propri impulsi creativi e ideologici per avvicinarsi a quelli dell’altro; di “abdicare” temporaneamente dal proprio statuto (illusorio o reale) di artista creatore, per misurarsi in un’altra dimensione, che prevede una comunione d’idee, d’intenti, di visione, di metodologie, di sensibilità.

    Ci sono poi le coppie che scrivono per puro esercizio dettato da ragioni commerciali: come certi “noiristi” che si dividono i compiti creando ciascuno la sua parte e poi cucendo i blocchi. In quei casi ci si accontenta di rimediare (ma non sempre) le disomogeneità facendo un lavoro finale sulla cifra stilistica. Ma questa è un’altra storia, che non credo c’interessi.

    Insomma, scrivere in due non è facile, e difficilmente lo si può conciliare con le sublimi categorie dell’Arte.

  2. Beh, anche il concetto di Musa si è involuto e secolarizzato se seguo quello che dici. Perchè non era un concetto, prima; un privilegio semmai.

  3. Pezzo come al solito strepitoso, strutturato sulla scoperta di una sorgente d’acqua bollente. Praticamente si fa così. Si costruisce la centralità di un pregiudizio (Gilbert and George, Tinguely e Niki De Saint Phalle, Breccia e Oesterheld dimostrano pacificamente il contrario) e poi, armati di lancia, si parte all’attacco del nemico preconfezionato e cartonato. Il cartonato cade facilmente. Il cavaliere della ragione vince una nuova medaglietta.

  4. The Chapman brothers,
    Vedovamazzei,
    Tim Maslen e Jennifer Mehra,
    e – perché no? – Alighiero e Boetti

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sergio garufi
sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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