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Trappola per topi

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di Linnio Accorroni

King: What do you call the play?
Hamlet: “The mouse-trap”. Marry, how ? Tropically.
( Hamlet, Atto III, scena II)

12 luglio 1997, al largo dell’isola croata di Lussino: un sommozzatore belga, durante una immersione, individua in maniera del tutto casuale, poco fuori il porto di Lussino, a 45 metri di profondità, una figura maschile adagiata sul fondo.

È una statua di bronzo alta circa 2 metri del tipo definito “apoxyòmenos”, cioè un atleta nudo che, dopo la gara, si deterge degli unguenti di cui si era cosparso il corpo e dal sudore con lo strigile. Con questo nome si chiamava lo strumento in bronzo che, dotato di una sorta di “lingua” concava ed arcuata, veniva usato dagli atleti per ripulirsi dall’olio usato prima delle gare. Questo tipo statuario è conosciuto da almeno otto repliche grandi e piccole di età romana, di cui la più significativa era sinora quella bronzea conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, proveniente da Efeso, che, a sua volta, doveva derivare quindi da un originale greco ben noto ed ammirato nell’antichità. A causa della perdita dello strigile, rimane incerto determinare l’azione che l’atleta sta compiendo, se cioè esso si stia raschiando il polso sinistro o se, con la mano sinistra, stia pulendo la “lingua” dello strigile stesso dopo l’uso. La notizia del ritrovamento viene tenuta segreta, ma alla fine trapela e, per evitare il rischio di un furto, nel giugno 1999, la statua viene recuperata. Il bronzo, come capita in questi casi, era irriconoscibile e deturpato a causa dei depositi calcarei che lo ricoprivano interamente e ne alteravano i tratti. Il fatto positivo ed eccezionale, comunque, è che la statua, a parte un pezzo mancante sulla gamba sinistra, era praticamente intatta.

Un giorno imprecisato di un mese imprecisato dell’anno 110 d.C.: al largo delle coste croate, è in atto una spaventosa tempesta. Su di una nave romana l’equipaggio tutto, comandante compreso, è in preda al panico. La nave, carica di anfore e di altre merci pesanti, è diretta verso l’alto Adriatico per consegnare i pezzi ad un aristocratico: devono servire ad abbellire la sua raffinata dimora in aperta campagna, luogo di ozi e svaghi che richiedevano un arredamento composito, vasi, anfore e statue sullo sfondo di riti estenuati e calligrafici. I marinai si decidono: sarà gettata in mare una statua bronzea di considerevole peso, in modo tale da poter più efficacemente affrontare i marosi. Dopo quasi 9 secoli, a 3 chilometri più a sud dal luogo dove è stata ritrovata la statua, dormiente in una perfetta solitudine equorea con a fianco solo un pezzo d’ancora e qualche scheggia d’anfora, è stata ritrovata la carcassa di una nave romana. Le anfore che trasportava erano della stessa fattezza di quelle che circondavano l’apoxyòmenos. Facile dedurre che il sacrificio dell’ apoxyòmenos servì solo a rimandare il naufragio di pochi minuti. Quel bronzo di cui lo sfortunato equipaggio si sbarazzò fu realizzato nel I secolo d. C., secondo gli esperti dell’Opificio delle Pietre dure di Firenze che hanno curato, insieme all’Istituto Croato omologo; successivamente, sarebbe stato posto in magazzino. Oggi, grazie a quel prodigio che si chiama Carbonio 14, possiamo conoscere con maggiore precisione anche l’epoca in cui la statua, o in maniera accidentale o per volontà dell’equipaggio, venne buttata in acqua. Grazie ad un puntello di legno, rinvenuto all’interno della gamba destra della statua e probabilmente utilizzato per rimettere in piedi la statua che necessitava di rammendi e restauri, si è risaliti al fatidico 110 d.C. È in questo anno che venne caricata sulla nave per il suo ultimo viaggio, prima della secolare, profonda quiete nel fondo del Mediterraneo.

Non voglio parlare della portentosa bellezza della statua, dello stupore attonito che mi coglie quando, davanti ad esse, per motivi imperscrutabili, ma forse soltanto indicibili, sento accrescere la mia inadeguatezza, lo iato che mi separa per sempre dalle cose, la vertigine della finitudine. Voglio invece concentrarmi sulle affascinanti, memorabili vicende della sua gamba destra. Infatti essa è stata il luogo dove esistenze e vite particolari si sono a lungo intrattenute ed avvicendate. Esistenze voraci ed onnivore, totalmente concentrate sulla soddisfazione dei propri bisogni primari, poco sensibili alla bellezza, se non a quella che deriva dalla consumazione di un pasto con la stessa foga smaniosa e frenetica con la quale si dedicano alla copula. Dai resti del pasto ( olive, pesche, noci e fichi) possiamo capire che proprio nella gamba destra, ( forse per causa di alcuni difetti nella fusione originaria questa parte della statua presentava diverse lacune) una famigliola di topi qualche secolo fa si era installata ed aveva allegramente digerito e defecato cibo e prodotti di una dieta rigidamente mediterranea. O forse era uno solo il mangiatore-defecatore, ma poco importa: pare di vederli lì, al sole caldo d’estate, spilluzzicare alacremente ciò che la natura rendeva al suolo e, felici di tanta prodigalità della terra, restituire nella gamba della statua i resti di ciò che qualche generoso dio pagano aveva loro concesso. Con la tecnica del Carbonio14 un nocciolo di ciliegia morsicchiato è stato datato al 20 a.c; probabilmente il nido di questa vorace, allegra famiglia di topi era nel braccio destro della statua. Un nido di erba secca e foglie, dove sono stati identificati resti di olivo, di lauro, di leccio, le tre piante totemiche della cultura mediterranea. Sempre procedendo per congetture, il nido sul braccio era stato reso possibile perché la statua, dopo la permanenza in magazzino, era stata portata in qualche villa e probabilmente la gamba destra, mal ridotta, aveva ceduto. La statua era caduta in terra, rimanendo per un certo tempo abbandonata in un giardino o magari al margine di un abitato. Qualcuno ogni tanto si ricordava d’essa ( un amante dell’arte? un restauratore provetto? Un dilettante allo sbaraglio?) tanto che ci sono tracce di un paio di restauri: un piolo in legno presso l’ascella destra che data verso il 5° d.c. e quel famoso puntello-frammento nella gamba destra che fa risalire al 110 d.c la data del naufragio.

Una delle scene più malinconicamente struggenti di Film blu di Kieslowski è quella dedicata ai topi. Forse solo un regista tanto sensibile e straniante come lui poteva comunicarci quanta dolcezza filiale esiste in una famiglia di animali la cui vista solitamente ingenera il disprezzo, lo schifo, il disgusto, specie di sotto-animali da estirpare ( e forse questa è anche la straordinaria intuizione che sta alla base del Maus di Spiegelman ). Juliette Binoche, dopo la scomparsa del marito e dei figli, alla ricerca di un qualche appiglio di identità possibile, abbandona la sua villa di campagna alla ricerca di un piccolo appartamento . Un giorno, aprendo il ripostiglio di questa piccola abitazione parigina, scopre, con orrore, raccapriccio e sgomento, un nido di topi. La camera del regista fa uno di quei primissimi piani che sembrano quasi insignificanti e casuali nella composita estetica dell’artista polacco; in realtà, basta vedere una sola volta quel movimento di macchina che plana su alcuni nitidi particolari, per pochi fuggevoli secondi, per ritrovarseli conficcati per sempre nella memoria . Per pochi istanti, dunque, si vede questa nidiata di topolini rosei, appena nati; attraverso lo schifo innato che sempre la loro disgustosa presenza evoca, si fa largo nello spettatore un moto quasi di tenerezza. È  il mistero e lo spettacolo della vita appena sorta, la visione di una brulicante richiesta di affetto e di aiuto, di una insopprimibile vitalità che chiede solo di essere protetta ed accudita, anche se a darle forma e corpo adesso sono animaletti repellenti e schifosi. Persino mamma topa, enorme a cospetto di quelle creature vivacissime che squittiscono affamate, con ancora la pancia deformata dalla recente gravidanza, sembra dotata di un’aura particolare: una mamma che corricchia accanto ai propri neonati, sorpresa ed orgogliosa del miracolo di tanta gioiosa vitalità, intenta a difenderli, che suscita tenerezza nonostante la coda, nonostante il muso, nonostante i peli. Ma l’orrore e la grazia di questa commovente scena filiale non diminuisce lo spavento dell’inquilina: la Binoche, ossessionata dai continui segnali di vita che provengono dietro quella porta chiusa, dagli squittii e rumori continui che testimoniano esistenze in rapida crescita, decide di procurarsi un gatto.

Ai topi ( o meglio alla morte dei topi) è dedicato un passo della Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal. Siamo, più o meno, nel momento in cui il nobile inglese spiega al suo pari Francesco Bacone il perché della sua rifiuto della scrittura, la scelta incontrovertibile dell’ombra e del silenzio. La sterminata congerie di realtà che, come una visione improvvisa, gli si è dispiegata davanti, all’interno della quale non riesce a costruire alcuna gerarchia o ordine, lo ha  talmente sconvolto tanto da rendere inutile il ricorso ad ogni ipotesi di ragione individuale o di linguaggio coerente e logico. Le cose, gli animali, gli oggetti lo paralizzano con la loro schiacciante, insostenibile evidenza: persino un inaffiatoio con l’acqua a metà lo trafigge e lo fa rabbrividire fino al deliquio. La prima spia dell’arrivo di questa dolorosa percezione delle cose avviene però quando il nobile decide di sterminare un gruppo di topi che imperversava nelle latterie di un suo possedimento. D’improvviso, mentre era a cavallo, dopo avere dato disposizioni precise sullo stermino, la rivelazione, quasi telepatica, di tanto orrore: “ Di colpo mi si spalancò dentro quella cantina, piena della lotte con la morte di quel popolo di ratti”..L’insostenibile visione, descritta con crudezza realistica, gli impedisce di godere della gioia della cavalcata: egli si ‘vede’ fisicamente dentro quel campo di sterminio antelitteram e ne coglie, con furia sinestetica, tutti i macabri dettagli. Sente l’aria stagnante per l’odore dolceacuto del veleno, gli stridii di morte che cozzano contro il muro, la convulsione degli spasimi e della disperazione, “ il freddo sguardo di furore di due che si incontrano in una fessura bloccata”. L’ultima immagine di quella terribile strage, che gli svela la rivelazione “di una smisurata partecipazione, di un trasfondermi in quelle creature” è quella che sulla quale il regista polacco in Film blu ha volutamente glissato, lasciandoci l’orrore del miagolio affamato e circospetto del gatto. Ecco invece come Lord Chandos descrive l’incommensurabilità di quegli ultimi attimi: “ Vi era una madre, che aveva stretti a sé i suoi piccoli morenti e non ad essi volgeva gli sguardi, non agli implacabili muri di pietra, ma nell’aria vuota o, più oltre, nell’infinito, e accompagnava quegli sguardi con uno stridio di denti! Uno schiavo pieno di impotente orrore che sia stato accanto a Niobe impietrita deve aver provato quello che io ho provato, quando dentro di me l’anima di quell’animale digrignava i denti contro l’orrendo destino”.

(Immagine: illustrazione di Art Spiegelman, autore di “Maus”)
 

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3 Commenti

  1. Un giorno, da ragazzo andai a fare una gita in montagna con mia madre e un amico. Ci fermammo per mangiare su un grande sasso disteso sotto cui c’era una polla d’acqua e l’ispida vegetazione che cresce vicino ai duemila metri d’altezza.
    Guardando quel micropaesaggio, quella microbaia naturale, ci figuravamo fosse abitata da qualcuno.
    Quasi a conferma della nostra immaginazione, delle arvicole spuntarono da sotto la roccia e subito si ritrasserro vedendoci.
    La tentazione del reportage era forte e buttammo giù una crosta di formaggio, non vicinissimo all’entrata della tana.
    Percepivamo l’incertezza dei padroni di casa che subodoravano una trappola, e per un po’ non si mosse nulla.
    A un tratto, dall’altro lato della roccia un topolino si gettò in acqua e con rapidità impressionante fece la vasca avanti e indietro, ci precipitammo a guardare quel bizzarro fenomeno, è inutile dire che quando ci girammo dall’altra parte il formaggio era sparito.
    Da allora quando qualcuno, specialmente scrivendo, mostra pietà per il popolo che mi prese in adozione sento una profonda gratitudine e non trovo luogo migliore di questo, oggi, per fare i più cari auguri a Linnio (Linnéo) Accoroni e a Franz che l’ha postato, come a tutti quelli che lo leggono e provano commozione.
    Grazie
    PS la scelta dell’abitazione nella gamba di un capolavoro non mi stupisce avendo potuto apprezzare allora il grande gusto della villa con darsena che i topi avevano eletto a loro dimora.

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