La visione della porta

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di Marino Magliani

Blu Porto Maurizio e Rossi Diano. Pichichi lesse i nomi sulle due porte. Aprì quella dei Rossi e guardò negli angoli. C’era solo il massaggiatore. Si salutarono con un colpo di mento.


“Il nostro Manovra é arrivato?”
Il massaggiatore sbadigliò e fece segno che era di sopra.
Pichichi entrò nel suo spogliatoio. Era deserto. Si sedette sulla panca e fissò la fila di attaccapanni dai quali pendevano zaini e cinghie, maschere, come se fosse una strada da percorrere per chissà ancora quanto tempo. Ma sapeva che oggi era l’ultima partita.
Ci aveva pensato a lungo tutta la settimana e ora ne avrebbe parlato a Manovra.
Lentamente si svestì, si alzò e andò al suo armadietto, dall’ attaccapanni tolse lo zaino e se
l’ infilò, si sistemò le cinghie. Si risedette e rimase così qualche minuto, a guardare la porta che fra poco si sarebbe aperta, i gomiti sulle cosce.
Quando si spalancò la porta, perché era entrato il suo portiere, vide che in corridoio stavano passando i terzini e l’ala destra dei Rossi Diano, i loro sguardi s’incrociarono. Poi sentì una voce in fondo al corridoio, e chiamò forte: “Manovra!”
Un rumore di passi corti annunciò l’arrivo di Manovra. Era un uomo piccolo e scuro, con una tuta dei Blu Porto taglia bambino. Si fermò sulla porta e guardò Pichichi.
“Dacci piano, sono smesso sgangherato. E pochi girelli,” disse Pichichi.
“Son senza cinghie basse” fece il portiere.
Manovra si mise in bocca una gomma e rispose: “Ora arrivo.”
Nello spogliatoio avevano fatto il loro ingresso il medioesterno destro e l’ala destra. Si sedettero sulla panca di fronte al Pichichi e aprirono le borse. Poi uno alla volta entrarono tutti, anche le riserve. Tirarono fuori le divise blu. Pichichi era già a posto, lo zaino e le cinghie gonfiavano la strana maglia blu provvista dei fori per il passaggio della sbarra. La schiena appoggiata al muro piastrellato, e tra la schiena e il muro, zaino e cinghie facevano da spessore: una posizione che conosceva da vent’anni.
Quando erano quasi tutti pronti, il Manovra entrò con le cinghie nuove e le diede al portiere che gettò le vecchie in un angolo.
“Spiego di nuovo il modulo,” disse Manovra. “Mi state a sentire un attimo? Puntiamo molto il fianco sinistro, hanno un terzino destro che non é granché, neanche l’ala…”
“L’ala ha una bella mina” disse Pichichi.
“Cosa volevi dirmi prima?” chiese il Manovra.
“Niente,” disse Pichichi andando indietro con la testa fino a sentire il collare.
Era il centravanti dei Blu Porto, uno dei tre stranieri della squadra, spagnolo, di Blanes, il nome El Pichichi, il goleador, se l’era portato di là. 
Manovra spiegava, sulla piazza era quel che si dice un buon lettore di partita, uno che preparava le azioni nei minimi dettagli, efficace nel cambiare moduli durante il corso. Aveva acceso un video, com’era solito fare un’ora prima della partita, e chi non l’aveva ancora fatto a casa poteva studiarsi un attimo l’avversario, il movimento di gambe, se preferiva calciare di collo, di esterno, fin dove riusciva ad alzare il ginocchio. Il calciobalilla umano era  questo: uno zaino e una serie di cinghie che ti assicuravano alla sbarra, le braccia larghe legate anch’esse alla sbarra, e le gambe libere di muoversi, le ginocchia di palleggiare, i piedi, quasi a fil d’erba, in grado di calciare, stoppare “ganciare”. Una protezione di cuoio per i genitali e una per il volto, il petto e lo stomaco custoditi dalla fasciatura dello zaino.
L’entusiasmo, ecco, cosa mancava a Pichichi da tempo. Aveva passato i trenta, era in viaggio da quindici anni, e finita la stagione non avrebbe più rinnovato, il club di Blanes, lo stadio dove s’era legato per la prima volta alla sbarra, gli aveva offerto un posto come Manovra della prima giovanile. Il futuro assicurato, un discreto stipendio, nuove sfide, del resto era uno che durante la carriera aveva fatto tesoro degli insegnamenti di tutti i Manovra incontrati. Ora sapeva che non si diventava mai dei buoni Manovra se non s’era stati prima giocatori, appesi lassù, colpiti da pallonate, all’erta a ogni passaggio, rimbalzo. Da Manovra invece diventava tutto più facile, manovra era l’uomo in cabina di regia, colui che ( un tempo azionando  un motorino che rispondeva a comandi manuali, ora coi tasti di un semplice computer ) agitava le sbarre, arretrava o avanzava di un metro e mezzo la linea di centrocampo, attacco, difesa, il portiere, ( e non più di un metro e mezzo per non mettere in contatto la linea con la linea avversaria ) o spostava a destra e sinistra. Manovra era colui che dettava i tempi, e consigliava un passaggio, un lancio, un pallonetto. Manovra era la coscienza, un giocatore eseguiva, spalle alla sua porta, guardava in avanti l’ altra porta. Immagini che gli davano nausea, anche se l’ avevano mantenuto, e bene, lui, e la sua vasta famiglia, la moglie i due figli, padre e madre suoceri, la sorella, sua figlia, tutti avevano allattato dalle sue gambe penzolanti, la sua schiena insaccata e legata.
Manovra seguitava a parlare, mentre fuori gli spalti si affollavano, come una volta durante il calcio. Quante centinaia di migliaia di spettatori aveva tolto il Calciobalilla Man al calcio! Era uno sport più sicuro, niente più decisioni equivoche dell’arbitro, nessun fallo, le braccia orizzontali appartenevano alla sbarra, il contatto con l’avversario non avveniva, valeva tutto, trattenere il pallone fino ai dieci secondi, fare ganci, girelli, ubbidire agli ordini, spostato a destra o sinistra, capovolto… Mandò giù la saliva. Odiava il girello, un movimento al quale solo al pensarci, lo stomaco non s’era mai abituato.
Dopo un po’ la porta si riaprì ed entrò il massaggiatore. Passava in quel momento per il corridoio il portiere dei Rossi Diano, lo zaino posto, lo strano zaino dei portieri, che permetteva loro di aver libere anche le mani guantate. Pichichi incrociò il suo sguardo.
Uno come El Pichichi davanti non aveva mai avuto altro che un portiere, due difensori, ma soprattutto un portiere e dietro al portiere il buco nero, largo sette metri e alto due. Tre mesi ancora, poi finiva tutto. Non l’ avrebbero ricordato mai qui in Italia. Era venuto tardi, due anni prima, e la buona stagione coi Blu Porto gli aveva strappato un altro anno di contratto con opzione per il terzo.
Vamos todavia!” gli disse il massaggiatore terminando i suoi polpacci.
Rimase con quella smorfia di nausea.
“Avete capito… Hai capito, Pichichi?” disse Manovra.
Non aveva seguito, moduli, strategie, nulla, disse di sì.
Hay que machacar” disse ancora Manovra.
Gli sorrise, come per suggerirgli di piantarla, detestava che questo omino gli parlasse in spagnolo. Poi, quasi senza accorgersene, come se fossero a tu per tu:
“Non ne ho più voglia, Mister.” disse.
Tacquero tutti. S’aspettavano una reazione da parte di Manovra. Anche il massaggiatore, che stava impomatando i polpacci dell’ala destra, abbassò lo sguardo.
“Va bene, poi saliamo dal presidente, ma oggi giochi e segni…” cercò di minimizzare la cosa Manovra.
“Prendi lui” disse allora Pichichi indicando un ragazzo dalle spalle grosse e i capelli ricci rossi, che da mesi si metteva lo zaino e le imbracature senza mai scendere in campo.
“Negli allenamenti l’hai visto, potente, ambidestro, volontà, onesto, prendi Landerini,” aggiunse.
Landerini gli cercò gli occhi, riconoscente. Una sirena suonò nei corridoi.
“Cominci tu,” decise Manovra.
In corridoio attesero formando le due colonne, ventidue atleti, le spalle gonfie da zaini e cinghie, e la maglietta sopra coi numeri e il nome dello sponsor, i protettori ai genitali, la faccia fasciata, ventidue gladiatori. E un arbitro, uno solo, senza guardalinee, i palloni rimbalzavano nelle pareti, trasparenti perché il pubblico non si perdesse la giocata. Palloni che cercavano carambole. I due Manovra si diedero la mano e salirono in cabina regia, le due colonne si mossero verso il campo.
Li accolsero canti, fumogeni, grida. Pichichi hijo de puta, gridava uno. Presto la voce del telecronista riempì l’aria. Pichichi si tolse un attimo le cuffie per ascoltarlo. Banalissimo esordio.

Signori e signori eccoli, ai Blu Porto manca il mediano destro Rodetti, infortunato, gioca Gevi, col numero 35…vedo Puma salutare la curva col suo gesto leggendario (allargava le braccia come se fosse già alla sbarra, Pichichi gli tirò la cinghia, un vecchio scherzo, Puma sentì la strozzatura al collo, si voltò e sorrise attraverso la maschera protettiva) e vedo Felipe Pichichi passargli accanto e raggiungere..

Pichichi s’era tornato a infilare le cuffie e la voce del telecronista tacque.
Portatosi alla sua sbarra, attese che l’ala destra s’infilasse, poi fu il suo turno e per ultimo toccò all’ ala sinistra. Un paio di inservienti passarono a imbracarlo. Allargò le braccia come il chirurgo in sala operatoria quando viene incamiciato, e in tre punti le braccia furono agganciate, lo zaino attraverso il suo foro accolse anch’esso la sbarra, ora era a posto, poi per sganciarsi ci voleva molto meno, in caso di infortunio o di un cambio, un comando dalla sala regia l’avrebbe sciolto in un attimo, e al sentirsi mollare dall’imbracatura il corpo sarebbe caduto a peso morto sull’erba: un salto di appena dieci centimetri.
Altri inservienti stavano imbracando gli esterni di attacco e i difensori e il portiere avversari. Le cinghie tesate, il collare a tenere, che ossa e nervi non si ferissero, va bene, disse dopo aver mosso il collo. Poi le gambe, le alzò, fece cyclette, le fece roteare ai lati, e calciò nel vuoto un paio di volte col destro, guardando il portiere che veniva assicurato.
Ognuno aveva i suoi esercizi. I suoi tic scaramantici, i suoi palleggi a deliziare la platea.
Si voltò a destra e osservò la sua ala. Con un gesto della faccia, attraverso la maschera, lo incitò. Lo stesso fece con l’ala sinistra.
Chiese all’inserviente di staccargli un attimo le cuffie. Un solo istante, sarebbe stato fuori del regolamento. Ma era un abitudine. Lo stadio…Qualcuno, vedendo che ora poteva sentire, s’era rimesso a cantare vamos Pichichi. Erano pochi. Un gesto di compassione. Non c’era tensione tra le frange in curva, inspiegabilmente tuttavia si vedeva più polizia del solito.
Prima che l’inserviente salisse la scaletta e gli ripiazzasse le cuffie, il centrocampista centrale alle spalle gli aveva gridato qualcosa. Non capì. Ora attraverso il circuito gli arrivavano solo più i messaggi di Manovra, che erano gli stessi per tutta la linea d’attacco. Le solite raccomandazioni, giocare sul versante sinistro, tirare anche dalla mediana, il portiere un’aquila non lo era, stancarli con una rete di allargamenti laterali e poi provare provare provare.
Gli inservienti si portarono via le scalette.
Pichichi alzò la faccia alla folla sopra la porta dei Diano, d’ora in avanti ciò che succedeva alle sue spalle l’avrebbe rivisto solo domattina nei filmati. Urlavano, forse, lassù, nella sua curva, sventolavano bandiere, ce n’erano anche un paio che lo riguardavano, la rossa e la catalana.
Quindici convocazioni nella nazionale spagnola. Due partite.
Due gol. Una media pessima per un delantero chiamato Pichichi.
Le televisioni dall’alto e la voce di Manovra ogni tanto. Abbassò le palpebre e fuggì in un posto che da domani non avrebbe più trovato…
Papà, tu jugaba bien a Calcioman?”
Todavia no existia el calcioman Felipe, se jugaba solo a futbol…Te gustaria aprender.
A calcioman?”
O a el futbol.”
Papà, qué hay a dentro de la porteria, donde terminan las pelotas, porque no hay una red como en el futbol?”
Esta hecho como un verdadero calciobalilla, las pelota entran en la porteria y bajan haciendo ruido, entre canales de madera.”
Nunca ha hechado un vistazo en las porteria?”
Nunca.”
Me gustaria hecharle un vistazo, ver lo que hay a bajo…”
Erano le partite del Blanes, quando il padre lo portava a vedere la primera division. I primi anni di Calcioman.
E la visione della porta, che l’anno scorso gli era tornata viva nei deliri della morfina, durante il post-operazione a un ginocchio, la paura che da bambino gli faceva tutto quel buio… Quante volte poi durante gli allenamenti ci aveva guardato. I primi due metri erano una continuazione del campo, una sorta di protezione per il portiere che sganciato dalla sbarra in occasione di un cambio o alla fine della partita non si ritrovasse a cadere sulla linea del buco.
Un piano leggermente inclinato, di modo che i palloni oltre la linea rotolassero giù. Il buco era lungo quanto la porta e largo un metro, buio come un pozzo, e provvisto di una scala perché gli inservienti vi scendessero a recuperare i palloni che inspiegabilmente a volte si fermavano nelle curve del canale e bloccavano la discesa degli altri palloni. Un posto dove tutti, da ragazzi, disobbedendo alle regole, prima o poi erano scesi.
Quando smise di pensare a quel buio, la partita era iniziata. Dopo tanta esperienza si poteva giocare anche con la testa altrove, certo con meno profitto, non si ascoltavano i consigli di Manovra, la sua voce che ti gridava di addomesticare un pallone e passartelo sul sinistro o fintare e farlo viaggiare lateralmente, mentre tu avevi calciato di prima.
Le gambe e i piedi si muovevano, gli occhi come sempre non avevano dentro nient’altro che il buio di là del portiere.
A tratti finalmente il silenzio, e poi di nuovo la voce di Manovra lontana nelle cuffie, che gli segnalò: lancio alle spalle…Lui se l’aspettò a destra dove la sbarra l’aveva portato, ma c’era stata una deviazione, palla agli avversari, il portiere del Diano la dava al difensore che la faceva filtrare al suo mediano, a questo punto Pichichi riaveva tutto dietro e non vedeva più nulla. Di nuovo silenzio nelle cuffie, e allora Pichichi sapeva che Manovra stava ordinando movimenti alle linee dei centrocampisti o della difesa, un miglior piazzamento del portiere, e anche senza volerlo, Pichichi immaginava sincronie alle spalle, movimenti studiati…
Poi: “Girello” sentì.
Deglutì, si preparò, ed era già in aria, capovolto, la palla alzata dal suo portiere aveva incontrato, con una scelta di tempo perfetta, il collo del suo piede destro ed era stata calciata verso la porta avversaria con la violenza di una schiacciata da pallavolista.
S’accorse d’aver segnato perché sentiva nelle braccia i colpi delle manate che i compagni di attacco sferravano sulla sbarra per festeggiarlo, e vide la bandiera catalana lassù agitarsi.
Manovra gli disse: “Golazo barbaro!”
La palla inghiottita dal buio oltre la linea di porta era stata riportata da un inserviente al centro del campo. La giocavano gli avversari. Sul pannello il punteggio  1 a 0 Tra parentesi il marcatore.
(Felipe “Pichichi” Serrat).
Durante il primo tempo ( un tempo durava 25 minuti e se ne giocavano tre ) non successe praticamente nient’altro. Nella pausa gli inservienti vennero a mettere sotto i piedi dei giocatori lo sgabellino alto dieci centimetri: era un ristoro, poi qualche sorso d’ acqua e il massaggiatore passò a chiedere se c’erano problemi. Altri inservienti riaccomodavano i pannelli erbosi laterali che erano anch’essi leggermente inclinati e convergevano verso il centro, di modo che il pallone non si fermasse mai.
Prima di iniziare il secondo tempo Manovra anticipò i possibili cambi. A Pichichi toccava verso il quindicesimo. Sarebbe entrato al suo posto Landerini. Si emozionò, era dunque l’ ultimo quarto d’ ora di agonismo, sentì dentro, domani avrebbe chiesto la convocazione in sede, una decisione che era nell’aria da un mese avrebbe detto loro, li avrebbe convinti, una rescissione del contratto consensuale.
Manovra parlava di nuovo da lontano, il Diano aveva pareggiato al terzo minuto e poco prima Pichichi aveva sbagliato una grossa occasione. Al sesto Pichichi aveva mancato un altro pallone facilissimo, un pallone facile da colpire di prima o da agganciare, una giocata proveniente dal suo esterno di attacco destro, lui l’aveva lasciato sfilare sciaguratamente verso l’attaccante di sinistra in un momento in cui aveva il buco davanti, poi niente più sorpresa, quando il pallone era tornato in suo possesso, la difesa s’era piazzata e lui aveva provato, trovando il muro.
Appena la palla si fermò nei pressi del portiere del Diano, una luce verde si accese. Era il cambio.
“Scendi tu Pichichi” sentì nelle cuffie. La sostituzione avveniva con qualche minuto di anticipo.
“Provo Landerini e gli avvicino l’ ala…” disse ancora Manovra come per scusarsi.
Pichichi respirò a fondo. Attraverso la grondante graticola della maschera guardava la curva, e sentiva sganciarsi per sempre le imbracature. Posò i piedi sul manto erboso.
Gli inservienti avevano alzato alla sbarra Landerini che era corso in campo molleggiando lo zaino sulle spalle, poi sganciarono l’ala destra e l’ avvicinarono a Landerini. Manovra sguarniva la fascia, tentando più bocche da fuoco al centro, a volte funzionava.
Pichichi augurò a Landerini il gol con l’ antico gesto dell’ inchino, poi si voltò verso la linea dei compagni di centrocampo, imbracati alla sbarra, e vide che chiusero i pugni.
Si tolse le cuffie e sentì il telecronista annunciare un cambio anche tra i Rossi Diano. Ora Pichichi, secondo il regolamento, avrebbe dovuto incamminarsi verso il lungobarriera laterale, dove un inserviente gli avrebbe aperto la porticina che menava alle panchine e da lì, in caso non avesse voluto restare, sarebbe sceso agli spogliatoi.
Il telecronista giustificò il silenzio dello stadio dicendo: “Ma cosa fa il Pichichi?”
Si stava dirigendo verso la porta avversaria, e passato sotto lo sguardo dei difensori del Diano, crocefissi e stupiti, ora sentiva il pubblico gridare Pichichi Pichichi. Il telecronista ripeté:
“Ma che succede?”
Un paio di inservienti corsero verso la porta per convincerlo a uscire dal campo. Non fecero in tempo. Pichichi scartò il portiere del Diano ed entrò nella zona oscura della porta. 
Ora sentiva meno anche il telecronista. A destra, la lucetta illuminava debolmente la scala metallica, sorridente si sporse a guardare il buio e si afferrò alle sbarre.
Scese la ventina di gradini, e alzando gli occhi vide i fasci di luce delle torce degli inservienti.
Le catacombe odoravano di legname, di vernici e da qualche parte si sentivano rumori di gocce.
Giunto dove i palloni picchiavano sull’assicciato e da lì scorrevano nel canale, andò anche lui in una penombra di neon pieni di ragnatele. Lungo le pareti di assi, qualche lattina di bibita negli angoli, qualche cartaccia. Ricordò i tempi delle giovanili in cui il Manovra di Blanes per punizione lo mandava a pulire le catacombe.
Dopo una curva secca, ecco l’altro canale, più inclinato.
Papà, nunca ha hechado un vistazo en las porteria?”
Nunca.
Un dia me gustaria hecharle un vistazo…”
Continuò a scendere tenendosi al passamano di legno e già là davanti vide che albeggiava il chiarore della buca dove si accampano i palloni, bassa e larga, dalla quale per uscire bisognava abbassare la schiena.
La voce dei tifosi lassù, e quella del telecronista che aveva ripreso a commentare la partita, attraversava grandi spazi prima di arrivare a lui.
Gli occhi si riabituarono alla luce. S’era seduto sulla spondina, e fra poco, se il gruppo di inservienti, di cui ora si avvicinavano rimbombi di voci e fasci di luce di torce elettriche,l’avesse lasciato stare seduto sulla spondina, egli avrebbe sentito il rumore ventriloquo della prima rete in campionato di Landerini, i canti dei tifosi e il pallone giù, per i canali inclinati e curvanti, si sarebbe fermato ai suoi piedi.

(Pubblicato su “Carta”)

 

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6 Commenti

  1. è tutto molto interessante Georgia, mi ha colpito in particolare una delle ultime frasi, molto incisiva…”gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono”…..

    ora vado a dormire che oggi è stata una giornata pesante!

    Buona notte
    carla

  2. grazie Franz, se non vado errato questo racconto ha la sua genesi proporio in nazione indiana, un’immagine, pubblicata da Francesco Forlani, mi pare, con un particolare di un lavoro del Muñoz.
    si tratta di giocatori di calciobalilla dal volto molto umano. da lí la storia di Pichichi, goleador iberico alla frutta di calciobalilla umano che gioca la sua ultima partita nei Blu Porto Maurizio.
    grazie dunque anche a Francesco

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