Quei cattivi allievi di Leonardo Sciascia

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di Matteo Di Gesù

Sebbene, a rileggerlo dopo vent’anni, quel comunicato del fu coordinamento antimafia che relegava «ai margini della società civile» Leonardo Sciascia faccia ancora accapponare la pelle, per i suoi toni isterici da inquisizione, fa comunque piacere che colui che lo redasse, allora imberbe studentello, ancora adesso, adducendo oltretutto a sua difesa argomentazioni tutt’altro che peregrine, non si penta di nulla, sebbene non gli mancherebbero gli argomenti per ricredersi (si veda Bolzoni su «La Repubblica» del 7 gennaio scorso). A cominciare dalla gimcana politica nella quale si è distinto negli anni successivi quello che allora era lo specchiato coordinatore del summenzionato coordinamento (per non dire di chi, ciarlando di antimafia, ha fatto una carriera politica perfino più brillante).

Ma per l’appunto, in un Paese bizzarro come il nostro, nel quale, con la scusa che la coerenza è la virtù degl’imbecilli, c’è sempre qualcuno pronto a rinnegare in due battute le proprie opinioni di ieri per farsi trovare pronto a un altro giro di giostra oggi, va salutata comunque con rispetto questa coraggiosa (anzi, quasi incosciente) dichiarazione di fedeltà a se stessi. Ciò, beninteso, sia detto a prescindere, come direbbe il mai troppo rimpianto Totò, dall’opinione che ci si è fatta (o rifatta) su quella memorabile polemica sui ‘professionisti dell’antimafia’: chi vuole, del resto, ripassando quel pezzo di Sciascia e tenendo presente –magari con un minimo di onestà- la storia siciliana e italiana degli ultimi vent’anni e l’aria che si respirava a Palermo nell’inverno dell’87, può stabilire da sé quanto quell’intervento dello scrittore fosse fondato, opportuno, straordinariamente lungimirante ovvero sciaguratamente errati alcuni dei suoi obbiettivi polemici nonché malaccorta la valutazione sulle inevitabili e grevi strumentalizzazioni che ne sarebbero seguite. «“Questa non ci voleva,” disse Falcone leggendo l’articolo»: ecco, tutt’al più, volendo proprio aggiungere qui qualcosa alla già rigogliosa rievocazione di quei fatti, si potrebbe riportare questo passo del bel libro di Francesco La Licata, Storia di Giovanni Falcone: battuta ponderosa e leggera da collazionare tanto con il controverso intervento sciasciano (reperibile nel volume A futura memoria) quanto con le repliche di quelli che Rossanda bollò «chierici dell’intolleranza».
Resterebbe semmai da formulare qualche altra considerazione su gli usi politici che di Sciascia sono stati fatti a partire dalla sua morte, e che in questo ventennale stanno conoscendo un vivace aggiornamento. Lo scrittore di Racalmuto sta patendo una sorte analoga a quella che è toccata a un’altro autore, a lui per altro molto caro e come lui rigoroso e ostinato praticante del pensiero critico, fino all’aperta contraddittorietà: Pier Paolo Pasolini (si pensi a quante se ne sono lette e sentite in occasione del trentennale della morte). Una volta digerito dal robusto stomaco del conformismo italiota, il loro anticonformismo civile è stato trasformato nell’ennesima deiezione con la quale il Potere di sempre suole legittimare se stesso: assimilando, dopo averle banalizzate e falsificate, le tesi dei suoi oppositori e semmai restituendole, degradate, a misura della chiacchiera politica quotidiana: comoda e rassicurante merce intellettuale di facile consumo; per giunta irrinunciabile, se reca l’etichetta accattivante di ‘scomodo’, ‘eretico’ ‘scandaloso’.
Solo con ciò si spiega la ridda di allievi e devoti (autoproclamatisi tali) di Sciascia e Pasolini che imperversa per un Paese bizzarro come il nostro: il quale nel frattempo, non si sa come, soffoca di perbenismo e ipocrisia, intolleranza e malaffare. Ma se è soltanto patetica la pretesa di discendenze sciasciane vantata da scrittoruzzi che, a proposito di «amore della verità» non sono capaci nemmeno di verificare su Tuttocittà la corretta ambientazione delle loro storie, è grave che, per dirne una, un prestigioso editorialista oggi della «Repubblica», autopatentato sciasciano e sciasciologo, autore per di più di una prefazione a una edizione del Giorno della civetta, qualche anno fa non rammentasse nulla della lezione del suo presunto maestro mentre difendeva e legittimava sulla prima pagina del «Corriere della sera» i picchiatori e i torturatori in divisa del G8 di Genova.
Così come, per venire ai nostri giorni, viene da chiedersi se è lecito, come ha fatto Pierluigi Battista sempre sul «Corriere» sentenziare, in nome di Sciascia, che i processi «costruiti sul nesso tra mafia e politica» hanno avuto «esiti fallimentari». E questo non tanto perché, a proposito di «amore della verità», solo in un Paese bizzarro come il nostro è stato possibile salutare la pesante sentenza di cassazione del processo Andreotti (il cui riconosciuto reato di concorso esterno fino al 1985 è stato prescritto, forse è il caso di ricordarlo), anziché come un marchio d’infamia, come un trionfo dell’imputato (con tanto di esultanza ultras dell’avvocato Bongiorno e successiva beatificazione televisiva); ovvero, sempre a proposito di «amore della verità», rimuovere in fretta dalla memoria pubblica la condanna in primo grado per mafia comminata a Marcello Dell’Utri. Ma proprio perché basterebbe rileggersi giusto qualche romanzo di Sciascia, anche dei meno recenti, per reperirvi la denuncia civile e politica delle collusioni tra mafia e politica, l’analisi inesorabile dei nessi tra criminalità e Potere, gli aspetti oppressivi del suo esercizio, prima ancora (se non al di là) del loro eventuale riscontro in sede giudiziaria e senza comunque rinunciare a qualsivoglia prerogativa garantista.
Quanto alle scuse postume pretese da Battista per Sciascia, sono da sottoscrivere le perplessità manifestate domenica scorsa da Chiaberge sul «Sole 24 ore»: «Ogni polemica va contestualizzata, e nell’epoca dell’assalto mafioso allo Stato è comprensibile che non si dosassero troppo le parole. E poi, conoscendo la vena volterriana di Sciascia, siamo certi che avesse messo nel conto le reazioni e pure gli insulti. Anzi sarebbe rimasto deluso se la sua provocazione fosse caduta nel vuoto». Semmai, visto che al «Corriere» si professano custodi del magistero sciasciano, verrebbe da chiedere al vicedirettore Battista se promuovere un dibattito sulla liceità della tortura per estorcere confessioni ai terroristi (o presuti tali) con un fondo di Panebianco in prima pagina sia coerente con la lezione di Sciascia. Chissà se in cuor suo, mentre passava il pezzo, Battista chiedeva scusa alla memoria del Maestro…
Già, rileggere, si diceva. Nel frattempo, mentre è in corso questa spensierata mistificazione, Sciascia viene a poco a poco espunto dal canone letterario del secondo Novecento italiano: i libri dell’autore de Il contesto vengono letti sempre meno, e ancor meno gli si dedicano studi degni di menzione (a tale proposito va felicemente in controtendenza l’iniziativa di un critico di rassicurante intelligenza come Salvatore S. Nigro, il quale si appresta a curare un Alfabeto sciasciano). E se è comprensibile che gli eredi e la fondazione a lui intitolata usino tutte le cautele del caso per tutelarne la memoria da improvvide sortite infamanti (come quella ormai pregressa di Sebastiano Vassalli o quell’altra sorprendentemente recente di Luigi Malerba), rimane il pericolo di imbalsamarla, questa memoria, relegandone il culto solamente ai fidati devoti. «Sciascia è uno dei rari scrittori con i quali vale la pena non essere d’accordo», diceva in una conversazione privata un suo non sospetto ammiratore come Roberto Alajmo. È quello che dovrebbe toccare ai grandi autori civili come lui, come lui che «contraddisse e si contraddisse» (ma non certo come gli untuosi trasformisti di casa nostra): essere letto, conosciuto, ammirato, discusso, oppugnato. Per lasciare che a parlare sia la sua opera e non, al posto suo, la pletora di sedicenti sciasciani e sciasciologi nostrani . Per essere restituito ai suoi lettori e magari sottratto a chi, oggi come ieri, lo usa per il proprio miserabile tornaconto.

(Pubblicato oggi in una versione abbreviata su “La Repubblica” – edizione di Palermo)

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15 Commenti

  1. Bravo Di Gesù. Bravo Garufi. Ora, cazzo, ora, ditemi: in quale quotidiano nazionale italiano trovereste un pezzo che approfondisce in questo modo una questione così importante dal punto di vista culturale? Cioè: storia della cultura, antropologia della cultura, filologia della cultura del nostro paese. Ecco perché, al di là di tutti i contestatori di NI che, contestando nel contesto, in realtà credo professino un neanche troppo filigranoso amore per Ni, viva NI.
    Buona notte. Bravi. Bis. Anche il pezzo su Beckett (non mi ricordo manco chi l’ha postatoi) era bello. E a proposito: vabbè, un’altra volta… buona n.

  2. Qualcuno che ne sa più di me forse spiegherà il motivo per cui stiamo a interrogarci su pigi, l’antimafia e l’ambaradan, senza parlare del metodo, del metodo, del metodo. Il richiamo finale che Di Gesù fa all’opera del Maestro può dare una direzione, ma è sufficiente? Per adesso passo ad altri il testimone.

  3. @galaxy

    “Bravo Di Gesù. Bravo Garufi. Ora, cazzo, ora, ditemi: in quale quotidiano nazionale italiano trovereste un pezzo che approfondisce in questo modo una questione così importante dal punto di vista culturale?”

    Leggere in fondo al pezzo:
    “Pubblicato oggi in una versione abbreviata su “La Repubblica” – edizione di Palermo”.

  4. Ho letto il primo capoverso e ho lasciato perdere…

    smentitemi, perfavore, ditemi che valeva la pena continuare, che l’autore ha fatto il nome dill’imberbe studentello, ha spiegato cosa ha fatto scattare quel comunicato del coordinamento e ha precisato che chi ha fatto carriera con l’antimafia non è borsellino e orlando, come scriveva sciascia in un tristemente famoso articolo…

  5. Galbiati, non ti smentisco, così ti risparmio la fatica di leggere tutto il pezzo, semmai ti tornasse il ghiribizzo: il mio, buono o cativo che sia, è un articolo di commento che, come dire, presuppone la lettura di almeno uno dei quotidiani che nei giorni scorsi hanno già doviziosamente ricostruito quella polemica (Corriere, Repubblica, Liberazione…), fornendo tutte le informazioni che pretendevi dessi io: ovviamente trovavo superfluo ripeterle. Anche scrivere che non è Borsellino quello che ha fatto carriera con l’antimafia mi sembrava superfluo, tu non trovi? (e comunque scrivevo “carriera politica”). Quanto agli altri nomi siamo nell’opinabile e in ogni caso sia chiaro: non è che se uno viene premiato perché nel suo campo si è opposto seriamente (e non con le chiacchiere) alla mafia mi pare ci si debba scandalizzare. Ad ogni modo, vuoi i miei nomi (anche se non era di questo che intendevo parlare nel mio articolo)? Orlando è stato un ottimo sindaco, soprattutto nel suo primo mandato (aveva anche un’ottima giunta), e la sua aministrazione la mafia non l’ha certo favorita; poi ha tentato, in maniera un po’ cialtrona, di farci carriera, con l’antimafia, ma c’è riuscito solo in parte. L’ex presidente della commissione antimafia Lumia, a mio parere, un po’ ci marcia. Giusto per fare due esempi. Se vuoi allargo il campo: Marco Amenta, autore del bruttissimo e ruffianissimo documentario “Il fantasma di provenzano”, uscito l’anno scorso, è un altro che fa carriera con l’antimafia finta. Giusto per farne un altro, di nome. Poi, se vuoi la lista di quelli che l’antimafia l’hanno fatta sul serio, sovente lasciandoci le penne (politici, magistrati, sindacalisti, giornalisti, intellettuali, impiegati, operai…) te la vai a cercare altrove (c’è una ricca bibliografia sull’argomento, sai) e non sul mio pezzo, che, ripeto, parlava d’altro. Ma, se proprio ci tieni, il nome dell’ex imberbe studentello, almeno quello, te lo faccio: si chiama Francesco Petruzzella e oggi fa l’impegato statale (ma anche questo era in prima pagina su Repubblica): ora sei più contento?

  6. Mi cospargo il capo di cenere.
    Però, davvero, sui quotidiani nazionali gli approfondimenti sono una rarità…

  7. Grazie per i chiarimenti, Di Gesù, sono contento.

    Vede, poiché su questo sito non c’era notizia della discussione avvenuta sui quotidiani, io ritenevo opportuno, per capire il suo pezzo, chiarire di chi e che cosa si stesse parlando.

    E credo che quando si parla di mafia e antimafia sia giusto fare sempre i nomi.

    Si aggiunga che questo sito ha “sponsorizzato” la “catena” di Riccardo Orioles, che se non erro (correggetemi se sbaglio) faceva parte di quel coordinamento che definì Sciasca un “quaquaraqua”, e si capisce perché volevo chiarezza e nomi.

  8. “quelli che l’antimafia l’anno fatta sul serio”.

    bravi prof, siete davvero dei prof di sinistra. però ai vostri alunni fate leggere sciascia, tutto, non solo quello del 1986, che diavolo! i testi, le epigrafi, il paratesto, le note in appendice, le cronologie. spostatevi, fategliela vedere, questra sua strana opera. così poco alla moda. mica borges, jorge luis, giallisti meneghini o levantini, e manganelli.

  9. Per Guastella: ma perché lasci commenti senza leggere il pezzo, così, tanto per rompere le scatole? Ma chi l’ha scritto che si dovrebbe leggere solo lo Sciascia dell’86? Comunque concordo sugli ormai insopportabili giallisti meneghini, levantini e non solo; dissento su Manganelli; oltretutto a Sciascia piaceva molto, Manganelli: avrebbero dovuto conoscersi di persona, con l’intercessione di S.S. Nigro, amico di entrambi; ma la malattia di Sciascia si aggravò poco prima che l’incontro avvenisse.

    Per Galbiati: del coordinamento antimafia facevano parte molte persone per bene, in gamba, e in buona fede e all’inizio fu anch’essa un’esperienza importante (dopo sempre meno); quel loro comunicato resta tuttavia di una violenza verbale assurda, tantopiù perché colpiva un autore che di molte battaglie era stato ispiratore ideale. Penso questo sebbene anch’io sia tra quelli che trova quella sortita di Sciascia sui professionisti dell’antimafia uno scivolone infelice, benché fondato su presupposti sacrosanti (che vennero chiariti meglio solo nei suoi interventi successivi): perché faceva esempi infelicissimi (Borsellino, lo stesso Orlando) e perché era scontato che, come puntualmente avvenne, sarebbe stato immediatamente strumentalizzato pro domo propria dalla palude lercia politico-mafiosa e dai suoi sostenitori (che, tra le altre cose, in quei mesi stavano mettendo in croce Caponnetto, Falcone e il pool). Trovo che si potesse (e dovesse) dissentire da Sciascia senza necessariamente rovesciargli addosso carriolate di contumelie o, peggio, pronunciare contro di lui sentenze di esclusione dal consesso civile degne dei peggiori tribunali politici, soprattutto considerando la sua vicenda pubblica pregressa e la sua rigorosa, alta lezione di scrittore civile. E comunque (e qui la chiudo che la sto proprio tirando per le lunghe) diffido sempre quando i grandi scrittori, i grandi intellettuali vengono trasformati nell’Incarnazione del Verbo dai loro piccoli lettori.

  10. A proposito di Manganelli, volevo solo dire che Matteo Di Gesù, che stimo moltissimo, qualche anno fa gli ha dedicato pagine splendide in un saggio che consiglio a tutti di leggere (“La tradizione del postmoderno”, Franco Angeli editore).

  11. a me che i due (manganelli e sciascia) si conoscessero, si stimassero, stavano anche per incontrarsi, mi interessa soltanto perchè magari il tutto andrà a finire tra le righe raffinate e compite di qualche saggio che – in modo irrelato e metastorico, decontestualizzato e tanto a la page – tenterà un morbido approccio alla possibilità affascinante di incontri e incroci, comparazioni e (pochi) distinguo. con tanto, magari, di documentazione epistolare o altro. invece, sullo sfondo, ci sono due idee di letteratura e due pratiche di scrittura diverse, mi pare. per fare solo un esempio.

    qui invece si mescola tutto, tutto si rimpasta, ma resta fermo un maledetto vizio (metodologico) che si produce quando sciascia, il significato della sua opera, fa capolino tra le polemiche bellettristiche del circo mediatico o politico-culturale. Quell’appiattire tutto il suo profilo di scrittore alle ‘polemiche’ (degli anni ’80), senza aprofittarne per tirare fuori una contestualizzazione (un sforzo di storicizzazione) dell’intera sua scrittura: una lettura – attualizzante – del suo metodo di scrittura, delle motivazioni ideologiche e delle risultanze formali del suo scrivere.

    d’accordo, poi, sui rischi apologetici e agiografici. ma, mi pare, quando si decide di conoscere analiticamente e di scrivere su un autore (contemporaneo), o su una ‘linea’ letteraria che egli incarnerebbe, tutta l’onestà di un critico-lettore sta nel coraggio di ‘schierarsi’, più o meno apertamente, a favore o contro una ben definita ‘idea’ di letteratura, senza fare confusione.

  12. @garufi
    ma non dovresti anche precisare, da esperto borgesiano, ‘come’, e perchè, e ‘quale’ borges gli ‘piaceva’? come mettere in circolo quella passione con le altre mediazioni della sua scrittura? che so: manzoni e pirandello, savinio e stendhal? non importa, tutto partecipa alla melassa circolare, vagamente neoplatonica, nella quale galleggia l’immagine di uno scrittore, evidentemente, autofagico e onnivoro. e allora, per semplificare, vai con le menate su scalfari, moro, tortora e l’antimafia.
    per un post da leggere davvero soddisfatti, vedi qui: http://www.amicisciascia.it/LSW/Nuove/AFM6_5.html.
    In tema.

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Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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