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Lingua Sovrana – 1/ L’Origine della Lingua: il Dono

di Marco Rovelli

Nel De vulgari eloquentia Dante – contro la parola della Genesi, dove la prima a parlare è Eva – afferma che la prima parola del linguaggio umano è stata pronunciata da Adamo. E questa parola è stata il Nome di Dio: El.

La prima parola di Adamo, dunque, è una corresponsione al dono di Dio (al dono della lingua). E’ l’invocazione del suo Nome. El. Ma non c’è scopo, in questa enunciazione. Adamo non comunica niente, a nessuno. Non si può dire propriamente nemmeno che sia un’invocazione, poiché Dio – che sarebbe il destinatario dell’invocazione – non ha bisogno di essere invocato. Egli è già lì. El. Adamo ne ha piena coscienza. Non lo invoca come potrebbe fare l’uomo scacciato dall’Eden, che ne sente la mancanza, che ne patisce la separazione. Non c’è separazione, Adamo è nella presenza assoluta – nella presenza dell’Assoluto. E nella presenza assoluta – nella pienezza del Verbo – non si dà alcuna significazione: il processo di significazione si dà a partire da un’assenza. (Il processo linguistico si insedia su una frattura, su una mancanza. Io devo dire qualcosa: la mia parola deve rappresentare qualcosa – che non è evidentemente la parola stessa. In questo senso, la parola uccide il reale). La prima parola non è segno di qualcosa. E’ un canto di lode al Creatore. E’ il canto del Verbo: la pienezza del diletto, il diletto della pienezza. Il riverbero di luce – la gloria – del Verbo.

“Volle che egli parlasse affinché nell’esplicazione di sì grande dono fosse glorificato Chi per grazia aveva donato” scrive Dante [1] . Non comunica qualcosa, dunque. E’ piuttosto un’esposizione della lingua in quanto tale. Mera esposizione del factum loquendi. Il fatto del linguaggio viene esposto nella sua forma pura – forma che è l’eco stesso del Verbo creatore. Quella pura forma non ha bisogno di dire niente. La lingua edenica non ha bisogno di comunicare. Si dice, e basta. E questo puro dire è replicazione e ripresentazione del dono divino – della sua grazia. Dell’Origine.

Non dimentichiamo che nella dottrina tradizionale del cattolicesimo la grazia viene caratterizzata in questo modo: gratia gratum faciens – la grazia rende grati. Se la innestiamo su questo luogo dell’Origine della lingua, ne risulta che l’espressione pura della gratitudine è il linguaggio. L’uomo è grato, e parla. La lingua pura è presa nel circolo dell’amore di Dio, e nella sua gloria.

Giorgio Agamben afferma che l’idea del linguaggio si manifesta in un bel volto – ‘il solo luogo in cui vi sia veramente silenzio’ [2] . Il linguaggio si mostra, in quella bellezza silenziosa: là – nella sua intensa espressività, che nulla ha da dire, ma che si dice, negli occhi dove si legge un magma alfabetico (e infatti gli animali non sostano nella sospesa contemplazione dei volti dei propri simili) – là la parola si vede nella sua pienezza – sospesa sull’abisso. Se vediamo questa idea, allora il volto di Adamo non può che essere stato il volto sublime.

Se facciamo un salto cronologico di sette secoli – cronologico, non logico – vediamo come questa concezione di Dante vada ad intrecciarsi sorprendentemente con quella di Walter Benjamin. I due sono legati dall’influenza su di loro esercitata, in maniera determinante, dalla concezione linguistica della Kabbalah.

Nel suo saggio Sulla lingua [3] , Benjamin espone la sua teoria linguistica. Nella lingua, dice Benjamin, si esprime l’essenza di ogni cosa. Ciò significa che l’essenza di tutte le cose, la verità di ognuna di esse, non si dà se non nel loro essere-in-relazione. Il medium (ovvero la funzione comunicativa) del linguaggio è il solo luogo dove è possibile cogliere la verità delle cose. Il linguaggio è – paradossalmente – un medium immediato, dacché in esso si dà immediatamente (senza mediazioni) l’essenza-verità delle cose.

La lingua si dà anche tra le cose – nella “comunità materiale delle cose” -, che hanno senso solo nella loro relazione reciproca: Benjamin parla di ‘lingua muta’. La lingua sonora degli esseri umani, invece, nomina le cose. In questa denominazione delle cose l’idea della comunità materiale trova la sua voce. Solo nella lingua dell’uomo si può nominare l’essenza delle cose: l’essenza linguistica dell’uomo (che è la sua essenza spirituale) è quella di denominare le cose. Il nome, allora, è “l’essenza più intima della lingua stessa. Il nome è ciò attraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa e assolutamente si comunica”. Il nome non ha nulla da dire nel senso di comunicare: esso mostra la cosa (il suo dire è un mostrare). Non c’è un senso da comunicare: indica la cosa, chiamandola. Questo è il carattere vocativo del nome, che confina immediatamente con la cosa (che è l’inesprimibile), che alla cosa è affine in quanto la mostra, la indica, la chiama. Il nome, allora, è la lingua della lingua: ovvero, è nel nome – nella sua immediatezza, in quanto non ha nulla da comunicare – che la lingua si mostra, che essa mostra la propria essenza, la propria verità. Ovvero: nell’atto della nominazione, all’uomo si mostra la sua essenza spirituale.

Una deriva nella deriva: questa è la chiave per penetrare la IX elegia di Rilke [4] .

Ma il pellegrino dal pendio sulla cresta del monte non
porta a valle una mano piena di terra, indicibile a tutti,
ma una parola conquistata, pura, la gialla e celeste
genziana. Noi siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra,-
al più: colonne, torre… ma per dire, capisci,
per dire così, come mai le cose stesse
intimamente sapevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra ammutolita, quand’essa preme gli amanti,
che nel loro sentire ogni cosa s’incanti?

Benjamin pone in relazione la lingua dell’uomo con la lingua divina: “Dio non ha creato l’uomo dal verbo, e non l’ha nominato. Egli non ha voluto sottoporlo alla lingua, ma nell’uomo Dio ha lasciato uscire la lingua… L’uomo è il conoscente della stessa lingua in cui Dio è creatore… Ogni lingua umana è solo riflesso del verbo nel nome. Il nome eguaglia così poco il verbo come la conoscenza la creazione. L’infinità di ogni lingua umana rimane sempre di ordine limitato e analitico in confronto all’infinità assoluta, illimitata e creatrice, del verbo divino”.

Tutto questo richiama lo schema di Dante, e si integra con esso. Il nome che Adamo pronuncia – El – è il riflesso originario – integro, pieno – del Verbo creatore di Dio: Adamo, chiamandoLo, Lo conosce, e quella conoscenza è speculare all’atto creatore di Dio – è immagine del Verbo. Il nome è una raffigurazione del Verbo, si può dire. (E qui non si può mancare di notare come questa tesi sia affine a quella, coeva a Benjamin, di Wittgenstein). Nella ‘vocazione’ di Adamo si mostra per la prima volta all’uomo la sua essenza spirituale, ovvero si mostra la lingua nella sua pura medialità, nella sua essenza che è l’essenza spirituale dell’uomo.

La parola El, si è detto prima, è una corresponsione al dono di Dio. Allora, si può dire adesso che il Verbo creatore è l’atto puro della donazione, e la corresponsione vocante è la forma originaria dell’uomo – la sua piena, incorrotta essenza spirituale, che è specchio del Verbo divino. Il nome – che mostra e conosce – è specchio del dono di Dio (della creazione del Verbo). Noi – scrive la Genesi – siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio: e il primo nome è l’immagine pura di Dio – dell’inesprimibile.

[1] Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, in Id., Opere minori, Rizzoli 1960, p. 533. Il saggio che fa rilevare la centralità di questo evento linguistico nella semiotica dantesca è: Alessandro Raffi, La gloria del volgare. Ontologia e semiotica in Dante, Rubbettino 2004.

[2] Giorgio Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli 1985, p. 87.

[3] Walter Benjamin, Sulla lingua, in Id., Angelus novus, Einaudi 1995, pp. 53-70.

[4] Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Rizzoli 1994, p. 93. Traduzione di Franco Rella.

Lingua sovrana 2

Lingua sovrana 3

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18 Commenti

  1. Solo per farti capire che non ce l’ho con te (anche se probabilmente non te ne importa un accidente). Questo post lo trovo bellissimo. Il carattere originario del Dire, io l’ho scoperto prima di tutto nei saggi di Heidegger, ma gli accostamenti che fai qui sono perspicui, e profondi. E’ uno scritto che invita alla meditazione, ed è già meditazione. Grazie.

  2. La lingua

    Prendi a cuore la tua lingua
    ricordati di vaccinarla
    portarla in campagna a primavera
    di starle vicino la sera
    e nutrirla, nutrirla
    parlandola.

    A.F.

  3. Grande, Marco, grande. Sono così contento che ti copio qui il finale del Faust, il chorus mysticus, che non mi pare così lontano:
    Alles Vergängliche
    Ist nur ein Gleichnis;
    Das Unzulängliche,
    Hier wird’s Ereignis;
    Das Unbeschreibliche,
    Hier ist’s getan;
    Das Ewigweibliche
    Zieht uns hinan.

    [Ciò che trapassa
    non è che un simbolo;
    L’irraggiungibile
    si compie qua;
    ciò ch’è ineffabile
    qui divien atto;
    Femmineo eterno
    qui ci trarrà] (trad. di Barbara Allason, Einaudi 1965)
    Continua, prego. Ciao a.

  4. “E nella presenza assoluta – nella pienezza del Verbo – non si dà alcuna significazione: il processo di significazione si dà a partire da un’assenza.”

    Ben detto. Pero’ Adamo e’ creatura di Dio. Qui, in questo rapporto di dipendenza, un’assenza ed una separazione sembrano esistere. Forse e’ questo il motivo per cui Adamo deve possedere una lingua. La perfezione non sembrerebbe richiederne una.

  5. “Volle che egli parlasse affinché nell’esplicazione di sì grande dono fosse glorificato Chi per grazia aveva donato”

    Certo che in questo Dio solo e bisognoso di feedback v’è così poco di divino e così tanto di umano! E cosa di più umano del fare un dono per scaldarsi al calore della gioia e della gratitudine?

    A me pare, che in quest’atto nominativo primigenio, vi sia, più che una materia fatta di iperuraniche quintessenze linguistiche e spirituali, una ben più carnale trama di amore e (ri)nascita. In questo Adamo che pronuncia – immagino io in modo incerto e balbettante – la sua prima parola che è il nome di Dio, non posso impedirmi di vedere la scena sommamente amorosa del bambino che per la prima volta accede al linguaggio riconoscendo la madre (nascendo così una seconda volta, non più come creatura ma come individuo). E, sicuramente un caso, analogamente a mamma anche El par nascere dal magmatico e informe sobbollire delle lallazioni infantili.

    E l’atto puro di nominare, secondo me, determina sempre una frattura, perchè stabilisce senza equivoci un ‘io’ e un ‘tu’. Dunque nessuna pienezza per me, nessuna “incorrotta essenza spirituale”, nessuna “immagine pura di Dio – dell’inesprimibile”, ma piuttosto la nascita dell’io, del tu, e dello spazio che li separa – che è lo spazio dell’amore. E, visto il nostro scarso senso dell’orientamento, dell’errore, e dell’orrore.

  6. Proprio poco prima che gli appaia Mefistofele, Faust sta traducendo l’inizio del Vangelo di Giovanni

    en arché o Logos

    FAUST: (…)Egli sta scritto: “Nel principio era la parola.” Ecco io sono già impacciato! E chi m’ajuterà ad uscirne? No, io non posso stimare sì alto la parola, e se lo spirito degna illuminarmi mi bisogna tradurre diversamente. Sta scritto: “Nel principio era la mente.” Bada bene al primo verso ve’, che la tua penna non precipiti! può egli la mente tutto produrre e informare? Forse starà meglio così: “Nel principio era la possanza.” Ed ecco pur nell’atto ch’io scrivo questo, io mi sento da non so che avvertire che non devo contentarmene. Or sì il cielo mi aiuta da vero! Io prendo per una volta consiglio, e animosamente scrivo: “Nel principio era l’atto.”

  7. Devo dire che questo genere di pensiero associativo, che sembra connettere i suoi disparati elementi sull’unica base del commosso sentimento che anima l’autore, mi lascia alquanto freddo. Ma poiché vedo invece in altri una sorta di “partecipazione mistica” all’operazione, ne deduco che a me manca (o che rifiuto) qualche presupposto indispensabile. Forse si tratta di una liturgia per soli adepti al culto delle lettere.

  8. Grazie a tutti per i vostri interventi. Nello specifico:
    @ Red
    Nel discorso posto in essere da Dante, la mancanza viene in essere solo con la caduta. Prima, nell’Eden, Adamo non avverte alcuna mancanza. E’ semplicemente, per dirla con un’icona, schiuma di Dio, da lui traboccato per la natura intimamente sovrana di Questi. E canta la sua appartenenza, piena e incorrotta, all’onda divina.

    @ Luca
    Hai ragione, qui interessa la figurazione (mitica) del linguaggio, e questo è ben poco divino e molto umano. Però, se hai pazienza, il senso del discorso si chiarirà nelle prossime “puntate”…

    Se può interessare a qualcuno, appongo qui delle “autoglosse” che avevo scritto intorno a un paio di punti critici dello scritto segnalati da un amico filosofo (ovvero, Massimo Adinolfi, ovvero Azioneparallela…)

    1. La lingua pura sta prima della lingua di Adamo, è prelapsaria, unicamente entro una figurazione mitica. Cioè nell’unico modo in cui possiamo rappresentarci il factum del Nome (ovvero: in cui possiamo esibire la forma, la figura, il limite della lingua) Credo che vada inteso in questo senso, ‘articolare’ la lingua prelapsaria: non tramite il lògos, ma mettendola in figura, cioè esponendo la forma del Nome. La lingua umana, insomma, se vuole rappresentarla (metterla in figura, ripeto, non pensarla), se vuole rappresentare il puro factum loquendi, è costretto a rappresentarlo come un pre, un prima, in quanto ne costituisce il limite, laddove invece essa si dà nel suo medesimo movimento (ancora: come la sostanza si dà nel medesimo movimento dell’accadere dell’attributo). Dovendosela figurare come un prima, la sua rappresentazione appare inevitabilmente come una replicazione, come il prima che ritorna. Quel prima torna sempre di nuovo, ed è in effetti, per il linguaggio che lo espone, è un prima, dunque il linguaggio non può fare a meno di parlarne come replicazione. E’ il suo limite, quello di dover dire ‘replicazione’ a proposito di qualcosa che si dà sempre, tutto intero, daccapo, come nel movimento della sostanza spinoziana riletta da Sini. (Aver letto l’Archivio Spinoza mi ha chiarito ulteriormente quanto ho scritto in questo saggio e in quello su Bataille).
    La replicazione è, in realtà (ovvero, potremmo dire, dal punto di vista della sostanza), il sempre nuovo: ciò che torna, ogni volta, è l’Origine. L’Origine è ovunque (è un’espressione di Nancy). Ma se è ovunque, non si dà più Origine. Dunque ciò che torna, ciò che viene ripetuto (di nuovo) è la lingua pura. (La ripetizione è ripetizione della differenza. Ciò che ritorna è la differenza stessa. Ciò che torna, insomma, è il factum loquendi. Esso, ogni volta, si dà, si dà tutto intero, e daccapo)
    Siamo o non siamo a distanza dalla lingua pura, dunque? Sì e no. E non c’è modo di uscire da questa ambivalenza, in quanto essa è il limite stesso del linguaggio.
    Azzardo: la lingua pura è l’insignificanza dell’esserci, e il suo senso.

    2. Il linguaggio comincia…? Appunto, non comincia. Le due cose accadono insieme. Se la puntualità metafisica del nome è il limite del linguaggio, di questo limite si è consapevoli all’interno della struttura di rimando del segno. Il limite c’è solo quando si istituisce la struttura di rimando. Appare (dal nulla) e compare (con-pare) solo dall’interno di quella struttura, come limite di tale struttura, come fuori di un dentro. Ma appunto è un fuori solo in relazione a un dentro. Senza uno non c’ neppure l’altro. La struttura è circolare. Ciò significa, questa è la natura formale del linguaggio. Al di qua di ogni genealogia.
    Ma hai ragione, una genealogia manca. Bisogna fargli posto. Ovvero istituire una relazione con questa struttura formale del linguaggio. Per dirla figuralmente, forse bisognerebbe pensare questa sfera che rotola, e pensarla in relazione con l’ambiente circostante, con le rocce, con i boschi, con il cielo, con le città che attraversa… Muta continuamente il detto, il dire rimane irriducibile, ma mutando i termini della questione muta pure la questione stessa. La genealogia sarà forse, allora, il succedersi delle rappresentazioni figurali, mitiche – ognuna delle quali espone la questione del limite del linguaggio a suo modo. Questo legittimerebbe anche i sorvoli temporali millenari, da Dante a Bataille…

  9. “questo dio solo e bisognoso di feedback”. ottimo, carlucci. lo proponiamo per un “vangelo secondo bill”. gates.

  10. per colpa tua, marco, stamattina ho letto il de vulgari eloquentia.
    dante fa la differenza fra due lingue: quella grammaticale (il latino) e quella naturale (il volgare); “di questa più nobile” (perché naturale) parla questo libretto, che manzoni definiva “molto citato, ma poco letto”. poco letto, anche perché è un testo pieno di salti logici, storici, filologici (va detto che è un testo incompleto, si tratta di un progetto lasciato a metà, in pratica: bozze).
    dante ci ricorda che la prima testimonianza nella bibbia che abbiamo della parola è di eva (quando chiacchiera con il serpente), ma “tuttavia è più ragionevole credere che abbia parlato prima un uomo; e contro convenienza si pensa che un atto sì nobile del genere umano non sia fluito da labbra di uomo prima che di donna”.
    dunque l’uomo (adamo) è il primo a compiere questo atto. gli animali non sanno parlare, mentre agli angeli non serve parlare dato che si capiscono senza parole, la donna si sa per parlare per prima è troppo stupida.
    adamo parla dunque e dice: – El!
    il dono, dice dante, il dono, condividi tu.
    poi dante fa un salto. si occupa della cronologia, dal primo idioma, dall’ebraico passa fino ai volgari del oc, dell’oil, del sì (ma questo ci interessa poco in questo contesto).
    solo che la parola rimane in bilico. la prima parola esprime un significato che il significante non può davvero esprimere, che “non conosce” (tu parli giustamente un’assenza, riferendoti però al processo di significazione), il “post-prima parola” rimane ovviamente inspiegabile (come spesso succede quando dalla metafisica si salta alla pratica): adesso bisogna trovare significati, significanti, un macello, capire come, in che modo.
    ma allora perché parliamo ancora di dono? perché non parliamo di fatica, di accordo, di creazione umana dolorosissima? la fatica dell’uomo nel tentativo di comprendersi, nella consapevolezza della parzialità di questa comprensione, nella volontà comunque di continuare (si spera) “nel conoscere e nel giudicare e nell’eleggere”?
    perché? che bello sarebbe stato se fosse stata “perché” la prima parola…

  11. Scusate, ma davvero faccio fatica a capire questo post. Non capisco se voglia essere una metafora della lingua letteraria, per cui ricorre agli esempi tratti da Dante e dalla Genesi per intendere sostanzialmente che la parola poetica si auto-attorce su se stessa, oppure se intenda trattare la lingua tout court. Nel primo caso, non metto bocca. Nel secondo, se mi permettete, vorrei solo ricordare che l’origine della lingua è un processo lungo e complesso, racchiudibile nella dialettica lavoro-mano-cervello-linguaggio. Questo, ovviamente, è ciò che pensa la scienza. Se poi volete stare ancora sulla Parola di Giovanni, liberi di farlo. Solo che così state parlando di Nulla. Di un Nulla con le sembianze della filosofia, ma sempre un ben riconoscibile Nulla. Ognun si diverte come può … In ogni caso, la prima parola del linguaggio umano non è stata “El” (che poi filologicamente vuol dire El-din-Don-dero), bensì – e senza ombra di dubbio: “Merdra!”.

    Ubu

  12. Molto semplicemente, il dono è il mero factum loquendi. L’esserci stesso del lògos. Il Verbo. Il resto (la mediazione, la mano) sta su un altro piano. Ho cercato di spiegarlo nelle auto-glosse che ho riportato qui sopra. In ogni caso, rimando alle prossime puntate per chiarire il senso complessivo del discorso… se avete pazienza…

  13. I testi biblici sono rivolti alle masse degli ingnoranti. Sono scritti in modo semplice e molto ripetitivo. Come altri testi affini, tipo Gilgamesh. Sono affascinanti, per questo. Ed è facile da essi trarre collegamenti e sovrapposizioni. Il testo biblico però non lo ha scritto Dio, nemmeno indirettamente. Quindi il motivo per cui Adamo pronuncia il nome di Dio è semplice anch’esso: la bibbia è una narrazione ad uso dei dementi e, come tale, deve nominare il protagonista assoluto, altrimenti perderebbe il suo vero scopo: glorificarlo. In realtà Dio non esiste e nemmeno Adamo. E la lingua è nata per sedimentazione di convenzioni fonetiche, diverse da un’area all’altra. Inoltre nel De vulgari Dante afferma che ogni essere umano può venire considerato una specie a sé. Da cui si ricava una potente metafora della comunicazione, sorprendentemente laica, della lingua come invenzione personale basata su convenzioni preesistenti. Senza tirare fuori divinità, doni divini o bacchette magiche. Spero che le mie osservazioni non feriscano il tuo fervore religioso, che rispetto ma non condivido.

    Ic.

  14. Iconclastar, ti dirò che, se proprio devo definirmi, mi definisco ateo. Se la cosa ti stupisce, almeno un po’, forse dovresti rivedere qualche tua pregiudizievole struttura mentale. Oppure andare avanti nella lettura di queste note sulla lingua…

  15. Come sempre a voi poubellicatori ( poubellication in francese ha due accezioni, di cui una non si cura che ( si) di resti) , fate dell’affastellamento acritico il vostro unico fasto. Come si fa a citare Derrida e poi berciare ( non con la suprema incuranza del creatore di concetti, no! con buona pace di Gillo, vagherai ancora per un bel pezzo da solo!) cum ( presunto) grano salis che la ” replicazione …è la ripetizione del sempre nuovo in quanto è in realtà l’Origine che si ripete” lasciando intendere che di Deleuze , di Heidegger, di Derrida si è letto solo il risvolto e non la pli. Ma poco male per un reading postiratura ciò è sufficiente

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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