Due punti e a capo

di Andrea Cortellessa 

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Pubblico con molto piacere un articolo di Andrea Cortellessa apparso sull’Indice dei libri del mese del 3 marzo 2006. Nell’articolo viene descritta una nuova iniziativa editoriale generata dall’intelligenza e dalla passione di alcuni ragazzi di Palermo, che suggerisco di seguire con attenzione. Grazie ad Andrea Cortellessa e in bocca al lupo ai ragazzi di :duepunti.

Nel tempo dell’editoria senza editori, per dirla col pamphlet di André Shiffrin col quale qualche anno fa il compianto Alfredo Salsano mise a rumore il quartierino della cultura italiana, il nascere e prendere forma d’un piccolo editore ‘di progetto’ – che preferisca, cioè, l’indispensabile ‘mangiare per vivere’ al compulsivo ‘vivere per mangiare’, e insomma pubblichi solo titoli che rientrino in una precisa linea culturale, prima che commerciale e di management – assurge ad evento inopinato, tra favoloso e teratologico, che merita d’essere ammirato come uno spettacolo naturale. Bello in sé, ma ancora più struggente per la sua sempre maggiore rarità.

Una cascata che sprizza arcobaleni, o un iridescente coleottero sul vetrino. Meglio ancora, accelerando un po’ il filmato, uno di quei documentari che ci mostrano il crescere di un germoglio, il suo prendere forza e vigore, il suo improvviso sbocciare corolla e petali.
L’accelerazione, per quanto mi riguarda, è dovuta al fatto che ho incontrato per caso, e dunque in ritardo, in libreria – per una volta non assediato, cioè, da quei comunicati stampa tutti uguali, come redatti in serie – quello che retrospettivamente mi vulnera, con pochi dubbi, come il miglior titolo pubblicato in Italia nell’ultimo biennio: le Lettere di guerra ad André Breton e ad altri surrealisti di Jacques Vaché, nella traduzione di Elena Paul e per le cure di Giuseppe Schifani (pp. 77, euro 6,00). Nella sua esiguità materiale il migliore, sì. Perché restituisce per iscritto una figura sinora goduta solo a livello mitobiografico (il surrealista più geniale, malgrado o proprio perché ‘non scrisse nulla’; e che passò alla storia – prima di morire a ventiquattro anni – per la performance alla première delle Mammelle di Tiresia di Apollinaire, nel ’17, quando s’arrampicò sulle poltrone della platea minacciando il pubblico con la pistola d’ordinanza); perché è realizzata con amorosa cura artigianale in ogni suo dettaglio grafico (la copertina e la controcopertina, ma anche i risvolti, riproducono gli umorosi autografi disegnati di Vaché) e redazionale (la traduzione restituisce appieno la sismica instabilità della scrittura e della stessa grafia – senza appunto lesinare, dove utile all’intelligenza della stessa, riproduzioni dell’autografo); ma, direi soprattutto, perché è perfetta la scelta di tempo con la quale è stata concepita e realizzata. Il “principio d’insubordinazione totale” (come lo definisce Schifani nella postfazione) incarnato da Vaché in piena Grande Guerra non si può certo leggere, nei tempi in cui viviamo, come un mero restauro erudito. Perché chi èditi un testo del passato dovrebbe sempre tenere d’occhio il suo potere d’azione, o rifrazione, che può esercitare sul presente. Come se dissotterrassimo una concrezione d’ambra: nei cui torbidi, e nei cui splendori, ci sorprendessimo a specchiarci in modo diverso.
Il recupero di Vaché è il numero due della collana, al momento unica, “Terrain vague” della, appunto neonata, casa editrice palermitana “:duepunti edizioni”. Che non si sappia bene come trascriverne il nome mi pare già promettente. Per un topo di biblioteca che si compiaccia di modernariato (ossìa dell’antichità del moderno – della sua vetusta ma rinvigorente inattualità), un nome del genere non può che richiamare il titolo bizzarrissimo di uno dei testi più bizzarri del Novecento, : riflessi di Aldo Palazzeschi, anno di grazia 1909. Oppure il modo in cui, da mezzo secolo, si concludono tutte le poesie di un palazzeschiano doc come Edoardo Sanguineti.
E a una inattuale modernità, in tempi di letteratura (se così insistiamo a definirla) usa-e-getta, è improntato anche l’impegnativo numero 3 della collana: Il verbale di Jean-Marie G. Le Clézio. Fossile del ’63 (trad. di Silvia Baroni e Francesca Belviso, pp. 313, euro 12,00), Il verbale è titolo noto, o famigerato, quanto da noi perfettamente indelibato. L’esordio di uno dei maggiori scrittori di oggi: ambizioso e, certo, assai legato al suo tempo. Ma si dà il caso che è proprio in quel tempo ominoso che la scrittura narrativa, sospesa fra l’estremo propagginarsi del moderno e le avvisaglie del tempo che al moderno tiene dietro, sperimentò appieno dinamiche e tematiche che certi pseudoautori d’oggidì restituiscono banalizzate, mirando solo a scandalizzare il pubblico dei talk show. Ogni riferimento alla carriera di Michel Houellebecq (il quale nulla sarebbe senza Le cose di Georges Perec, 1965, o appunto Il verbale) è puramente intenzionale.
Ma : duepunti non lavora solo sul passato. I titoli più recenti (annunciati per il 2006 sono un classico della ‘prima’ modernità europea, Friedrich Schiller, e un repêchage non meno perturbante di Vaché, Marcel Schwob; ma anche La logica del terrorismo di Michel Bounan), sono testi perfettamente contemporanei: l’inclassificabile Europeana. Breve storia del XX secolo del poligrafo cèco Patrik Ourednik (traduzione di Elena Paul, pp. 155, euro 12,00): torrenziale flusso d’incoscienza saggistico-diaristico di un’intelligenza sarcastica e strafottente che si picca di riscrivere il nostro immaginario collettivo con un gusto micidiale per il dettaglio fuorviante, il residuo e il margine, insomma il refuso che illumina d’assurdo quel gran libro artificialmente ordinato, e ingrigito, che chiamiamo Storia. Uno Žižek che scrive come Beckett.
Mentre alla migliore tradizione dell’acredine austriaca (da Thomas Bernhard a Michael Haneke passando per Elfriede Jelinek) appartiene il dramma Giuseppe e Maria di Peter Turrini (a cura di Michele Cometa, pp. 75, euro 9,00): ‘racconto di Natale’ che (anche qui non invano, in piena restaurazione ratzingeriana) affronta l’avvilente mercificazione della ricorrenza per poi “riuscire a costruire una scenografia di speranza […] in un modo laico ma intriso di spiritualità elementare”, scrive Cometa nella postfazione.
Proprio alla scuola palermitana di questo che è senza dubbio uno dei nostri saggisti più profondi e raffinati si deve ascrivere, credo, un  impulso decisivo all’intrapresa di Andrea L. Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale. Di Cometa è del resto il loro primo titolo, quel Visioni della fine. Apocalissi catastrofi estinzioni (pp. 125, euro 9,00) uscito alla fine del 2004 che, riproponendo una riflessione sul mito nella modernità all’autore non nuova, affronta con brillantezza un case study come il gran film conradiano di Francis F. Coppola, Apocalypse now (e anticipa le riflessioni antropologiche sull’idea di ‘fine’ di titoli più recenti, e più fortunati, come Crolli di Marco Belpoliti, Einaudi 2005, e Collasso di Jared Diamond, ed. orig. e trad. it., sempre da Einaudi, pure nel 2005). Cometa è un comparatista autentico, uno che vive nelle lingue e tra le lingue: esemplare raro di clerc che non tradisce. Non tradisce, per esempio, la sua intensa eppur problematica identità europea.
Scrivono infatti i tre di :duepunti, nel loro impeccabile catalogo-manifesto: “la linea guida è la cultura europea, considerata dal punto di vista della costituzione di un’identità nel segno del confronto tra matrici diverse […] nella direzione degli scambi europei, irriducibili a unità minime al di là delle loro relazioni costitutive, con un’attenzione particolare per la genealogia delle lingue e degli stili, la teoria e la pratica della traduzione, l’interazione culturale, la formazione di un immaginario europeo meticcio”. Viene in mente la riflessione sull’Europa di Etienne Balibar (L’Europa l’America la guerra, manifestolibri 2003). Per il filosofo oggi l’Europa è chiamata a mediare tra gli opposti fondamentalismi con attitudine non diversa da “quella del traduttore o del passatore (dunque del viaggiatore)”. E se ha una pur vaga speranza di farcela è proprio in quanto “non ha frontiere […] perché l’Europa stessa è una frontiera […], o più esattamente una sovrapposizione di frontiere, e dunque di relazioni tra le storie e le culture del mondo”. La sua è una “potenza […] essenzialmente relazionale” perché la sua identità s’è costruita – nel pieno di catastrofi come quella che ci ricorda Vaché – in forma di “elaborazione ‘negoziata’ di interessi comuni”.
Piace chiudere con le parole, ironiche ma serissime, con le quali si conclude Europeana di Ourednik: “nel 1989 un politologo americano inventò la teoria della fine della storia”, secondo la quale la democrazia liberale avrebbe condotto “ad una nuova era della storia dell’umanità e che allora la storia non avrebbe più avuto ragione di esistere. Ma molti non conoscevano questa teoria e continuavano a fare storia come se niente fosse”. E allora non si può che augurare ai ragazzi di Palermo la migliore continuazione: di questa storia.
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18 Commenti

  1. Dovrebbe testare i suoi autori in rete, come fa la Touchstone con il concorso bandito su Gather.com.

    Ma gli americani, si sa, amano il nuovo più di noi, che pure non ci andiamo leggeri. Eppure è tutto scritto, basta miscelare bene.

  2. E avere orecchio, memoria.
    Mi chiedo, c’è gente che ha orecchio, qui? Per non dire memoria?

    Questa mia malinconia solo apparentemente OT, nasce dalla relazione di Cortellessa su questi repêchages accoppiata al pezzo di Rovelli su Bataille. Fa bene Cortellessa a mettere in rilievo che chi èdita un testo del passato “dovrebbe sempre tenere d’occhio il suo potere d’azione, o rifrazione, che può esercitare sul presente”, ma l’onda per rifrangersi deve incontrare pur qualcosa, sul suo cammino.

  3. Come sempre Cortellessa è baroccamente prolisso (avete visto il libreria il suo “La fisica del senso” uscito mesi fa per Fazi), ma sempre acuto, chissà se anche lui riuscirà a sopravvivere nell’incartapecorito ambiente della critica italiana. Comunque ben vengano le nuove iniziative editoriali che puntano sulla qualità delle scelte e non sul clamore pubblicitario. Di :duepunti ho letto l’inclassificabile “Europeana. Storia del secolo xx” che con il suo modo ironico di raccontare le vicende, gli aneddoti e le perversioni del secolo scorso ha cambiato – con un pizzico i disincanto – il mio modo di leggere gli eventi.

  4. DuePunti dovrebbe leggersela Raimo, insieme a quei quattro scrittori pubblicizzati recentemente nel suo articolo, che rappresentano per lui il meglio del futuro della narrativa contemporanea.

  5. Anch’io ho letto solo “Europeana”. Ma una volta finito quel libretto ho ringraziato il cielo che qualcuno lo abbia tradotto in italiano e pubblicato. Bravi, ragazzi. Continuate così.

  6. “Europeana” mi fa pensare a una sorta di canto di guerra della civiltà europea con morte annessa e tanto di funerale. “Cortellessa” mi fa pensare a un’arma contundente priva di manico. “Rai-mo’” mi fa pensare a un nuovo programma di attualità della televisione di stato (ammesso che ne abbiamo uno, di stato) condotto da quindicenni celebrolesi, ma comunque mi fa pensare. “Manmouth”… non mi fa pensare.

  7. ecco uno che ha senso dell’umorismo. mi sentivo solo, ultimamente. grazie ciotta, torna presto e dammi man forte.
    manmouth fa pensare, però: a un mammut parlante. anzi no, scrivente.

  8. @manmouth
    …a te l’ultima parola su una questione che non intendevo sollevare in questi termini (l’ironia va gustata a freddo).

  9. Mi chiedevo piuttosto cosa rappresenta il logo :duepunti: (non capisco più dove devo mettere i “:”) si tratta di una creatura dal corpo scheletrico (lo scenario proposto da Luminamenti di una prossima “estinzione dell’editore” è quindi profetica. Tra l’altro ho visto su ibs che una delle prime loro pubblicazioni si intitola “Visioni della fine”: adoro chi sa scherzare con la morte… con la propria poi.

  10. ciotta, ritiro tutto. manchi di leggerezza, a leggere i tuoi ultimi commenti. il sarcasmo “pulito” deve volare, non precipitare nella fossa degli altri.

  11. Qualcuno ha notato che il primo libro della collana Terrain vague è stato Visioni della fine (apolcalissi, catastrofi, estinzioni), del comparatista M. Cometa. Confermo: ha ben visto una certa autoironia. Forse vi sembrerà ancora più equivoco il fatto che la presentazione si è tenuta nella sala dei concerti dell’Istituto dei Cechi di Palermo. Visioni, cecità, fine, inzio. Mentirei affermando che si sia voluto perseguire un piano preciso: s’è trattato di coincidenze, che ci piace registrare con discrezione. A proposito del logo della casa editrice (:duepunti lo scriviamo così, ma tutti lo trascrivono nelle maniere più fantasiose), nella parte superiore, e quasi invisibile, si trova il motto “intus legere” (legere dentro), mentre il pesce non è sezionato, è soltanto parzialmente radiografato (attraversato ed esposto alla nostra visione). L’ossessione per i pesci precede i nostri libri (cfr. http://www.duepunti.org). Concludendo, vorrei rassicurarvi su una cosa: il pesce sta benissimo, anche se intriso di “umor nero” (sic secondo Vaché).

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