Alcol

Jimmy Page photo by Mauro baldratidi Mauro Baldrati

Quel giorno che il dottor Cangiani – il direttore del centro di psicologia olistica dove lavorava mia moglie – mi telefonò, le mie giornate erano segnate dal ritmo lento dell’ozio. La disoccupazione mi abbracciava con le sue ali nere e ogni mattina mi alzavo dal letto con l’unico pensiero di uscire a passeggio col mio cane Orso.


Non stavo particolarmente male; se non vi è l’ansia del mantenimento, o della responsabilità di uno o più figli, si può tranquillamente mandare al diavolo il mondo con le sue regole e i suoi tempi e le sue richieste. Pensiamo a noi stessi, facciamo poltiglia dell’ansia, della paura.
Il dottor Cangiani disse che voleva propormi un lavoro molto particolare; un lavoro che, per la mia storia, per le mie esperienze, potevo svolgere al meglio. Anche per il mio tempo libero, disse, perché mi avrebbe impegnato per circa dodici ore al giorno per sette giorni alla settimana.
Mentre parlava la sua immagine mi danzava davanti agli occhi: sessant’anni, corpulento, col lunghissimo codino che scendeva lungo la schiena, impersonava come un’icona vivente la maschera dello “psicanalista selvaggio” di cui si mondaneggiava sulla pubblicistica pre-new age dell’epoca. Era una banalizzazione ovviamente, perché il dottor Cangiani aveva un piglio scientifico molto rigoroso, e inseguiva, da sempre, un’integrazione ideale tra mente, corpo, storia personale, situazione astrale ed energetica del soggetto-paziente.
Il dottor Cangiani disse che un paziente, un pittore, si era rivolto al centro per mettere a punto un programma di uscita dall’alcolismo, un problema antico e cronico che si portava dietro da vent’anni. Si era già sottoposto a due trattamenti completi di disintossicazione in una clinica specializzata, poi aveva frequentato gli alcolisti anonimi, ma era puntualmente ricaduto. Non voleva affrontare un terzo trattamento perché prevedeva un esito nuovamente negativo. Intendeva, invece, avere una figura al suo fianco, un assistente che lo affiancasse durante la giornata e lo seguisse in un percorso a scalare che, nel giro di quattro settimane, l’avrebbe portato all’astinenza completa. A quel punto la figura di supporto sarebbe diventata un controllore, un poliziotto che gli avrebbe impedito di ricadere in tentazione. Io sarei stato questa figura, perché avevo attraversato altri territori di autodistruzione, durante gli anni barbarici dell’Antimateria, delle ghigliottine, ed ero sopravvissuto. Io avevo la struttura, la robustezza, ma anche la sensibilità per gestire quella complessa transizione.
Ma, obiettai, io non avevo una preparazione psicologica, non ero in grado di affrontare una terapia.
“A quello ci pensiamo noi” disse il dottor Cangiani, “con sedute di psicoterapia. Tu devi essergli vicino come un’ombra, è questo che vuole. E’ molto deciso in proposito”.
“D’accordo” dissi, mentre continuavo a riflettere intensamente, “e la notte? Quando io non ci sarò? Chi ci dice che non si rimetterà a bere?”
“Ovvio che se non ha la volontà, ricadrà. Però mi sembra molto motivato. E poi ha orari rigidi: al mattino si alza alle sei e trenta, inizia a bere e va avanti fino a sera, verso le otto le nove, quando si corica. Ti aspetta alle sette e trenta per iniziare. Ma prima dovete fare conoscenza. Vi ho fissato un incontro per domani, qui al centro. Il programma a scalare è stato preparato da uno specialista della clinica che l’ha avuto in cura. Anche loro sono favorevoli all’esperimento”.
“Però ho il cane” dissi, nel tentativo estremo di trovare difficoltà e impedimenti che trasfigurassero le mie perplessità. “Orso mi segue sempre, non posso lasciarlo a casa”.
“Gliel’ho detto. Ma non è un problema, assicura. Afferma di amare gli animali. Dice quelle cose, che gli animali sono migliori degli uomini, quelle cose lì. Sarete in tre”.

Quando Alessandro Lentini entrò nella saletta d’attesa del centro io ero seduto comodamente sul divano, in attesa che terminasse la sua seduta col dottor Cangiani. Ascoltavo i rumori del traffico che rimbombavano sotto i portici bolognesi di Via Farini come in una gigantesca cassa armonica che enfatizzava, distorceva i suoni.
Vidi un uomo di circa cinquant’anni, elegantemente vestito con un cappotto spinato, pantaloni scuri, scarpe lucidissime, cravatta. I capelli, grigi e abbastanza lunghi, erano pettinati con cura, sembravano laccati. Mi alzai e gli porsi la mano, ma non trovai la sua. Mi lanciò un’occhiata che mi sembrò di sarcasmo, o di disprezzo; disse: “cosa ti alzi a fare? Sembravi così polleggiato lì sul quel divano, mezzo addormentato”.
Accusai il colpo. Restai in piedi, sorpreso da quell’atteggiamento così scostante: mi fissava con una sorta di ironia malevola, con un ghigno storto. Si sedette su una seggiola e disse, continuando a fissarmi con aria spavalda: “il dottor Cangiani dice che sei bravo. Dice che hai le palle. Ce le hai davvero le palle?”. Di nuovo non risposi. Avevo intuito che il suo ero un gioco al massacro, un’aggressione che avevo lo scopo, forse, di farmi rinunciare. Intanto anch’io lo osservavo: il viso era gonfio, e la pelle arrossata, sudaticcia. Anche gli occhi erano gonfi e arrossati. D’un tratto Alessandro Lentini sembrò avere un crollo, perché abbassò la testa e disse, con un tono di voce improvvisamente basso: “per seguire me devi averle davvero le palle. Io sono un caso disperato”. Poi rialzò la testa, mi indirizzò un nuovo ghigno di scherno e iniziò a raccontare la storia delle sue disintossicazioni in clinica, come gli avevano ripulito il sangue, come era ricaduto. Disse “non me ne frega più un accidente delle cliniche. Adesso voglio fare io. Però io sono un uomo di merda, lo so! Devo avere qualcuno che non mi molli neanche un istante, così che possa finalmente sputare su questa porcheria che mi sta portando alla cirrosi”. Disse che non voleva più avere nulla a che fare con “quei buoni a nulla di dottori”, che solo il dottor Cangiani era un grande, e mentre lo diceva alzava una mano con gesto solenne. Mi rivolse delle domande, cosa facevo, se me la sentivo, ma non ascoltava le mie risposte: sembrava che il suo unico interesse fosse ridere di me, burlarsi alle mie spalle. D’altro canto io ero uscito da me stesso: cercavo di capire la vera natura di questa sua malignità, osservavo la sua immagine così distinta, con quei vestiti di ottimo taglio, la cura meticolosa dei dettagli, che contrastava con la volgarità del suo comportamento.

Alessandro Lentini viveva in un paese alla periferia della città, in un quartiere di nuova edificazione, spazioso, con vaste aree verdi, sommerso dalla nebbia di fine novembre. Occupava un appartamento in affitto al primo piano di una palazzina di nuova costruzione, circondata da altre palazzine simili, quasi tutte disabitate.
Lo trovai seduto al grande tavolo del soggiorno, da dodici posti, con sedie massicce di legno scuro. L’alloggio, molto grande, era ordinato, anonimo, mal riscaldato.
Era, come il giorno prima, particolarmente curato nell’aspetto: pettinato con la lacca, rasato, indossava un maglione color mattone, una camicia azzurra e una cravatta blu. Eppure sembrava un’altra persona: non vi era traccia della sua tracotanza, lo sguardo era timido, quasi mite, con gli occhi che, durante la notte, sembravano avere preso una piega all’ingiù, come quando un attore vuole simulare uno stato d’animo di malinconia. Si alzò e mi porse la mano. Era fredda, contratta. La pelle del viso, pallida, tendente al grigio, metteva in risalto alcune chiazze violacee sulle guance e sulla fronte.
Mentre Orso ispezionava la stanza Alessandro Lentini diceva “che cane meraviglioso” e “che stella di cane”. Tutto in lui esprimeva delicatezza, attenzione e rispetto. Evidentemente l’effetto maligno dell’alcol era svanito durante la notte; l’Uomo Nero si era ritirato, ed ora emergeva una personalità incerta, che oscillava tra gentilezza e sofferenza. Perché i suoi occhi non mentivano: vi era una ferita aperta, dolorosa in quello sguardo. E una richiesta urgente: bisognava partire, subito.
Alessandro Lentini andò verso il frigorifero, camminando curvo, con le gambe rigide. L’aprì e prese una bottiglia di vino bianco frizzante piena per metà. Guardai dentro il frigo: era vuoto, a parte un’altra bottiglia ancora da aprire. Evidentemente non cucinava mai in quella casa. Stavo per chiederglielo, perché era necessario impostare la nostra convivenza anche da un punto di vista pratico, ma mi precedette. “Da quando vivo qua” disse, “e sono quasi due anni, non mi sono mai fatto da mangiare, neanche una volta”. Gli chiesi dove mangiava; disse che c’era un bar in paese dove alla sera prendeva un panino. Durante il giorno era in giro per la città a bere, dunque mangiucchiava salatini, qualche tartina.
Si versò un bicchiere di vino, che riempì fino all’orlo, e iniziò a sorseggiarlo. Ne assumeva quantità minime, disse, perché il vino frizzante, se bevuto in fretta, gli provocava un forte mal di stomaco, mentre quello fermo non lo reggeva, correva a vomitarlo. Per bere il contenuto del bicchiere, che rappresentava la sua prima colazione, impiegava circa trenta minuti. Intanto riprendeva colore, e si animava. Diventava espansivo, raccontava storie, aneddoti, faceva battute. Mi mostrò anche il suo lavoro: era un pittore specializzato in acquerelli ambientati in scenari Belle-Epoque, signore con grandi cappelli, signori col cilindro, locali tipo Moulin Rouge, angoli di città che evocavano Parigi, ma coi tipici portici bolognesi. Disse che era sommerso di richieste. I suoi quadri arredavano bar, ristoranti, uffici, sale d’attesa, e il giro era larghissimo, arrivava fino in Sud America. Alcune gallerie gli commissionavano i lavori, e ogni giorno, durante le nostre spedizioni in città, saremmo andati a trovare i galleristi.
Dopo il bicchiere dipingeva per circa due ore, il tempo che impiegava per produrre uno-due quadri. Poi, usciva. E qui iniziava il viaggio. Beveva tre aperitivi alla mattina e tre al pomeriggio, fino alla sette circa, quando tornava al paese, mangiava il panino, rientrava a si coricava.
Io dissi che avremmo introdotto alcune variazioni. La prima settimana avrebbe mantenuto il suo standard di aperitivi, come da programma, ma saremmo rientrati per pranzo. Avrei cucinato io, dopo avere fatto la spesa. Lui annuiva, diceva “certo”, ma era evidente la sua sorpresa, forse il suo disagio per quell’intervento che modificava le sue abitudini. Dalla seconda settimana la quantità di alcool sarebbe stata drasticamente ridotta, e non saremmo andati sempre in giro per i bar. Lui diceva “certo”, e affermava di essere d’accordo, anzi, di essere molto contento, perché avrebbe finalmente potuto dedicare il giusto tempo al lavoro. “Sai che con le richieste che ho potrei dipingere sempre?” disse. “Sai che potrei alzarmi al mattino, senza bere! E dipingere fino a notte?”

Alessandro Lentini nei bar era spettacolare. Si trovava nel suo elemento, interagiva alla perfezione con l’ambiente. Conosceva tutti i baristi del quartiere Saffi, e anche molti clienti. Entrava e aveva un modo tutto suo, elegante, disimpegnato, di ordinare l’aperitivo, che era un mix di liquori di varia gradazione, molto diffuso a Bologna, detto “aperitivo secco”. Iniziava a sorseggiarlo, sempre a sorsi minuscoli, e intanto scherzava col barista, si informava con discrezione dei fatti suoi, della famiglia, lanciava battute sullo sport, la televisione, la politica, argomenti di cui aveva conoscenze marginali, da bar appunto, eppure efficaci, perché le rielaborava facendone contenitori di battute o barzellette.
Finito il primo aperitivo si passava a un secondo bar. Di nuovo iniziava la sua performance brillante-disimpegnata, e se c’era qualche signora che conosceva la circondava di attenzioni garbate spiritose, che strappavano sorrisi e nuove battute, talvolta domande, piccole interviste.
I bar variavano, ma sempre all’interno del quartiere Saffi, il suo preferito. Per Alessandro Lentini era importante muoversi in un territorio a lui familiare, un mondo che percorreva a velocità elevata e da cui riceveva nutrimento e calore attraverso il veicolo dell’aperitivo secco. Il gesto di bere a piccoli sorsi, oltre che per i problemi di stomaco, era lo strumento che gli serviva per riempire il vuoto spazio-temporale di cui si circondava. Il tempo che passava al bar era un tempo vuoto, del tutto inutile. L’utilità era rappresentata dall’aperitivo secco.
Dopo il terzo aperitivo tornavamo a casa ed io cucinavo in genere una pasta al pomodoro, o col tonno, o con le verdure. Intanto la quantità di alcol ingerito stimolava la sua personalità maligna e faceva riemergere l’Uomo Nero. Cercava di trattenere la propria tracotanza e l’insolenza, ma si concedeva comunque qualche battuta: un giorno disse che stava pensando di assumermi a vita. Facevo anche le pulizie, e lavavo e stiravo? Gli feci notare con calma che no, non era quello il mio ruolo, come ben sapeva. Allora mi chiese scusa, disse che era sempre la solita “merda umana”. Io dissi che non era affatto così, che le sue battute malevole e insultanti erano state messe in conto. Lui ne fu colpito, restò a lungo in silenzio, e a un tratto disse: “tu sei un amico per me. Io, almeno ti sento tale. La cosa assurda, la cosa che proprio non mi va giù, è che per avere un amico io debba pagare”.
Fui colto in contropiede, era un’obiezione fortemente destabilizzante cui non seppi trovare una reazione adeguata. Quella sera ne parlai col dottor Cangiani, al telefono. Lui disse che era uno dei molti tentativi di intorbidire il nostro rapporto, e quindi la terapia. Io dovevo chiarire che non ero un amico. Io per lui ero una figura professionale. I ruoli erano importanti, e andavano rimarcati. Avrei potuto essere un amico, ma a terapia finita. Sarei stato l’amico che desiderava, ma fuori dall’alcol.
Quando glielo dissi, un giorno che ripeté la battuta, mi ascoltò in silenzio, a testa bassa, e poi disse: “sì, è così. Il fatto è che io non ho amici. Non ne ho mai avuti, e vorrei avere un amico come te”.

La sera era il momento critico. Arrivava a casa, dopo i tre aperitivi del pomeriggio, stremato. Camminava a fatica, parlava balbettando. Eppure, anche se era a pezzi, non rinunciava mai all’igiene personale: si lavava i denti, si pettinava – e si spruzzava davvero la lacca, ogni sera e ogni mattina – riponeva ordinatamente i vestiti, indossava il pigiama e si ficcava a letto, nella grande stanza matrimoniale, fredda, con la carta da parati e un gigantesco armadio di legno scuro.
Io allora tornavo a casa, dopo avere aspettato che si addormentasse – e dopo pochi minuti già lo sentivo russare – stanco, con la testa piena di immagini, di parole, di colori, e di domande, cui non sempre riuscivo a trovare una risposta.
E al mattino lo trovavo seduto al tavolo da dodici posti, pallido, con gli occhi piegati all’ingiù, con le spalle strette, raggricciato dal freddo.
Quando l’alcol iniziò a subire una drastica diminuzione, la terza settimana, che prevedeva, oltre al bicchiere di vino frizzante, un solo aperitivo nel pomeriggio, iniziai un programma di attività fisica. La mattina presto andavamo nel parco a correre. Avevo già notato le straordinaria proprietà terapeutiche della corsa, quando avevo assistito un amico durante il lungo down da eroina. L’iperventilazione e la velocità accelerata del sangue hanno, in certi casi, effetti simili a quelli delle morfine sintetiche o degli oppiacei. Il mio amico, dopo la doccia, diceva, beato: “è fantastico, mi sento benissimo, come se mi fossi appena fatto!”
Così, con Orso che ci trottava al fianco, correvamo per una ventina di minuti, cui seguiva un quarto d’ora di esercizi e una mezz’ora di camminata.
All’inizio Alessandro Lentini era in notevole difficoltà, si fermava a tossire e si copriva di un sudore denso, oleoso, ma la mia determinazione aveva la meglio e rispettavamo il programma, anche se la corsa era blanda, e gli esercizi leggeri.
Dopo la doccia si metteva a dipingere con energia e sempre diceva, con una sorta di entusiasmo: “ma lo sai? Ci vedo meglio. Non ricordavo questi colori, questa nitidezza. Lo sai che quella porcheria danneggia la vista?”. Sì, lo sapevo: l’alcol, come gli oppiacei, inibiscono le facoltà visive e la percezione dei colori, a differenza della marijuana, che invece le enfatizza. Forse si sarebbe potuto integrare la sua terapia proprio con la marijuana, ma sarebbe stata una mia scelta arbitraria, estranea al protocollo che stavamo seguendo. Non potevo introdurre una simile variabile perché anche le terapie più moderne, più aperte, non potevano accettare una procedura illegale; nessun terapeuta, per quanto avanzato come il dottor Cangiani, avrebbe mai fatto una scelta simile. Così, una sostanza anti-stupefacente di grande potenza non veniva utilizzata perché era contro la legge.

Vi era sempre la crisi mattutina, piuttosto grave, che si complicò con l’eliminazione anche del bicchiere di vino frizzante: alle sette e trenta lo trovavo pallido, rattrappito, con gli occhi vitrei. Aspettava me per la colazione – perché ora faceva una vera colazione – e quando gli chiedevo come stava la sua risposta era sempre la stessa: “non trovo un senso. Non c’è, non lo vedo. Per quale motivo devo smettere di bere? Non ho nulla, non ho nessuno. Cosa farò di me stesso senza bere? Perché devo smettere se la vita non ha alcun significato?”. Era una considerazione distruttiva, cui non sapevo trovare una risposta. D’altro canto, aveva detto il dottor Cangiani, non spettava a me trovarla. Alessandro Lentini aveva lavorato con cura, per anni, per farsi terra bruciata intorno. Lui solo poteva trovare un motivo per ricolonizzare questa terra.
Altre crisi, altre depressioni più meno gravi si alternavano durante i giorni di astinenza totale. Una volta, all’uscita da un cinema – perché andavamo al cinema almeno una volta alla settimana – mi chiese: “mi vedi?”. Lo guardai stupito. “Sì, perché?” Lui sembrava sfinito, camminava storto, con la schiena curva. “Mi sento trasparente” disse.
Però il suo stato psicofisico migliorava sensibilmente. Acquistava peso, colore, tono muscolare. Col passare dei giorni mi metteva anche al corrente delle sue vicende personali, del suo passato. Mi mostrò le foto del suo periodo militare, quando era sergente maggiore dei paracadutisti. “Uno sporco firmaiolo” dicevo, per prenderlo in giro.
Ebbi altre informazioni su di lui anche da una signora che mi avvicinò una sera in cui stavo salendo in macchina per tornare a casa. Si qualificò come la sua padrona di casa e disse: “scusi, non per farmi gli affari degli altri ma volevo chiederle: lei si è trasferito dal signor Lentini? La vedo qua ogni giorno…” Si sfregava le mani e pestava piedi, forse non solo per il freddo. “No” dissi. “Lo sto aiutando nel suo lavoro di pittore. Ha molti arretrati, e sta preparando alcune mostre. Dobbiamo catalogare le opere, scrivere le schede, un lavoro lungo”. Lei sembrò colpita dalle mie parole. Disse “Ah”. Poi guardò in direzione delle finestre dell’appartamento e disse: “sa, da quando c’è lei è molto migliorato. Tempo fa sembrava che… non stesse bene, ecco. Una volta, qualche giorno prima del suo arrivo – io abito là, vede?” e mi indicò una casa al di là della strada, una delle poche con le persiano aperte, “l’abbiamo trovato sulla porta di casa, svenuto. Era in una pozza di vomito”. Non commentai. La cosa non mi stupiva, visto lo stato in cui era ridotto alla sera. “Se lei avesse sentito la puzza!” esclamò la signora.”Una puzza di liquore incredibile. Secondo me era ubriaco fradicio”. Allargai le braccia. Non volevo parlare di quell’argomento con lei. Cercai un pretesto per troncare la conversazione. “Signora, capita a tutti di alzare il gomito, ogni tanto” dissi, e feci per aprire la portiera della machina. “Ogni tanto?” disse la signora, che non intendeva mollarmi. “Certo che il signor Lentini è… particolare, sa? Io conosco bene la sorella. E’ stata lei a chiedermi di affittargli la casa. Ho accettato solo perché era lei, altrimenti non l’avrei certo affittata. Sa, oggi con gli inquilini non si sa mai…” Ecco, la solita padrona di case bolognese dal cuore d’oro. Alessandro Lentini pagava, nel 1993, 1.400.000 £ di affitto, in nero. “La sorella mi ha detto che…” continuò la donna, “… ma prima bisogna sapere che i Lentini sono di famiglia ricca. Il loro papà aveva dei bar, e anche un albergo. Bene, lui ha sperperato 280.000.000 in tre anni. Sa come li ha spesi? La sorella ne è ancora sconvolta e ha detto che non vuole mai più sentire parlare di lui: tutti in… prostitute. Ne vedevamo arrivare due alla volta, anche tre, quasi sempre dell’America Latina, oppure orientali, anche qualche negra. Si sentivano delle risate, della musica, e spesso quelle andavano via la mattina dopo. Mi venne in mente una frase di Alessandro Lentini, un giorno che ero in piedi di fianco al televisore con un libro in mano: “lo sai” disse, “che nel punto dove ora sei tu tre mesi fa c’erano due brasiliane che facevano uno spogliarello tutto per me?” e rovesciò indietro la testa ridendo.
Riuscii a disimpegnarmi dalla signora e tornai a casa. In macchina immagini, suoni, si accavallavano nella mia mente. Alessandro Lentini parlava, sprofondava nel vuoto, rideva, in un caos sonoro e visuale denso e oscuro, al di là del quale non riuscivo a vedere nulla.

Poi, vi fu un imprevisto.
Orso iniziò a stare male. Da tempo avevo notato che inghiottiva con difficoltà, come se avesse mal di gola. Ma una mattina, e nel programma eravamo alla sesta settimana di astinenza totale da alcol, vomitò il cibo mentre stava mangiando. E anche l’acqua. Cercava di bere ma vomitava immediatamente. Lo accarezzai, lo palpai, e sotto il folto pelo di pastore alsaziano notai che era insolitamente magro. “Ma cos’ha, povera stella?” disse Alessandro Lentini, che era molto affezionato a Orso. Io non capivo. Il veterinario l’aveva visto qualche giorno prima dell’avvio del programma, senza trovare nulla. Volevo farlo visitare, ma gli dissi di non preoccuparsi: quella mattina eravamo rimasti a casa perché lui doveva terminare alcuni quadri che doveva consegnare il pomeriggio; avrei chiamato il suo veterinario a casa, che al mattino era sempre in giro per visite.
Il dottore arrivò verso le undici. Lo auscultò, misurò la temperatura, gli guardò le pupille e scosse la testa. “Non capisco” disse. “Non vedo nulla di particolare. E’ disidratato, come se non bevesse da giorni. Per ora gli diamo queste pillole, semplici vitamine, e gli faccio un’iniezione di anti-infiammatorio. Se il problema persiste mi chiami subito, che lo ricoveriamo in clinica per accertamenti”.
La situazione si complicò subito dopo pranzo. Orso cercò nuovamente di bere, vomitò, e d’un tratto si accasciò. Si stese sul pavimento, appoggiò la testa e iniziò ad ansimare. “Ma che diavolo succede?” esclamai. Alessandro Lentini sembrava turbato, ma anche nervoso. Continuava a misurare la stanza a grandi passi e ad esclamare: “oh, povera stella!”. Telefonai al veterinario, disse di portarlo immediatamente. Non poteva mandare la macchina della clinica, disse, perché era fuori, e lui era di guardia, da solo. “Alessandro” dissi, “dobbiamo portare Orso in clinica”. Lui mi guardò con gli occhi sgranati. “Adesso? Non è possibile. Dobbiamo andare dal gallerista coi quadri”. Era vero, c’era l’appuntamento per la consegna, alle tre, ed erano le due e un quarto. “Alessandro, vedi com’è ridotto. Non ci mettiamo molto, lo ricoverano subito. Telefona al gallerista, digli che tardiamo mezz’ora, massimo un’ora”. Questo cambio di programma sembrò causargli una forte eccitazione nervosa. “Ma non si può!” esclamò. “Rigoni è stato chiaro, aspetta i miei quadri, che deve consegnare subito a un gallerista di Reggio Emilia. Mi ha pregato di essere puntuale”. Intanto Orso aveva iniziato a gemere. Sentii montare in me un sentimento di rabbia, misto a disperazione. “Alessandro, cercherò di fare presto, ma devo portarlo. Andiamo subito”. Lui gesticolava, gli usciva una voce rauca, strozzata. “Facciamo così” disse, accucciandosi accanto a Orso. “La situazione è di emergenza, e dobbiamo agire di conseguenza. Tu porti Orso in clinica, io vado alla galleria in taxi e ti aspetto là”. Analizzai con rapidità, ma anche col massimo d’intensità, la proposta. Forse in me si era già configurata, ma non era accettabile. Non era ancora il momento per una prova di distacco, era un passo che doveva essere discusso col dottor Cangiani. “Alessandro, non si può fare. Per una iniziativa come questa bisogna prima passare dal dottor Cangiani”. Lui si alzò di scatto in piedi. “Sì, ma non abbiamo tempo! Con Rigoni ho già un ritardo enorme, ho delle scadenze, capisci? E poi, prima o poi dovremo provare, no? Si tratta di un’ora e mezzo. Non mi muoverò dalla galleria, ci sono dei bellissimi libri d’arte.” La mia mente lavorava furiosamente in due direzioni: da un lato respingeva la proposta, perché era una forzatura pericolosa, uno strappo a un programma elaborato e sviluppato con grandi sacrifici; dall’altro sapevo di non avere alternative. Continuai a protestare, e tentai, ma senza riuscirvi, di agire d’autorità, strappandolo ai suoi impegni, costringendolo e seguirmi; ma i lamenti di Orso, e le sue assicurazioni che tutto sarebbe andato bene, perché lui per primo non aveva intenzione di mandare alla malora tutto il lavoro svolto, ebbero la meglio. Sollevai Orso di peso e lo caricai in macchina, mentre Alessandro Lentini telefonava alla stazione dei taxi.

Non fui sorpreso quando, alle 16.30, trovai il gallerista seduto al suo tavolo intento a leggere il giornale. Gli chiesi subito di Alessandro Lentini. Disse che era appena arrivato, aveva lasciato i quadri – e indicò lo scatolone che avevamo preparato quella mattina – ed era andato via da una decina di minuti. “Ma non avevate appuntamento alle tre?” chiesi, mentre mi sembrava di seguire la sequenza di un copione già scritto. “Oh” disse il gallerista, “no, non era così tassativo. Eravamo d’accordo che me l’avrebbe portato entro sera”. Stavo per precipitarmi fuori quando le sue parole mi fermarono sulla soglia. “Sa una cosa?” disse il gallerista. “Conosco Alessandro da molti anni. Da quando c’è lei – ed io non so, e non voglio neanche sapere il vero motivo della sua presenza – lui è cambiato. E’ diventato più… tranquillo, più gentile. Beh, oggi sembrava tornato quello di una volta: parlava a voce alta, mi prendeva in giro, insomma, il vecchio, solito Alessandro”.
Schizzai fuori e corsi al Saffi. Lo trovai al terzo tentativo, seduto al bancone di un bar, con l’aperitivo secco. Appena mi vide alzò le braccia e mi apostrofò. “Ohhh! Eccolo! Ce ne hai messo di tempo ad arrivare!” Mi avvicinai al banco, mentre lui continuava a lanciare battute al barista, che rispondeva con la curiosità distratta tipica di tutti i baristi. Poi si rabbuiò di colpo e chiese: “come sta Orso?”. Dissi che avevano già iniziato a sottoporlo a reidratazione e accertamenti. “Spero che vada tutto bene” disse serio, e bevve un sorso di liquore, “è un cane fantastico”. Poi si rianimò, disse che era meglio del padrone, e così via. “Alessandro” dissi, brusco, “adesso vieni via con me, subito”. Lui mi guardò, scoppiò in una risata, che sentii tesa, forzata. “Co-osa?” esclamò, “ti sei proprio convinto di essere il mio tutore, eh? Non ci penso nemmeno, caro mio, anzi, fermati qua, che ti offro da bere”. Mi sentii avvampare. Ti offro da bere era chiaramente un insulto. In una frazione di secondo rividi le giornate dure di depressione, di malessere, di mal di testa e di stomaco e dolori muscolari; di colpo afferrai il bicchiere e versai il contenuto nel lavandino, sotto gli occhi allarmati del barista. Alessandro Lentini rimase di stucco, impiegò qualche secondo per riprendersi dalla sorpresa. “Ma che fai?” disse, furibondo. “Non ti permettere… sparisci immediatamente, lasciami in pace!”. Mi rivolsi al barista: “non dia più da bere a quest’uomo. Sta seguendo un trattamento di disintossicazione, bere gli fa molto male. Ha capito?” Il barista allargò le braccia, disse “ma io però…”
In quel momento Alessandro Lentini si alzò dallo sgabello e uscì dal locale. Lo seguii, camminando veloce alle sue spalle. Agivo d’istinto, spinto da una decisione immediata ed arbitraria. Pensavo – forse speravo – che non tutto era perduto, che potevamo riprendere il programma, che si era trattato solo di una ricaduta. Lui cercava di seminarmi, mi apostrofava con insulti, mi intimava di lasciarlo in pace. Entrò in un bar, e io dietro. Ordinò gridando un aperitivo secco, ed io di nuovo invitai lo sbalordito barista a non servirgli da bere. Lui nuovamente mi insultò, mi minaccio. Uscimmo, trovò un taxi libero, salì a bordo. Io dissi all’autista di non partire, mi qualificai come assistente medico, dissi che quell’uomo era in cura presso un centro specializzato ed era in atto una crisi. Alessandro Lentini uscì dal taxi, mi maledisse, urlò che mi avrebbe denunciato. Poi si fermò, divaricò le gambe e disse: “stammi lontano, testa di cazzo, o prenderò provvedimenti. Nell’esercito ero istruttore di difesa personale, so dove colpire” e proiettò in avanti il braccio destro, con la mano in posizione di taglio. Per un attimo, guardandolo negli occhi, temetti che mi avrebbe davvero attaccato. “Bene” dissi, “io invece ho fatto pugilato” ed era vero: da ragazzo avevo sostenuto anche degli incontri; non continuai perché sapevo che, prima o poi, l’allenatore mi avrebbe rotto il naso. “Vediamo come va a finire” e assunsi la postura da combattimento. Restammo a lungo in piedi l’uno di fronte all’altro, immobili, coi passanti che si giravano a guardarci. “Sei proprio uno stronzo” ringhiò infine, e riprese a camminare con passo sostenuto, quasi di corsa.
Andammo avanti per tutto il pomeriggio, fino alle sette. Tentò nuovamente di entrare nei bar, ma non lo mollai un istante, dissi a tutti i baristi di non servirgli da bere. A un certo punto si fermò vicino a un taxi, e sembrò accasciarsi, come schiacciato da una stanchezza estrema. “Mi hai sputtanato di fronte a tutti i baristi” disse, ma non c’era traccia di rancore nella sua voce, “gente che conosco da anni”. Guardava a terra, con le spalle curve. “Alessandro” dissi, “hai avuto una ricaduta, ma si può rimediare. Torniamo a casa ora”. Lui non alzò lo sguardo, aprì la portiera del taxi e salì a bordo. “Sì, torniamo a casa” disse, mentre prendevo posto al suo fianco, “ma tu non ti farai mai più vedere, mai più. Se osi introdurti in casa mia chiamo la polizia e ti denuncio per violazione di domicilio.”

Appena arrivai a casa, dopo una visita a Orso – era in una gabbia, sotto sedativi con una flebo – mi precipitai a telefonare al dottor Cangiani, tra lo sconcerto di mia moglie. Sapeva tutto, Alessandro Lentini gli aveva appena telefonato. “Avete fallito, entrambi” disse, e le sue parole mi provocarono una stretta al cuore. “Tu per cause di forza maggiore, lui per volontà, credo con premeditazione. Adesso vuole interrompere la terapia, tutta la terapia, comprese le sedute”. Gli dissi che mi sentivo responsabile per ciò che era avvenuto, perché non ero riuscito ad agire con sufficiente autorità. “Sì, però il danno sarebbe stato tale in caso di una ricaduta. In realtà lui voleva uscire dalla terapia. La malattia del tuo cane è stato l’elemento scatenante, il pretesto. Ha visto la tua figura, che aveva indubbie caratteristiche autoritarie, indebolirsi, perdere consistenza, e ne ha immediatamente approfittato”. Fece una pausa, lo sentivo respirare accanto alla cornetta. “Anch’io ho fallito” disse. “Dovevo capire, in seduta, che voleva mandare tutto all’aria. Invece sembrava motivato, da quel grande commediante che è. Eppure mi forniva degli indizi, ma l’ho capito dopo”. Già, gli indizi; anche a me ne aveva fornito uno: aveva detto che il gallerista lo aspettava per portare i quadri a Reggio Emilia, poi che lui mi avrebbe aspettato in galleria. Ma entrambi sapevamo che il gallerista non aveva segretarie né collaboratori, quindi avrebbe chiuso la galleria. Non poteva aspettarmi là. “Ci ha fregati, tu, io, e se stesso” disse il dottor Cangiani. “E adesso cosa succederà?” chiesi. Il dottor Cangiani fece un’altra pausa. “Ha detto che vuole riprendere, ma più avanti. Evidentemente vuole strafarsi di alcol, recuperare il tempo perduto. Ha detto che intende sottoporsi a un terzo trattamento di disintossicazione, e quando uscirà, già in astinenza totale, chiederti nuovamente di affiancarlo. Perché ha detto che ha piena fiducia in te. La cosa è possibile, ma deve venire da lui, unicamente da lui”.

Non ho mai più avuto notizie di una nuova terapia, ma ho rivisto Alessandro Lentini in varie occasioni, quando sono capitato nel quartiere Saffi. Seduto nei soliti bar, mi salutava con la sua cordialità sopra le righe, ma senza apostrofarmi con epiteti o frasi strafottenti. Sembrava avere cambiato atteggiamento, anche se l’Uomo Nero era in piena espansione, essendo tornato ai suoi vecchi ritmi con gli aperitivi.
Al primo incontro, due mesi dopo quel pomeriggio disastroso, mi chiese subito di Orso. Dissi che gli avevano diagnosticato una malattia molto grave e rara, il “megaesofago”, una ipertrofia incurabile del tubo digerente che gli impediva anche di respirare. Ero stato costretto a farlo sopprimere per eutanasia. Per un istante rividi me stesso accanto al suo cadavere, spezzato in un pianto dirotto, mentre il veterinario imbarazzato mi batteva sulle spalle e diceva “coraggio”. Alessandro Lentini fu molto colpito da quell’epilogo, sembrava enormemente addolorato. Si accasciò sul bancone del bar e non pronunciò più una sola parola.
Mi chiesi, utilizzando il modulo di pensiero analitico degli psicologi, se non si fosse identificato con Orso, e vedesse nella sua fine, la sua fine.

(Nella foto: Jimmy Page dei Led Zeppelin)

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38 Commenti

  1. Bel racconto, scritto molto bene.
    Freddo come un referto clinico, appunto, nelle parole dell’io narrante.
    Caldo (anche se disperato), invece, nella rappresentazione del pittore.
    Complimenti !

  2. Era da anni che non leggevo un racconto così toccante, e lo dico col cuore!
    Narra un tema delicato e reale intriso di spunti psicologici.
    La solitudine che porta all’alcool per mancanza d’amore, la difficoltà nel trovare un’identità nell'”anonimità”della società.
    è facile riconoscersi nella frase: “si è così, io non ho amici.Non ne ho mai avuti, e vorrei avere un amico come te”.
    …e poi i dialoghi, così magistralmente dipanati tra i vari episodi!
    e la tenerezza di quel cane, che somatizza la sofferenza dell'”amico” del padrone, perchè per gli animali è naturale questo istinto, questo amore, questa generosità senza prezzo!
    e l’uomo ha ancora tanto da imparare da loro!
    Grazie per questo messaggio di amore.
    grazie a Mauro Baldrati.

    un caro saluto
    carla

  3. Ho ingrandito la fotografia di Jimmy Page, le foto di Mauro mi colpiscono sempre.

    Leggendo il racconto mi balza di fronte un conoscente, mondano, brillante, fotografo e cameraman di moda, ex delinquente e balordo, alcolizzato di pelle fine, rosa e gonfia, voce impastata. Stessa età, stessa la conversazione spicciola automatica col giusto tasso nel sangue.

    L’astuzia delle dipendenze, il macchiavellico e inconscio lavorio furbo per cercare e allargare le fessure nel muro della cura. L’uomo nero che convive sempre con l’uomo vero, e con lucida intelligenza pianifica l’evasione.

  4. A me è piaciuto molto il fatto che, nonostante il racconto sia straziante, di una sofferenza che strappa la pelle, Mauro sia riuscito a renderlo in maniera sobria, senza una sbavatura, e per questo ancora più efficace. Una prova davvero grande, complimenti di cuore

  5. ormai è chiaro, iannozzi, non si scappa, delle due l’una: o tu non leggi mai quello che commenti, o non capisci una mazza di letteratura. vedi un po’ in quale delle due ti trovi meglio.

    somigli vagamente a uno che, per criticare un testo poetico, ha detto che gli manca il sentiment. venite dalla stessa scuola critica, immagino.

  6. @ ROBIVECCHI

    Sì, confermo: stessa scuola critica.
    Rimane che è senz’anima. Non è che sia un racconto cinico, difatti non c’è traccia di eudemonia: è semplicemente un racconto ben scritto, ma privo di afflato umano – o divino. La puzza dell’alcol, spiacente, ma non si sente.

  7. Ehi Joe (che saresti tu, Jannozzi)..
    personalmente posso concordare con la tua opinione anche se, ripeto, a me il racconto è piaciuto.
    Diciamo che è un tipo di scrittura controllato.
    E’ che hai ‘sto modo molto ‘blunt’ (direbbero gli inglesi, brusco, spiccio) di dire le tue cose…:o)
    Ognuno ha il suo stile, immagino.

  8. Il racconto mi è piaciuto molto. La bravura dell’autore sta anche nell’aver tenuto sotto controllo una possibile (e facile) propensione ad accentuare determinati toni (l’anima? basta però spiegare a cosa si allude con questo termine), cosa che avrebbe dato al testo ben altri (stucchevoli, in quel caso) sbocchi.

    Quanto alla puzza di alcol, uno può benissimo versarsene una bottiglia addosso e poi annusarsi.

    Concordo con le due ipotesi del rigattiere. E non avrei nessun dubbio su quale votare, qualora la redazione istituisse un referendum come quello presente in bacheca.

  9. è un controllo “misurato” quello di Mauro, non per questo privo di autenticità!
    Io credo che compito dello scrittore non sia tanto mostrarci l’Anima del racconto, quanto il farci intravedere la sua Luce.

    Adesso vado a farmi una “sana corsa” lungo la strada per Oro…

  10. @ BARBARA

    Sì, ognuno al suo stile: questo è senz’anima. Una canzone, com’è che fa?, bella senz’anima…? Mi pare fosse Cocciante a cantarla, con un sentimento da farti la pelle d’oca. Il racconto di Mauro non dico che non sia scritto bene, anzi: però gli manca l’anima. E’ eccitante quanto leggere il referto medico d’un oncologo dove spiega che Tizio è morto… ecc. ecc.
    Un esercizio tecnico, di sola tecnica grammaticale, riuscito bene.

  11. Ci vuole l’anima perché un racconto, un romanzo, prenda il lettore: la tecnica è solo “una metà”, per così dire, del bagaglio che occorre a chi anela a scrivere bene. E un bagaglio a metà è inutile se non si sa completarlo.

  12. Sì, era Cocciante, che cantava anche ‘Quando Finisce Un amore’, e pure quella è un brivido continuo.

  13. Secondo me, saper “leggere” (un testo poetico, un racconto, un romanzo) è un esercizio più difficile, o non meno impegnativo, dello scrivere.

    Quindi, caro Iannozzi, dedicati anima e corpo alla scrittura. Prima o poi avremo modo di leggere i tuoi capolavori, pieni di anima (sic!) e di “sentiment”. Sono sicuro che ti riuscirà più facile della lettura.

    Amen.

    p.s.

    @ il robivecchi

    Mi dispiace contraddirti, ma due opzioni sono troppe. Una basta e avanza.

  14. “Quelli che parlano di ‘cuore mio’ e ‘anima mia’ si rendano conto di dire cose sconce e indecenti”.
    Italo Calvino, “I libri degli altri”

    (cito a memoria, quindi non sono sicuro che la lettera sia corretta: ma il senso era quello).

  15. PS: tanto per essere bruschi. “Bella senz’anima” è immondizia musicale. Pura e semplice.

  16. Calvino, usando un metro lombrosiano, era piuttosto partorito nell’idiosincrasia. E credo che se avesse avuto modo, ad esempio, di leggere Cohen l’avrebbe rifiutato. Non lo chiamo in causa spesso, anzi quasi mai: per le sue idiosincrasie – che non ho mai sopportato -, e perché non lo ritengo così grande come una certa critica lo dice.

  17. A mio modesto avviso, le idiosincrasie di Calvino sono innegabili, la sua grandezza di scrittore altrettanto. Ma “quot capita tot sententia”, dicevano i latini. Io, da parte mia, non uso quasi mai la parola “anima”, proprio perché mi fa venire in mente le strida scimmiesche di Cocciante (a proposito di sopravvalutati, come non citare il suo osannatissimo e ridicolissimo Notre-Dame de Paris?).
    Tornando al racconto in questione, tutto mi sembra fuorché freddo: ci vedo anzi una profonda sofferenza, tanto più efficace in quanto espressa in uno stile trattenuto, che lascia indovinare più di quanto dica.

  18. concordo, sergio. se una scrittura non lascia ‘margini’ all’intervento del lettore, quale altra finalità, a prescindere da questa, potrebbe ‘ipotizzare’ e perseguire?

  19. Gran bel racconto, Baldrati,
    teso secco pulito e intenso,
    ti dico che ho apprezzato la nettezza
    e la lucidità nei sentimenti
    e la precisione nel far sentire il tempo:
    la cosiddetta “anima” io qui la trovo proprio
    in questa sensibilità contenuta, una sorta di riserbo,
    addatta al portagonista narrante.
    E dire che l’avevo iniziato scettico e di malavoglia.
    Bravo davvero.

    MarioB.

  20. Non c’entra una mazza ma se il passaparola ha un senso (tantopiù in posti come questo), dal momento che è fuori dai giri che contano ed è sublime, ecco il mio modesto contributo:

    Grizzly Man, di W. Herzog.

    Andatevelo a vedere.

    Quell’uomo è ancora in grado di esprimere una grandezza, una intensità, una forza che deve darci speranza.

  21. E’ davvero un racconto difficile, bello, molto bello, e difficile. Per me certo. Scritto in un modo limpido quasi bidimensionale che ha messo anche me, lettrice, nella possibilità di scegliere. Una doppia scelta col testo.
    Non ha ricami, dà i punti che bastano, per scoprire i personaggi, e per scoprire anche noi.

  22. Come dice giustamente Gianni Biondillo, “quelli di Mauro non sembrano racconti, ma vita vissuta”. Sembrano, proprio così, ma sarà vero? Il lettore non lo saprà mai e l’autore non ce lo dirà mai. Scommettiamo?
    Il vizio dell’alcol è una passione fredda ed anche la scrittura dell’alcol è una passione fredda. Poteva essere diversamente? non credo. Anche se la cosa mi sembra così intrigante, così tranquillizzante… Il racconto è molto bello ed è pure scritto molto bene. Se questa passione fosse stata più appassionata e magari anche un po’ più freddina, dai retta a me che sarebbe stato meglio.

  23. Alcuni di voi mi hanno ringraziato per il racconto, ma sono io che ringrazio tutti per i commenti e la lettura, che ho trovato acuta e precisa. A questo proposito voglio postare anch’io un commento, una osservazione che mi è sorta rileggendo il mio stesso racconto (non è retorica facile, non è mimetismo o altro, davvero ho scoperto delle cose rileggendolo). Il narratore è una figura tecnica, professionale, che deve mantenere un distacco col personaggio che è chiamato ad assistere. Non potrebbe svolgere il suo incarico senza questo distacco. A un certo punto avviene la crisi: quali sono le modalità? quando accade? Durante un forte sbocco emotivo, per la malattia del suo cane. Improvvisamente diventa vulnerabile, indifeso, e ne approfitta l’entità distruttiva per insinuarsi. La scrittura letteraria, molto più di quella giornalistica, è fatta di segmenti: vi sono innumerevoli enunciazioni, dietro le quali spesso si nascondono i veri enunciati. In questo periodo sto leggendo “Disperazione” di Nabokov, che è un piccolo manuale di scrittura per segmenti: il narratore si presenta come tale, cioè “iosonoilnarratoreemenevanto”; si atteggia a cinico, lezioso, a grand’uomo: “Si dovrà riconoscere che esercito un controllo mirabile non solo su me stesso ma anche sul mio stile di scrittura”; eppure vi è un secondo segmento, che non appare in superficie, nel testo scritto, che dice – per chi è disposto ad ascoltare – che in realtà sta sbagliando tutto, che i suoi piedi sono di argilla, che è debole, che il suo progetto nasce male e tutto andrà a rotoli. Eppure il segmento superficiale è di spavalderia, di civetteria. Vi è quindi anche una varietà di segmenti nella lettura, e la nostra capacità di transitare da un segmento a un altro spesso dipende – ed è facilitata oppure limitata – dal nostro rapporto coi personaggi, lo stile, e dai codici che, dentro di noi, si collegano coi codici del testo.

    Un abbraccio a tutti.

  24. Grazie, Mauro.
    Il commento al tuo racconto è stato la mia ‘prima volta’ (!), e credevo di averla buttata di fuori..e invece…un codice di collegamento con il tuo l’ho trovato..:o)
    Aspetto il prossimo racconto.

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