Le Muse mortali

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di Linnio Accorroni

Le gambe di Madeleine Zeffa Biver erano bellissime, sicuramente più di quelle di Dora Markus: nella foto in bianco e nero che, nel Corriere della sera di sabato scorso, correda l’articolo sulla sua scomparsa la vediamo incedere voluttuosamente e sbarazzina per strada. Indossa una maglia bianca a maniche lunghe, un paio di calzoncini scuri ed attillatissimi, scarpe bianche e basse: è elegante senza affettazione, né istrionismo alcuno, di quella eleganza che solo la semplicità pura consente.

 

L’affusolata silhouette è accentuata dal suo passo disinvolto, dalla fascia bianca in testa, dal braccio piegato che regge sbarazzino una di quelle borse di vimini e giunco che andavano di moda, più o meno, 50 anni fa. La didascalia dice che siamo in una strada di Parigi, ma il suo brio, la sua allure, quella gioia di vivere incastonata in tanta felicità corporea farebbe più pensare ad una località marina turistica, di quelle che andavano di moda negli anni ’60, che so io, Cadaques o Antibes: una bellissima, fresca giornata d’estate, l’aria salina e l’odore di salmastro attorno, quella donna bellissima che cammina per la strada, l’eccitazione smaniosa delle onde che fra poco, grate, accoglieranno e benediranno quel corpo.
Madeliene Zeffa Biver, militante pro-eutanasia, è morta qualche giorno fa a 69 anni, nella sua casa di Alicante, in Spagna, di fronte al mare; colpita dalla sclerosi laterale amiotrofica che, nel giro di pochi mesi, avrebbe provocato la paralisi progressiva di tutto il suo corpo, la degenza forzata in un lettino, la privazione di ogni forma di libertà e dignità personale. Nella stessa pagina del giornale, qualche centimetro sotto la foto in bianco e nero che la immortala trionfante e splendida, un’ altra, a colori, la ritrae qualche giorno prima della morte volontaria: il suo corpo deforme è abbandonato scompostamente su di un’enorme sedia a rotelle, fissa il vuoto, indossa un paio di enormi occhiali, pochi capelli in testa. Sembra Marguerite Duras, vecchia ed alcolizzata.
Madeleine Zeffa Biver, negli anni ’50, era famosa e adorata: modella di gran fama,animatrice della Parigi bohémiènne ed esistenzialista. Era quasi impossibile non innamorarsi di lei: così accadde a George Brassens, così accadde anche al mio adorato Brel. È lei la protagonista della sua ‘Madeleine’ (1962): la canzone in cui un innamorato, illuso come tutti quelli che amano, aspetta, con un mazzo di lillà, che il suo amore arrivi con il tram 33 per andare al cinema e fare uno spuntino insieme. Ma Maddalena, regolarmente, gliela dà buca. Non basta certo questo a farlo desistere: l’innamorato non chiede altro che di essere illuso di nuovo. Neppure quei cugini dai nomi buffi di cui lei continuamente parla, quei Gaston, quei Gaspard, non lo insospettiscono: sarà lì di nuovo, domani, a comperare altri lillà, ad aspettare il 33. Purtroppo, adesso sappiamo che su quei lillà pioverà per l’eternità.

Forse uno dei sintomi più chiari ed inoppugnabili della vecchiaia, del passaggio definitivo nell’età in cui ci si volta troppo spesso indietro e si è infastiditi da ubbie e malesseri, di natura varia ed assortita, sta anche in certi piccoli cambiamenti, a prima vista insignificanti, ma forse proprio per questo decisivi. Prima, quando leggevo il giornale, i necrologi o i coccodrilli li superavo con disinvoltura e leggerezza, scivolando su quelle cronache che mi parevano tanto distanti dalla mia quotidianità. Ora invece sembra sempre che da quelle righe, da quelle foto spiri un’aria vagamente familiare, di persone che, anche se non abbiamo mai conosciuto direttamente, con noi, con la nostra esistenza hanno condiviso momenti importanti e decisivi, ci hanno in qualche misura formato e conosciuto. Un ‘de te fabula narratur’ che si sprigiona, monitorio ed irridente, da quei trafiletti, da quelle memorie, da quelle foto che sanno sempre d’antico.

L’unico motivo per cui val la pena pagare il canone televisivo è ‘Blob’: l’altra sera, in omaggio a quel gusto della dissonanza ossimorica che è cifra stilistica di questa trasmissione, in coda alla sinossi della scemenzaio televisivo nazionalpopolare, sono apparsi alcuni frammenti di un videoclip degli U2, ‘Stay’(1993). Per pochi attimi, l’orgia nonstop di stupidità, violenza, oscenità è stata vanificata da quelle immagini che alternavano il bianco e nero ai colori e che erano un omaggio-citazione ad uno dei film più celebrati e stroncati di Wim Wenders ‘Il cielo sopra Berlino’ ( 1976). Un’altra forma possibile di congedo dal passato sta anche nel pensare a quanta ridda di polemica e di pesante scontro dialettico avevano un tempo suscitato libri, dischi, film od eventi di cui oggi nessuno, o quasi, parla più. È anche il caso di questa pellicola i cui sofismi ideologici sono stati dimenticati, ma la cui estetica mainstream è penetrata dappertutto nell’immaginario collettivo, persino negli spot pubblicitari. L’intuizione di quel videoclip apparso fugacemente in coda a Blob, era che a suonare il pezzo non fossero i musicisti canonici, ma quattro ragazzi qualsiasi in unsimilgarage di qualche periferia urbana. Gli U2, quelli veri, fungevano da angeli-aiutanti, in tacito, invisibile soccorso dei provetti musicisti. Chi cantava, al posto di Bono, era una presenza femminile di grande bellezza , una bionda alta e vistosa che, con feeling appassionato, scimmiottava in playback le parole di questa ballad struggente. Era la stessa persona che nel film di Wenders interpretava Marion, la trapezista che viveva in un campo da circo, quella che balla da sola ascoltando Nick Cave e che induce l’angelo Bruno Ganz, per amore di lei, a scegliere di diventare un uomo, a deporre le ali per scegliere la più triste delle finitudini, quella umana. Nella vita si chiamava Solveig Dommartin , era stata attrice di teatro e televisione, regista, legata ad una lunga relazione sentimentale con il regista tedesco. Le cronache ci dicono che  per prepararsi a vestire i panni della trapezista, la Dommartin passò tre mesi facendo esercizi al trapezio e alla corda. Tutte le sequenze acrobatiche del film, infatti, vengono svolte effettivamente dall’attrice senza l’ausilio di reti o altri strumenti di protezione. Solveig Dommartin è stata sepolta ieri nei Vosges: è morta forse per una improvvisa crisi cardiaca. Aveva 48 anni.

(Nella foto: Solveig Dommartin e Wim Wenders durante le riprese de “Il cielo sopra Berlino” – 1987)

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11 Commenti

  1. Anche a me aveva colpito la notizia della morte di Solveig, poi quel vago “crisi cardiaca”, associato a una fine prematura, a un’età (48) così vicina alla mia. A me piacquero sia “Il cielo sopra Berlino” che “Fino alla fine del mondo”, film irrisolti per molti versi ma così pieni di spunti, di idee. E poi il suo personaggio, di una bellezza che fa innamorare un angelo, sembra impossibile che sia morta…E’ che non ci si accorge mai di quanto la fine sia vicina, solo piccoli e silenziosi segnali, come in quei versi di Raboni: “anche senza far male i capelli cadono/ i denti si guastano/
    la prostata s’ipertrofizza/ si celebra, al netto d’ogni lamento,/
    la cerimonia del disfacimento (vado a memoria). Bel pezzo Linnio.

  2. Da qualche tempo, tutte le volte che sento della morte di qualcuno che conosco, subito m’informo di due cose.
    Come è morto & quanti anni aveva.
    Cerco di considerare drammatico l’evento morte solo quando mi pare “ingiusto”.
    Per me è ingiusto morire (di malattia o incidente) se si è giovani, ed è sempre ingiusto morire lentamente e soffrendo, a qualsiasi età.
    Banale, certo.
    Ma l’ansia nella vecchiaia non è tanto nel dover (presto?) morire, cioè nel dover lasciare la condizione di esistenti per quella di non-esistenti, quanto piuttosto nel procedimento del morire che ti è riservato.
    Perché sai che le cose sono messe in modo tale che difficilmente qualcuno, anche volendo, potrà aiutarti a morire.
    Sai che sarai solo, sai che tra i credenti, che pullulano nei luoghi di malattia e di morte, il tuo dolore e il tuo terrore saranno i benvenuti, perché soltanto così potranno sperare di riaverti tra le loro braccia: la disperazione è un mezzo di convincimento potente.

  3. bel pezzo, anche se quel wim wenders berlinese era già agli sgoccioli.

    mah, leggo l’intervento di tash e sono clamorosamente d’accordo. fino a un certo punto. quale? (vabbè, non frega niente a nessuno e quindi non lo dico).

  4. Il signor L. è molto anziano, ben sopra gli ottanta.
    Lui dice sempre che tocca “morire in fila”.
    In fila per età, non prima i figli dei padri, i nipoti dei nonni.
    Ma se lui lo conosca un segreto sistema per salire le scale di nuvole verso la porta del dopo nel giusto ordine, non lo rivela, si gode questo sole cristallino dopo la brina, davanti all’uscio e guarda lontano.

  5. la morte mi fa diventare imbecille.
    mi fa dire cose imbecilli, provare emozioni imbecilli, una paura imbecille.
    la morte è una cosa imbecille che rende imbecilli.

  6. “Se durassimo in eterno tutto cambierebbe.
    Dato che siamo mortali, molto rimane come prima”
    Bertold Brecht

  7. beh, LA morte… e poi, guarda, carla bariffi, speriamolo. speriamo che sia femmina. non si sa mai…

  8. Linnio, io ti incrocio in macchina quasi tutte le mattine e – credimi – non sei affatto vecchio. Il fatto è che non c’è solo un diritto alla morte, ma anche un dovere di morire per lasciare spazio ad altri, questo è nell’ordine naturale delle cose. Purtroppo c’è chi se ne va via prima del tempo: ma poi qual è la misura di tempo giusta? Nella mia memoria rimarrà il ricordo della bella trapezzista che balla sulle note musicali di Nick Cave insieme anche ai ricordi del periodo della mia vita in cui è uscito quel film ed a cui il suo trapezio rimane indissolubilmente legato. Ottimo brano come al solito.

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