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Dario Fo: il dito nell’occhio della censura

fo-white.JPGFra le varie nefandezze di cui Dario Fo deve sentirsi responsabile, non ultima è quella di aver fatto cadere in amore per il tubo catodico un ragazzino di undici anni, che catalizzato dalle sue opere trasmesse in quella televisione dei tardi anni Settanta non aveva del tutto capito che quella a cui assisteva era un’eccezione e niente affatto la regola. Perché, poer nano, che ne sapeva lui che quello era teatro! Ne avesse mai visto uno, lui giovine e già paffuto virgulto, cresciuto ignorante delle belle arti e delle sette muse… Quindi quale responsabilità, caro Dario! Avere scosso la piccola cassa cranica di un undicenne, con i suoi genitori che premevano per vedere altro sullo schermo e lui che si rintanava nell’altra stanza (ché le stanze erano due, più bagnetto e cucinotto a vista), abbandonato a se stesso, preso come da un delirio di onnipotenza mentre si diceva tutto serio (fra una risata e l’altra) che quella, proprio quella era l’arte. Da lì tutta un’idea di dignità della cultura popolare gli si inoculò nelle vene come una droga, e tutt’ora  – maledizione!- non lo abbandona.
Proprio domani esce un libro-intervista, curato da Giuseppina Manin, dal titolo
Il mondo secondo Fo. Ho avuto il piacere di leggerlo in anteprima e, proprio per la devozione quasi infantile che ho nei confronti del mio saltimbanco preferito, ho chiesto all’ufficio stampa di Guanda (che qui sentitamente ringrazio) il permesso di pubblicarne uno lungo stralcio. Dove, appunto, si parla di cosa fosse in realtà quella televisione nazionale. A voi fare il confronto con quella attuale.  G.B.

Niente di nuovo sotto qualsiasi cielo: con la censura lei ha sempre avuto a che fare.

« Eh, si può dire che sono stato davvero precoce in questo campo. Mi ero segnalato già alla radio, ai tempi di Poer Nano. Diciotto puntate di un varietà scanzonato dove la chiave comica consisteva nel ribaltamento delle situazioni consolidate, per esempio della retorica con cui scuola e chiesa ti ammannivano le loro storie, ti conculcavano comodi stereotipi fasulli. Per cominciare da qualche parte, partivo dalla Bibbia, da quelle faccende rissose tra Davide e Golia, Caino e Abele, Sansone e Dalila. Siamo sicuri, chiedevo, che sia andata proprio così? Perché non considerare anche il punto di vista di quello bollato come il cattivo? E con lo stesso metodo passavo in esame la storia: la gloriosa fondazione di Roma letta attraverso le risse fratricide di Romolo e Remo appariva molto meno edificante. E Muzio Scevola forse non voleva affatto bruciarsi la mano, ma fu costretto dagli altri. Quanto ad Achille, l’eroe per antonomasia secondo i libri di testo, a ben guardare si rivela un pazzo isterico, e Ulisse un furbacchione che cerca di far affari con tutti.
Roba lontana, si dirà. Eppure quei tratti antichi risultavano, raccontati in un certo modo, singolarmente analoghi a quelli di alcuni politici di allora. Gli echi di quelle guerre mitologiche rimbalzavano su quella appena passata, le tensioni tra Greci e Troiani potevano facilmente trasformarsi in quelle tra i due blocchi nascenti, gli USA e l’URSS. Insomma, il passato si trasformava in fretta nel presente. Così, un giorno arrivò al direttore di rete un bigliettino con su scritto: ’Basta Fo’. Due sole parole, ma definitive. Sufficienti per farmi accomodare. »

Successe uno scandalo? Ci furono proteste?

«Ma no, allora si facevano le cose per benino, alla democristiana. Si colpiva duro ma con l’ovatta intorno. Basta Fo fu tradotto in basta Fo come autore. Mi fecero rientrare in radio, ma solo come attore. I testi era meglio che li scrivesse qualcun altro. Così mi ritrovai interprete de Il Gorgogliata, che prendeva in giro la figura del travet. Protagonista un impiegatuccio pavido, vile, strisciante, adulatore esagerato dei capi. Una sorta di prototipo di Fantozzi. Divertente sì, ma innocuo, perfetto per una satira annacquata, fondata sui luoghi comuni cari al potere.
E lo stesso meccanismo funzionava anche in teatro. I famosi Gobbi, il trio di cabaret formato da Franca Valeri, Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, bravissimi a sbeffeggiare tic e vezzi della società borghese, venivano lasciati in pace dalla censura, che con quel genere di comicità, apparentemente corrosiva ma sostanzialmente innocua, ci andava a nozze. Ben diversa da quella che, nello stesso periodo, proponevamo Parenti, Durano e io ne Il dito nell’occhio, dove sotto un impianto fintamente goliardico, le denunce fioccavano dure contro la guerra, il lavoro nero, lo sfruttamento, la corruzione. Si scherzava sulla storia del passato, così come la raccontavano i libri di testo e ci si ritrovava dritti nel presente. Con la stessa retorica, gli stessi imbrogli e falsità. Usando la lezione di Brecht e Toller, si indossavano le vesti di personaggi tramandatici come eroi e li si metteva di botto in mutande. Ricordo una scena esilarante: la corsa delle bighe.
Con noi attori trasformati in cavalli scalpitanti e nitrenti. Un pezzo straordinario che faceva venir giù il teatro dagli applausi. Dietro c’era la mano magistrale di Jacques Lecoq, il grande mimo francese, che lì collaborava alla regia. Il buffo però è che di tutto questo non se ne accorsero subito. Un po’ perché era d’estate e anche i censori vanno al mare. Un po’ perché i politici a teatro notoriamente non mettono piede. Soprattutto quelli di destra. Dalla sinistra, comunque la si voglia mettere, un po’ più di interesse per la cultura c’è sempre stato. Togliatti amava il teatro. E Berlinguer era un altro a cui la prosa piaceva. Tra i viventi, forse l’unico che oggi si vede con una certa regolarità nelle platee è Fassino. Il più presente è senz’altro Veltroni, ma lui è del mestiere!
Per il resto, preferiscono di gran lunga passare le loro serate nei talk show della TV, a fingere di azzuffarsi tra loro…
Tornando al Dito nell’occhio, grazie all’indifferenza ignorante del potere, andammo in scena tranquillamente per quattro mesi filati al Piccolo e quindi per altrettanti in giro per l’Italia, prima che qualche can da guardia alzasse le orecchie. Un risveglio tardivo, quando ormai stavamo per terminare le recite, innescato dalle polemiche accese sui giornali, di destra e di sinistra, in seguito alle recensioni. Ormai allertata, la censura scattò , preventiva e silenziosa, per lo spettacolo successivo, Sani da legare. L’ETI, che gestiva, e tuttora gestisce, il circuito più importante dei teatri italiani, senza dar spiegazioni ci tagliò fuori da tutte le sale principali. Insomma, ci mozzarono le gambe senza clamori. Ufficialmente non ci proibivano nulla, in realtà ci confinavano in spazi irrisori, offrendoci solo gli scarti. Inoltre, mentre gran parte delle altre compagnie potevano contare sulla formula degli incassi assicurati, noi si andava solo a percentuale… Un lavoro sottile di limatura, in perfetto stile di chi allora era a capo del ministero per lo Spettacolo. Lui, sempre lui, Giulio Andreotti. Che, democraticamente, non se la prendeva solo con noi, ma colpiva ovunque tirasse aria non abbastanza consona. Tra i suoi bersagli, spettacoli destinati a entrare nella leggenda, dalla Mandragola di Machiavelli all’Arialda di Testori. »

Alla fine però , pur se declassati e confinati, andavate avanti… Forse, in quell’Italia democristiana, valeva una celebre battuta del Dito nell’occhio: « Un Paese dove tutto si fa a metà , anche lo striptease ».

« Sì, ma il tiro alla fune tra loro e noi non era certo ad armi pari. Il fiato sul collo dei censori restava pesante e costante. Lo Stato ci faceva sudare sette camicie per reperire un teatro, la Chiesa ci boicottava proibendo ai fedeli di assistere ai nostri spettacoli. Per anni sui portoni di basiliche e cattedrali i nomi Fo e Rame erano affissi nella lista nera di quelle cosacce che nessun bravo cristiano mai avrebbe dovuto né vedere né sentire. E ancor meno riderci su. E ` noto che le autorità ecclesiastiche hanno in genere scarso senso dello humour. Così a volte bastava un titolo per scatenare un’immediata allergia. Per esempio, Gli arcangeli non giocano a flipper venne subito visto con sospetto, sebbene in realtà si trattasse solo dell’avventura metafisica di una banda di angelici teddy boy specialisti nel piantare bidoni. Io ero il Lungo, un tontolone che per qualche solito disguido dell’ufficio registri, si ritrova iscritto all’anagrafe come cane. Cane bracco, per l’esattezza. Vana ogni rimostranza, ogni tentativo di dimostrare che lui non ha né la coda né sa abbaiare. La burocrazia l’ha classificato così e così deve restare. Per liberarsi da quella scomoda posizione di quattro zampe, lo Stato gli offre un’unica soluzione… Morire. »

Una storia paradossale, come le è venuta in mente?

« Tutto nasceva come sempre da un personaggio del mio paese. Un furbastro che aveva scoperto che a fingersi allocco poteva vivere di rendita. Senza farsi accorgere, si era costruito la maschera del bonaccione, di uno perennemente stupefatto, buono da portarsi dietro per sentirsi comunque superiore a lui. Era così diventato il buffone della comunità , bersaglio di ogni scherzo, anche i più feroci. Compreso quello di convincerlo a sposarsi con una puttana. In cambio di tanto sollazzo per gli altri, riceveva una sorta di ’stipendio’ in natura: mangiava gratis, al bar non pagava, gli regalavano abiti e scarpe, gli allungavano qualche mancia. Insomma, per campare aveva accettato di diventare un essere umano derubricato. Uno spunto reale di sapore surreale, che io mescolai con altra cronaca viva, con altre storie di costume e malcostume. Restammo in scena un mese all’Odeon, teatro che il coraggioso gestore di allora, si chiamava Bossi, niente a che fare con quello di adesso, ci aveva offerto. La cosa divertente e anche paradossale è che ogni sera in fondo alla sala stazionavano alcuni personaggi dall’aria grigia e rassegnata che certo non erano spettatori. Gente che non rideva mai ma che annotava tutto, inviati dall’ufficio censura a verificare che non si cambiasse una parola del copione. Pena la sospensione dello spettacolo. Che tra applausi e tutto esaurito poté alla fine tirare le giuste somme: 192 repliche e 192 denunce. »

Subito dopo arriva il capitolo Canzonissima, un vero detonatore nella timorosa e timorata TV d’epoca.

« Nel ’62 venimmo chiamati a condurre il varietà clou del sabato sera legato alla lotteria nazionale. Un programma di massimo ascolto e quindi di massima sorveglianza. La censura lì si scatenò su due fronti. La prorompente bellezza di Franca fu subito giudicata poco consona al comune senso del pudore delle famiglie italiane. Il difetto di avere due splendide gambe non le fu perdonato. L’ordine era: non si devono vedere. Così ogni volta Franca doveva indossare due paia di calze per non lasciar trasparire neanche un centimetro di pelle. E poi c’era un’altra regola curiosa: mai mostrare le gambe insieme, una per volta poteva anche sbucar fuori dallo spacco, ma due no. Il perché me lo chiedo ancora oggi. Ma l’elenco delle proibizioni della TV d’allora era davvero curioso, a cominciare dalle parole all’indice, quelle che guai a usare: seno, membro, mafia… »

Naturalmente non si fermarono alle gambe né al glossario….

« Naturalmente. La nostra idea di varietà era inevitabilmente diversa dalla loro. Un assaggio di quello che sarebbe arrivato sul video subito dopo lo dava già la sigla. Una serie di immagini filmate dal regista, Vito Molinari: casalinghe e operai, ciclisti e bambini, soldati, spazzini, minatori, orfani e vedove… Tutti spensieratamente canterini sul ritmo di un’ironica marcetta americana, stravolta dal geniale musicista Fiorenzo Carpi. E alla fine, una raffica di fuochi d’artificio coronata dal  devastante scoppio di una bomba atomica. La gente era avvertita: quello che stavano per vedere era il varietà più esplosivo mai andato in onda. E difatti, ridendo e scherzando, si parlava di cose mai prima di allora comparse su quegli schermi: i problemi degli operai, le malattie professionali di chi sta in fabbrica, i rischi quotidiani nei cantieri… Tutto raccontato con tocco leggero, divertente, ma con dati serissimi e riferimenti niente affatto casuali. Così, improvvisamente, l’Italia si accorse che al sabato sera in TV andava in scena la vita. Vera, reale, difficile, scandalosa. Il successo fu incredibile: alle nove di sera il Paese si fermava, persino i tassisti smettevano di lavorare e, dato che ai tempi non erano in molti ad avere la TV in casa, i bar venivano presi d’assalto. La direzione della RAI, guidata da Bernabei, cominciò ad aver paura e, nonostante i testi fossero già approvati, iniziarono a piovere i tagli. Uno sketch sulla mafia interpretato da Franca, in cui si raccontava della gente di un paese siciliano che regolava l’orologio sui colpi di lupara (’Sono le undici e mezzo, ammazzano il sindacalista…’), scatenò il finimondo. Cominciarono ad arrivarci lettere macchiate di sangue con su scritto ’Chi di lupara ferisce, di lupara perisce’. Il più furibondo di tutti quella volta non fu un democristiano ma un liberale, Giovanni Malagodi, senatore del PLI, che prese la parola in Parlamento, protestando con la Commissione di vigilanza sulla televisione perché ’Si era insultato l’onore del popolo siciliano sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia!’ Un intervento che dovette far piacere a più di qualcuno. Nel 1985 Malagodi verrà promosso senatore a vita per i servigi resi alla politica. Una nomina che gli arriva dritta da… Andreotti, ai tempi presidente del consiglio. Tra uomini d’onore ci si intende sempre. »

Tornando a Canzonissima: il dito nel video l’avevate ficcato. E senza far sconti. Come andò a finire?

« Innescata la polemica, gli avvertimenti si fecero sempre più seri e truculenti. Minacce di morte, di sequestrare nostro figlio Jacopo che allora aveva sette anni e rimandarcelo a pezzi per Natale, lettere di avvertimento, messaggi vergati in rosso sangue, persino una piccola bara di legno fattaci recapitare a casa. Noi che agli insulti e alle censure eravamo abituati non ci facevamo gran caso, ma non potevamo non essere in ansia per nostro figlio Jacopo, che per mesi andò a scuola o al parco accompagnato oltre che da noi, anche dalla polizia. Una situazione tesa, nostro figlio allora era in quell’età in cui si è in grado già di capire tante cose ma proprio per questo si può provare gran spavento. Si finì sotto scorta, tutti e tre. Andare avanti con il varietà diventava sempre più difficile, il copione che si presentava prima della trasmissione tornava indietro sempre più maciullato di tagli. All’ottava puntata ce lo restituirono addirittura falcidiato. Sotto tiro in particolare una scenetta che forse, ci scommetto, ci censurerebbero anche oggi. Pigliava di mira il mondo dell’edilizia, satireggiando sui costruttori che non rispettavano le norme di sicurezza provocando gravi incidenti, spesso mortali, sul posto di lavoro, le ben note morti bianche. Io avrei dovuto interpretare un imprenditore lombardo, uno di quelli con panciotto e anellone al dito, che prima si spaventa per la caduta di un operaio da un’impalcatura, si dispera, si pente, promette di ravvedersi e di mettere tutto in regola, ma appena viene a sapere che il poveraccio si salverà pur rimanendo acciaccato, fa due conti su quello che gli verrebbe a costare rispettare le leggi sulla sicurezza e l’eventuale rischio di processo e conclude trionfalmente avvisando il capo cantiere: ’Ehi, fa’ avvertire gli operai che il primo che casca gli spacco il muso!’ Insomma, un tema scottante negli anni del boom edilizio, dove le morti bianche erano, come peraltro oggi, all’ordine del giorno. A renderlo rovente, il fatto che proprio in quello stesso periodo era in corso una complessa vertenza nazionale nel settore edile e gli operai erano scesi in sciopero. »

E quello sketch mandato in onda nella fascia di massimo ascolto rischiava di far esplodere la situazione.

« Difatti, visionata la scena, i vertici romani della RAI chiesero l’immediata soppressione di questo e di un altro sketch sulla prostituzione. Franca e io ci guardammo negli occhi e decidemmo: ora basta. In quel modo non si poteva più andare in onda, del nostro testo era rimasto ben poco… Non esisteva più . Mancavano pochi minuti all’inizio di Canzonissima, nello studio la tensione era enorme. Si sapeva che metà Italia era lì, in attesa di vedere cosa sarebbe successo. In extremis chiediamo alla RAI di ritirare i tagli. La RAI li conferma. E allora ci ritiriamo noi. Canzonissima per noi è finita. La puntata andò in onda, ma senza conduttori né testi, con le sole canzoni in gara. L’annunciatrice: Dario Fo e Franca Rame si sono ritirati. Una protesta plateale, mai successa prima. Ma se i censori pensavano di soffocare lo scandalo mettendoci a tacere, si erano sbagliati di grosso. Un attimo dopo l’annuncio di quella nostra decisione, cominciano a fioccare alla RAI e ai giornali messaggi di sostegno, lettere, telefonate di personalità ma anche di comuni cittadini indignati e furibondi. Un’incredibile manifestazione di solidarietà che certo il potere non si aspettava. In fretta e furia la RAI cercò qualcuno per sostituirci. Ma quello che era il programma più appetito della TV, di colpo sembrava non interessare più nessuno. Tutti gli attori italiani, seguendo le indicazioni del SAI (il sindacato attori capitanato dal battagliero Tino Buazzelli), rifiutarono di prendere il nostro posto. Interpellarono Gino Bramieri e Walter Chiari. Niente da fare. Tentarono con l’estero, contattando Yves Montand e Henri Salvador. Ma anche loro si negarono. Una levata di scudi che invelenì ancora di più i dirigenti dell’Ente e i loro padrini. Lo scandalo finì su tutte le prime pagine dei giornali e persino in Parlamento. I segretari dei quattro partiti di maggioranza, Aldo Moro, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Oronzo Reale, interruppero il vertice del centrosinistra per occuparsene.
Destra e sinistra si azzuffarono. Intanto la RAI ci fece causa, ci trascinò in una sfilza di processi, due vinti da noi, il terzo annullato dalla Cassazione, il quarto vinto dalla RAI. E alla fine, fummo condannati a pagare danni per miliardi. Oltre a venir banditi per sedici anni da qualsiasi programma, radiofonico o televisivo e persino dalle campagne pubblicitarie. Quando rientrammo in TV, nel ’77, invitati dal direttore della seconda rete, Massimo Fichera, la nostra prima clausola fu: niente censura. Così fu, anche se a cercare di temperare lo ’scandalo’ da una parte si mandò in onda il nostro Mistero buffo, dall’altra il Gesù di Zeffirelli. E l’Italia si spaccò di nuovo in due. »

[il disegno è di Guido Scarabottolo]

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26 Commenti

  1. Grande attore Fo (infatti penso sia miliardario) e pessimo politico, testimone di quello sciocco (e tragico) estremismo parolaio la cui partita doppia è sicuramente in negativo, protagonista e complice di un ribellismo afono ed acefalo che in luogo di leggere la storia ha letto e fatto leggere solo la propria vanità.
    Resteranno di lui qualche riga nelle future enciclopedie grazie ad un immeritato Nobel ed al geniale ed ottimo “Mistero buffo”.
    Meglio, molto meglio, Albertazzi.

    Salutando

    Mario

  2. Anche io guardavo Fo. Sono del sessantotto quindi avevo nove anni. Anche io stavo in un bilocale con bagnetto e dormivo in cucina. Anche a me arrivavano quelle cose popolari, per quanto riviste da Fo con strumenti coltissimi e difficili. Però la sua lingua continuava a essere diretta e quello che diceva di una bellezza e radicalità meravigliosa. Non so se si capisce ma sono uno di quelli per cui il nobel se l’è meritato.
    Tempo fa mi era capitato nelle solite baruffe su lipperatura di indicare Fo come un esempio di popolare, in contrasto con le baggianate industriali propagandate dal cinese trapiantato a Bologna che scrive come un americano tradotto male nella nostra lingua.
    Leggere qui un omaggio a “quel” popolare mi fa piacere.

  3. Ah, dimenticavo, Fo sta dalle mie parti (perlomeno per un bel po’ di tempo all’anno). Qui circolano i veicoli adattati per i disabili che ha comprato utilizzando la grossa somma vinta col Nobel.

  4. Ah, Gianni. Tu tocchi un tasto dolente: anche per me Mistero buffo è stata la scoperta del teatro e insieme al grammelot ho percepito per la prima volta che la lingua è un campo di battaglia oltre che un comodo cappotto da indossare una volta per tutte.
    E la televisione di allora, rispetto a quella di oggi?
    Meglio non parlarne. Pensa che avevo il coraggio di definire lo sceneggiato de “I fratelli karamazov” una porcheria. Berlusconi faceva ancora il guitto in crociera, e il grande fratello era l’incubo di un romanzo di fantascienza. Sic.

  5. Mario, le opinioni sono come il buco del culo, ognuno ha il suo, ma a proposito del “Fo pessimo politico”, solo una precisazione. Il politico dovrebbe essere oltre che un “nostro dipendente” (come li definisce bepep grillo…anche lui miliardario…e allora?!), quindo agire per il nostro bene, pe la città.
    Quando si manifestava per evitare l’abbattimento dei 300 (mi pare) alberi secolari del parco in via melchiorre gioia, non si sono visti ottimi politici insieme e in mezzo alal gente che chiedeva di lasciare una macchia verde nella grigia milano, ma solo il pessimo politico Fo. Morale della favola: gli ottimi politici se ne sono fregati, Fo non ha nemmeno passato le primarie…e nemmeno gli alberi! tagliati in una notte.

    Chisenefrega delle poche righe nelle enciclopedie…ormai in rete si trova di tutto, chi le comprerà in futuro le enciclopedie!!!

    Ok, sfogo finito.
    Salutando (anche mario, senza rancore)
    marco albanesi

  6. Eddai, Dario Fo ha ormai 81 anni… un po’ tanti per fare il sindaco di MIlano.
    Alla faccia delle facce nuove!

  7. Per me Dario Fo è sempre stato un problema.
    Per due motivi.
    Il primo è che a proposito della sua opera, a parte Mistero buffo, non mi pare si possa parlare di indimenticabili qualità.
    Sono cose che mi sono sempre apparse, per quel poco che ne ho visto, ingenuamente “politiche”. Cioè atte a massaggiare quel sentimento genericamente alternativo e genericamente comunista, ambientalista e rivoluzionario, che circola nelle vene di uno strato sociale e generazionale del Paese che non è stato mai capace di trasformarsi in politica vera, cioè in strategia trasformativa, invece di restare un generico “essere contro”.
    Quindi mi danno sui nervi loro e mi dà sui nervi Dario Fo, ma mettersi a paragonarlo ad Albertazzi mi pare quanto meno improprio, sempre che non si appartenga a quel centro destra a caccia di intellettuali organisci da esibire, ma che nei fatti dà lavoro a quasi tutta la cultura de sinistra italiana.
    Il secondo imbarazzo è nell’eterno Mistero buffo, in quella che mi pare un’incapacità di schiodare da lì, da quella percezione del popolo e del popolare, che ormai è pura archeologia, anche se rimane ottimo teatro.

  8. D’accordo, Hiku: ma quando la corsa allel elezioni nazionali la fanno due 70enni, quella per palazzo marino ferrante e la moratti che non è che siano due liceali…a questo punto la giovinezza la fanno le idee….

  9. Le opere di Dario Fo hanno una valenza soprattutto orale, legate a una rappresentazione fisica, e come tali andrebbero considerate. Ho visto varievolte Dario Fo, in collettivi studenteschi, in giro, e aveva molta forza.

    Devo dire che a me è piaciuto il piccolo squarcio iniziale di casa Biondillo, con Gianni “giovine e già paffuto virgulto, cresciuto ignorante delle belle arti e delle sette muse…”

  10. a tash:
    carmelo bene aveva chiamato ‘albertazzi’ un suo cane ( così sosteneva il povero leo de bernardinis ). ‘ e povero anche il cane’ si direbbe, allora, parafrasando una famosa canzone di Fo.

  11. Sarà il piccolo SCORCIO iniziale, a meno di non pensare che nel salotto di casa Biondillo, mentre il piccolo guardava la tv, sia piombato Volverine e abbia affettato tutto :-)

  12. per una volta concordo molto con Tashtego.
    Gianni, “Paffuto virgulto”?? Hai mantenuto le promesse, eh?

  13. dario fo.
    albertazzi.
    centrodestra.
    centrosinistra.
    mistero buffo (fo)
    jekyll (1969) (albertazzi). capolavoro. kubrick disse che era un’opera di grande valore.
    televisione.
    teatro.
    2 reduci della rsi.
    così
    per
    dire.

  14. non è detto, a.b., puoi contestare l’eleganza di “squarcio” – e forse ti do pure ragione – e forse volevo proprio scrivere scorcio e mi è venuto squarcio – ma non la possibilità di guardare una scenetta attraverso uno squarcio nel tempo.

  15. Ribadisco che Mistero Buffo è una grande invenzione, ma do ragione a tashtego: è l’unica. Secondo me la grandezza di Fo non è quella di un autore, ma di un grandissimo attore, in lui c’è la magia del ritmo e del corpo in modo sfrenato, e in tutta la sua verità preverbale, è la cosa più difficile e sublime: nel teatro, il testo è uno spartito.

  16. anch’io concordo con tashtego, ma aggiungerei una cosa. Non dimenticherei il lavoro che dario fo ha fatto sulla storia della cultura popolare e su quanto abbia penato per portarlo in teatro. Non è uno storico, per saperne di più sul tema ci potremmo rivolgere a peter burke o ad altri, ma non esiste solo il dario fo de’ sinistra (morte accidentale; pum pum chi è la polizia; fanfani rapito etc)… Certo non dimentico che a questo lavoro è connesso un populismo a me personalmente molesto, come anche l’illusione che la storia sia stata fatta dai popoli e scritta quasi in nome dei padroni (dice una cosa del genere nella registrazione televisiva del mistero buffo)Ricordo anche il lavoro sulla lingua, il recupero di ruzzante…

  17. Il limite della cultura popolare e di un certo impiego di essa da parte del marxismo, è che l’immagine del nemico di classe è ferma a quella del “padrone” d’epoca clerico-fascista, e quel tipo di immaginario era già vecchio negli anni Settanta. Ma la vera immortalità del popolo Fo l’attinge nel Grammelot. Corpo, ribellione e poesia pura.

  18. Valter, visto che il diretto interessato non risponde, mi permetto di farlo io: sitting targets vuol dire facili bersagli.

    A proposito com’era quella cosa del nemo propheta in patria?

  19. il confronto è penoso.

    nella maggior parte dei casi le persone non si espongono più per il loro coraggio ma per puro narcisismo, i fatti reali e crudi vengono sbandierati come merce sul mercato, senza un minimo di delicatezza, la cronaca è una carrellata di immagini violente che ogni giorno ti iniettano, fino all’assuefazione.
    Ma il coraggio, quello di esporsi a nome del popolo, a nome degli ideali condivisi, a nome di fatti realmente accaduti – e che non hanno voce – il coraggio di “cantarli” così che non rimangano adombrati, di questo necessita il mondo.
    Un coraggio che va sostenuto, sempre.

  20. Anch’io di Fo salvo solo Mistero Buffo. L’ho visto, al tempo, ben due volte, ho ancora il disco, di vinile, grande, con copertina bianca. Era un attore geniale, un grande guitto.

    C&C su Brook concordo. Tutt’altra storia.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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