Avere figli

di Giorgio Vasta

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Nei giorni scorsi due piccoli avvenimenti mi hanno fatto tornare in mente un appunto che avevo preso nel giugno del 2003. Due avvenimenti che hanno a che fare con l’avere e con il non avere figli.
Il primo è una frase che ho sentito leggere da Giordano Meacci all’interno di un suo racconto che si intitola Crossroad Blues. La frase in questione, messa in bocca a un Cristo travagliato e rabbiosamente malinconico, suo malgrado eternamente figlio e all’essere eternamente figlio crocifisso, è: “Sono stanco di non avere figli”.
Il secondo avvenimento è l’aver rivisto un film del 1973 di Jean Eustache che si intitola La maman et la putain. Arrivato alla scena del lungo monologo, nel finale, di Françoise Lebrun, quando il suo personaggio, l’infermiera Veronika, piangendo parla del sesso, dello scopare con chiunque, di come scopare senza fare figli sia polvere (un discorso che non va inteso come perorazione di una causa vaticanista anticoncezionale ma in un senso diverso, midollare, direttamente collegato alle dimensioni e alla consistenza dell’esperienza, alla “fertilità” dell’esperienza), in quel momento ho pensato che quando avrò un figlio, se mai avrò un figlio, morirò di lacrime. Poi ho rovesciato la forma della frase e il risultato mi è sembrato ancora più reale, più rispondente a un meccanismo di causa ed effetto: Quando morirò di lacrime, avrò un figlio.
Quello che segue è il breve appunto del giugno 2003 nato dall’intersecarsi di questi due piccoli avvenimenti. E da un terzo, che non è tanto un avvenimento, un fatto puntuale e circoscrivibile, quanto una constatazione: la maggior parte delle persone che conosco – e mi permetterei di dire, estendendo il discorso, la maggior parte delle persone che conosciamo – non ha figli. Non ne ha e non ha un’idea precisa di che cosa siano. I figli – per la maggior parte delle persone che conosco, e, mi permetto di dire, che conosciamo (me incluso) – sono come dei dinosauri. Sono preistoria e sono mitologia. Avere figli è come un linguaggio, un alfabeto davanti al quale la maggior parte delle persone che conosco e che conosciamo è analfabeta. Ci limitiamo a sillabare, a fare dei cenni. Niente di più.
Ecco l’appunto.

Di tutte le pratiche necessarie per l’adozione di un bambino, di solito si dice male. Troppo tempo, troppi ostacoli, troppi legacci. Un percorso che lavora ai fianchi la resistenza di chi si candida come genitore, che ne sgretola le motivazioni.
Io non mi metto a giudicarle, queste pratiche, perché le conosco solo per sommi capi.
Ugualmente però mi danno da pensare.
I tempi per un’adozione pare che siano lunghissimi, nell’ordine degli anni, addirittura di un lustro o anche di più. I nove mesi della gestazione di un figlio biologico sono niente, al confronto. La biologia della procreazione, dal concepimento al parto, osservata periodicamente attraverso le ecografie, appare lentissima, laboriosissima, con tutto questo formarsi separarsi disegnarsi di ossicina tessuti cartilagini mucose cheratina occhi labbra dita capelli. Se osservata dal punto di vista della burocrazia, la biologia è invece una corsa veloce dal concepimento al parto, da un desiderio al suo soddisfacimento. Una polaroid scattata a un processo naturale.
L’adozione prevede poi che nel corso di tutto questo tempo, gli aspiranti genitori vengano incontrati, in coppia e singolarmente, testati, visitati nella loro abitazione – di città, di mare o di montagna – e ancora indagati nel reddito, verificati nelle abitudini e nei costumi, giudicati nella moralità, messi alla prova nei legami famigliari e nelle amicizie, valutati nello stato e nelle ambizioni lavorative, insomma monitorati a tutto tondo in ogni loro manifestazione.
Radiografati.
No, meglio: ecografati. Osservati e auscultati nel grembo delle loro esistenze.
E attesi al varco.

L’assunto dal quale si parte è che l’essere genitori è una “responsabilità” e che quindi gli aspiranti genitori devono meritarselo, devono meritare di divenire tali. Devono essere in grado di dimostrare di poter sostenere questa responsabilità, il suo carico, il suo onere e il suo onore. Perché nella prospettiva della burocrazia che governa l’adozione e che separa (e che unisce: che separando unisce) il desiderio di paternità-maternità di due persone dal suo soddisfacimento, la nozione di responsabilità diventa del tutto centrale. Coloro i quali vogliono essere genitori devono certificare in maniera indiscutibile di essere individui in grado di generare una consapevolezza e una prassi della propria funzione. È un po’ come se le persone che non potendo avere un figlio biologico vogliono adottare un bambino e quindi diventare genitori, dovessero dimostrare alle istituzioni la loro capacità di generare se stessi, di procrearsi, di partorirsi padri e madri sani e solidi e intensamente concentrati nell’essere, in maniera definitiva e ontologica, padri e madri. Devono cioè dimostrare di saper nascere a un’identità e a un ruolo (e quindi, partendo da queste premesse, è il bambino ad adottare i genitori “neo-nati”, e non viceversa).
In questo senso, tempi lunghi e verifiche sono imprescindibili. Sono garanzie, sono un tempo di collaudo, che deve essere un tempo lento e meditato, un tempo largo e disponibile. All’interno di questo tempo si costruisce il pensiero della cosiddetta “genitorialità”. Pianissimo, al ralenti, come se i tempi naturali della gestazione biologica venissero dilatati attraverso la moviola della burocrazia.
Ed è proprio questo che maggiormente mi colpisce dell’adozione. Il fatto che questi tempi e queste verifiche non sono altro che la radicalizzazione di tempi e verifiche che nella fisiologia umana sono comunque molto contenuti.
Le pratiche dell’adozione sono percepite come una violenza perché evidenziando le condizioni morali e materiali indispensabili per diventare genitori costringono a prendere atto che la cosiddetta “genitorialità” è a tutti gli effetti responsabilità. Le pratiche dell’adozione hanno quindi il compito (o forse si tratta non tanto di un obiettivo primario quanto di una conseguenza che è però importantissima) di costruire una metafora dell’essere genitori, elevando a potenza ennesima i paradigmi biologici.
La burocrazia, o meglio la particolarissima cronologia della burocrazia – sempre lamentata come intollerabilmente lunga – chiarisce la differenza tra un figlio biologico (che scaturisce in un lentissimo lampo da nove mesi di gestazione fisica e psicologica) e un figlio “logico” (ovvero un figlio la cui gestazione dura negli anni, si dilata ed esaspera e così facendo giustifica se stesso e il compito dei suoi futuri genitori).
L’obiettivo finale è quello di descrivere, a partire dalla differenza, una somiglianza se non un’identità: il figlio biologico e il figlio logico non sono la stessa cosa ma dovrebbero essere la stessa cosa. L’esistenza del figlio biologico dovrebbe essere garantita dagli stessi criteri meritocratici che presiedono all’assegnazione di un bambino a una coppia richiedente.
Dalla stessa idea di responsabilità (dovremmo quindi “adottare”, almeno idealmente, anche i figli biologici).

Eppure, nel considerare tutto ciò e nel sentire il fascino delle pratiche per l’adozione, per lo meno in questa prospettiva – cioè nella prospettiva della lotta tra il desiderio di essere genitori e un’istanza alla quale questo desiderio non basta e si prefigge dunque di misurarlo dal punto di vista della responsabilità – mi rendo anche conto che l’essere umano ha una delle proprie specificità esattamente nel poter concepire figli indipendentemente e a prescindere dal fatto di meritarseli o meno. Questa apparente bestialità è invece una condizione profondamente umana: poter fare il bene proprio malgrado, senza credenziali e senza garanzie, senza essere autorizzati.

Fare figli resta essenzialmente questo: meritarsi qualcosa che si può avere facilmente, “senza autorizzazioni”. Trasformare il figlio illogico, spontaneamente illogico, in un figlio logico, almeno parzialmente logico.
Diventare responsabili dell’irresponsabilità.

 

(qui si conclude l’appunto del giugno 2003. Adesso guardo una foto apparsa su repubblica.it di qualche settimana fa. Nella foto si vedono dei feti fotografati in tre dimensioni. Nella foto che guardo si vede una specie di albero che al posto dei rami – ma potrebbero anche essere delle radici rampicanti – ha le braccia e le gambe flesse e distese di alcuni feti. Guardo questo groviglio e penso che quanto detto a proposito del diventare responsabili dell’irresponsabilità valga, in un modo che non so spiegare, anche per lo scrivere. Guardo e mi domando se e perché io e la maggior parte delle persone che conosco e che conosciamo decideremo mai di arrampicarci su quell’albero)
 

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65 Commenti

  1. caro tiziano, sono una studentessa di ferrucci che dovrebbe laurearsi con lui a marzo, salvo incidenti di percorso. sto preparando la mia tesi sul blog, e volevo chiederti (ho il permesso di darti del tu?) se posso sottoporti a un’intervista a riguardo… intanto ti lascio la mail e il link del mio blog, così avrai sicuramente modo di trovarmi. grazie per l’attenzione.
    post scriptum: questo testo è bellissimo. ed è verissimo. mica comune, come connubio.

  2. Nessun merito nell’avere figli, nessun merito nell’avere figli! A procreare son bravi tutti! Spente definitivamente tutte le necessarie protensioni ed attenzioni ad ogni palpito del mondo, ritagliato e rinchiuso ormai nella propria limitata sfera di vita, nella quale tutto torna e niente straripa verso l’ignoto; decaduta la capacità di fare delle proprie scelte la metafora delle altre possibili, parimente degne e relative; rinnegata la meraviglia delle cose che instancabilmente illuminano la nostra visione, sostituita da una più economica cecità, in grado di vedere solo ciò che si può tenere sotto mano, il disanimato aspirante genitore cerca la vita che non trova più in sè nell’altro, e si inginocchia alla più facile delle soluzioni. La ricerca forsennata dell’ultimo abbandono, dell’estrema fuga da ogni filiazione nei confronti degli altri, del mondo, della società; la disperata questua della definitiva assoluzione dal dovere di rispondere del proprio passaggio, di ascoltare e onorare le pretese di un fuori che dona, arricchisce, domanda è la verità dell’irresponsabile strappo, pavida chiusura nel proprio di fronte all’estraneo da cui proveniamo. Un’esistenza perduta a tagliar limiti e recintarsi un cantuccio si conclude con l’atto grazie a cui ogni autocentrismo è giustificato. Il mondo perde le sue possibilità e diventa Lui, sovrano e unico beneficiario della tua potenza.

  3. Giorgio,
    è curioso che noi due si era al telefono proprio oggi pomeriggio, per risolvere un problema tecnico di pubblicazione di questo pezzo, che non conoscevo, e tu tossendo mi dicevi che eri influenzato e io che ti rispondevo, certo, ti capisco, ho avuto Laura, la bimba grande, a casa con la febbre per una settimana, e ora Sara, la piccola, le cola il naso. Era un pour parler naturale per me e per te, forse, un po’ marziano.
    Proprio l’altro giorno Piero Sorrentino passando per Milano s’è fermato a mangiare qualcosa con me e Helena e Sergio. Tempo 5 minuti e io e Helena s’era lì a discutere di quali supposte dare ai figli in questi giorni di virus viaggianti, con gli altri due che ci guardavano curiosi. E lì, al tavolo di quella trattoria dal servizio più lento di tutta Milano, facevo notare come tutti gli scrittori che conosco non hanno figli (tranne, e meno male!, santa Helena!).

    Il discorso è davvero lungo. Ti voglio solo dire che la paternità è una cosa che si guadagna lungo la strada, non è data colla nascita, come, culturalmente e biologicamente è la maternità.
    I figli ti distruggono l’esistenza, ti annullano le relazioni sociali, non ti fanno dormire la notte.
    Ti fanno mettere il turbo, però. Ti danno la tua esatta dimensione nel tempo e nello spazio. Non c’è scrittura, non c’è romanzo che tenga al confronto, fidati.

    Non posso andare oltre, mi tocca chiudere e non è una battuta ad arte: devo andare a prendere Laura, che è a casa di una amichetta, c’è da preparare la cena.

  4. Quattro figli, re degli incoscienti.
    La prima è partita ieri per il Portogallo, sta sei mesi fuori per l’Erasmus. Lacrime.
    L’ultimo fa la quinta elementare e tifa Inter.
    Una vergogna.

  5. Beh ma in fondo i dinosauri sono tra le cose che conosciamo meglio. Tra le prime a scuola, hanno forme amiche.
    Per me sono stati la mia prima Milano, alle elementari eravamo venuti al museo di scienze naturali.
    Essere responsabili dell’irrensposabilità mi fa pensare a qualcosa che lascia spazio all’imprecisione, alla possibilità, a tutto il resto, alle altre cose. Che non si è soli.

  6. due figli, Renata e Luca….
    superiori,
    età critica…
    fibrillazione intensa!

    e tante fiabe ancora, per mamma e figlia, alla sera.

  7. diventare padre per me è stato fare i conti col ridicolo paradosso, estendibile forse all’intera esistenza, che si tratta di un evento che tiene insieme contemporaneamente ordinario e straordinario.
    e mi ha fatto conoscere una qualità d’amore che non ha bisogno, per esserci, di alcuna restituzine.
    è anche vero come diceva gianni che in parte si rinuncia ad una parte della propria vita privata, in quanto questa ruota intorno alle esigenze, nel mio caso, di Aurora.
    eppure, parlo per me, non me ne sono mai pentito.

  8. Anche a me è capitato di pensare come tutto quello che tocca ai genitori di figli adottivi, oltre ad essere sfibrante attesa, fosse un di più che pure genitori biologici avrebbe potuto giovare. Per la serie: avvisati, mezzo salvati. Quando capita- come aihmé capita- di vedere bambini mediamente simpatici, intelligenti ecc. in mano a (chiamamoli così) dei deficienti che sono i loro legittimi gentitori, mi viene abbastanza male.
    Non so se pure Gianni la viva un po’ così: ma io cerco di girare alla larga di certe persone che PRIMA mi parevano simpatiche e neutrali, quando si comportano coi figli in troppo sbagliati (troppo velleitari nel punirli, troppo iperprottetivi, troppo tesi a spingerli alla competitività, troppo dominati da nevrosi varie ecc.) Non che voglia pretendere che gli altri facciano uguale a me, ma esiste (la percezione ovviamente è soggettiva) una soglia oltre alla quale si registra un travaso di desideri, frustrazioni ecc. sul genitore/i al figlio/i che ti fa vedere come questi ultimi prima poi soccomberano. E dato che non si tratta di violenze vere e proprie (ma anche lì, chi se la sente di intervenire se si tratta di genitori non per ragioni di classe o altro qualificabili come “disgraziati”) uno assiste senza poterci far niente.

  9. I miei figli sono venuti presto, quando hanno deciso. Per loro ho scritto cose. Tipo questa.

    Comprare un vestito a un bambino
    e scegliergli insieme il cappotto,
    la gonna, le calze, un golfino,
    la maglia che porta di sotto.

    Guardarlo negli occhi vicino,
    cercare uno strano contatto:
    la forza che, a parte il destino,
    ti dice di stringerlo stretto.

    Di stringerlo stretto? Ma come?
    Si volta, ti scorda, ha uno scatto,
    già corre altre strade, le sue.

    Non serve gridargli quel nome.
    Ma guardalo, e sii soddisfatto:
    le scarpe son sempre le tue.

    1999

  10. Gianni parla della propria paternità attraverso l’amore dei gesti di cura e di organizzazione delle figlie.
    Faccio parte della schiera senza figli, ma con sette nipoti e almeno sei parti vissuti attraverso racconti, osservazione diretta del prima, della gestazione e del dopo. Ho visto da vicino anche il processo lunghissimo delle adozioni e degli affidi. Cosa è logico e cosa è illogico? Non saprei.

    Giorgio, il tuo testo coglie di lato il processo radicale e stravolgente che nasce dal desiderio di avere un figlio, che sia biologico o adottato. E’ il radicarsi della sensazione di una vita che prende forma dentro di sé o attraverso sé che sconquassa qualsiasi logica razionale e che nelle adozioni si deve ricreare quasi con un processo di definizione della responsabilità-desiderio che ricorda come le macchine tentino di ricreare i meccanismi complessi e non riproducibili dell’intelligere umano.

    Un desiderio che riporta “le radici animali dell’essere umano nella terra” – come disse una mia amica in attesa – che rende la genitorialità naturale e che fa accettare i gesti quotidiani, le pazienze e gli ascolti come parte fisica e agita del desiderio diventato realtà. Una realtà che cresce e che chiede costantemente attenzioni e spesso solo ascolto e guida nel dare senso a delle personalità che sono già definite alla nascita. Chi è curioso lo si vede già a tre mesi: resiste al sonno, beve la realtà intorno, teme di perdersi qualcosa, ha fretta di apprendere. I sognatori non amano muoversi in spazi nuovi, stanno lì a sentirsi, o ripetono all’infinito giochi.
    E quando qualcuno, anche genitori, fa osservazioni sul figliolame come “ma guarda, allora capisce” come se avesse davanti un lobotomizzato cicciobello comprato alle fabbriche dei cicciobelli-delle-pubblicità, mi salgono i brividi per la schiena. Ecco, per me la genitorialità logica sta nell’assistere e guidare lo sviluppo liberato dei figli, con un gesto rivolto al futuro, che spesso le nostre vite troppo precarie fanno fatica a comprendere.
    p.s. però la materialità della puzza dei pannolini e i decibel dei pianti notturni è altro ancora da questi ragionamenti e intuizioni. sorrido.

  11. L’altra sera ascoltavo e canticchiavo questa ballata dei Mercanti di Liquore tratta da “la musica dei poveri” rende bene l’idea di genitorialità. Bè una possibilità di genitorialità…

    APECAR

    Com’è divertente andare in giro con l’apecar
    su e giù per le contrade, i cartoni a raccattar
    Ho passato mezza vita sopra un’apecar
    da quando ero bambino, insieme a mio papà

    Su e giù con l’apecar, la vita è tutta qua
    su e giù con l’apecar, la vita è tutta qua

    Se guardi con attenzione nella spazzatura
    ci sono molte cose di ottima fattura
    Radioline, sedie, tavolini e biancheria
    cose che stranamente la gente butta via

    Buttano le cose che bastava riparare
    chissà perchè….. chissà perchè!?
    Buttano le cose per poterle ricomprare
    chissà perchè? chissà perchè ?

    Su e giù con l’apecar, la vita è tutta qua
    su e giù con l’apecar, la vita è tutta qua

    Poi una sera in via Leopardi cercavo merce nei quartieri signorili
    vidi qualcosa di strano tra i bidoni, qualcosa si muoveva tra i cartoni
    Io mi avvicino di soppiatto e resto lì esterrefatto
    non era un gatto, non era un ratto, era un bambino appena fatto!!

    Ma cosa cazzo avranno nella testa, mi domando,
    vabbè buttare tutto, ma stiamo esagerando
    Poi non me la sento di chiamar la polizia
    di certo va a finire che è tutta colpa mia….

    O forse è un altro dono dell’amica mia “munnezza”
    tutto per me, tutto per me !!
    Io prendo in braccio il bimbo e poi gli faccio una carezza
    che bel bebè, il mio bebè!!

    L’ho portato a casa ed è cresciuto a meraviglia
    voi non ci crederete ma un poco m’assomiglia
    Ora è grandicello e sta con me in attività
    e adesso siamo in due…..sull’Apecar

    Su e giù con l’Apecar, la vita è tutta qua
    su e giù con l’Apecar, la vita è tutta qua..

  12. Però se nascessero dalle uova, non sarebbe più facile? Lo so che è una considerazione un po’ stupida, ma in quanto donna, non mi sconfinfera una cosa che mi cresce dentro la pancia. (Nemmeno il dopo)
    E poi un’altra cosa che da cattiva egoista ho sempre pensato – l’idea che un compagno qundo poi nasce un figlio, beh tutta l’attenzione a lui. Eh no, eh…perché l’essere umano ha bisogno di ritrovarsi e metà là di lui, crede che ci sia e forse c’è…più di qunto poi non resti nella sua altra dolce metà staccata…però capisco lo spasimo degli amanti è la specie chevagisce, un caro Arthur diceva. E come opporsi? Per me non è una bella natura, ma c’è, caspita c’è per quanto uno con la testa…

    “Feconda una donna ogni volta che l’ami
    così sarai uomo di fede:

    Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
    e tanti ne uccide la fame.
    Io, forse, ho confuso il piacere e l’amore:
    ma non ho creato dolore.”

    De Andrè

  13. tutti a dire quant’è bello far figli senza badare ad altri punti di vista…
    so anch’io che sono meravigliosi i bambini
    mi sembra d’aver bestemmiato in chiesa

  14. Mio figlio è ancora da qualche parte nel buio della pancia di mia moglie. Comincia a premere oltre l’osso pelvico, a protrudere in fuori, a influire sul baricentro di lei. A darle nausee.
    Io per ora l’ho visto in ecografia: un segmento di due centimetri circa, al centro del quale batteva una virgola luminosa. Il cuore.
    Mio figlio non è ancora mio figlio, e io non sono ancora suo padre. Non ho ancora la sua presenza fisica che mi impone di misurare il mio tempo (quello quotidiano, per non parlare del futuro) sul suo, le mie esigenze sulle sue.
    Mio figlio (o mia figlia? perché uso il maschile?) è ancora un bolo di cellule (anche mie, in parte ) che prendono forma e si differenziano in mezzo ad altre cellule. Quando nascerà sarà un fascio di nervi scossi dal dolore e dalla fame e io sarò un’ombra indistinta che gli cambierà i pannolini sporchi e lo rivestirà di panni lavati e disinfettati.
    Dovrò dare una forma alle sue sensazioni e ai suoi pensieri, imporgliela probabilmente, e poi accettare che lui la rifiuti e, odiandomi, si renda (forse) conto di amarmi.
    Quando morirò, sarà tutto ciò che resterà di me, nel bene e nel male.

  15. ieri pomeriggio sembrava maggio e mio figlio, 9 anni, bello di nome e d’aspetto, a maniche corte, giocava a pallone con un suo compagno di classe, dalla faccia furbissima, le orecchie a sventola, la risata squillante. Mia figlia di sopra era alle prese con una stramaledetta versione. Io, al solito, giracchiavo da una stanza all’altra con un libro: era ‘la possibilità di un’isola’ di houellebecq. per una di quelle strane intersecazioni logico-temporali, ero arrivato più o meno a quelle righe dove si parla dell’utopia dei childfreezone, all’avvento di famiglie che rinunciano volontariamente ai figli, allo spot televisivo dove un bambino terribile, una specie di mostro in miniatura ( è daniel 1, sempre in questo libro, a definire i bambini ‘come dei nani viziosi di crudeltà innata, in cui si ritrovano i peggiori tratti della specie’) terrorizza gnitori e clienti in un supermercato. lo spot termina con un ammonitorio ‘ just say no. use condoms’. C’era questa inconciliabile distonia fra ciò che c’era scritto ne libro e ciò che agiva nella realtà. Certo quasi mai tutto è così idilliaco e perfetto, ma penso ( ed anche questa probabilmente è una tautologia) che chi ha figli non può pensare il mondo e se stesso senza di essi, senza quella percezione di una realtà di secondo grado che induce a mettersi sempre in discussione, a pensare le cose ( per quanto è possibile) dalla parte loro, a prescindere dal proprio egoismo e dalla autoreferenzialità. Tutto passa attraverso loro che sono la misura del mondo, nel bene e nel male. grazie a giorgio vasta per l’ottimo post

  16. “chi ha figli non può pensare il mondo e se stesso senza di essi, senza quella percezione di realtà di secondo grado che induce a mettersi sempre in discussione, a pensare le cose dalla parte loro…”

    io non vorrei distruggere l’incanto, come al solito, ma quando mi guardo intorno e non vedo gli idilli di cui parlate non riesco a trattenermi…

    Biondillo, mi scusi, ma non c’è esatta dimensione che facciano mettere i figli se quell’esatta dimensione non esiste già in potenza o non la si è desiderata con tutta l’anima.
    Probabilmente mentre lei discuteva al tavolo dei suoi bambini, anch’io discutevo con un mio giovanissimo amico del suo bambino che, nonostante sia venuto fuori per incoscienza e nonostante questi non se ne penta affatto ma adori suo figlio a modo suo, beh…non gli ha dato nessuna giusta dimensione, se mi raccontava di esser collassato in auto col figlio per una partita andata a male e che perfortuna qualcuno l’ha soccorso. Lui non si pente della paternità come non si pente di essere tossicodipendente, che fine farà quel bambino? Ne avranno probabilmente cura i nonni (ed è già una fortuna averceli), sì e poi? Di quale esatta dimensione state parlando qui? Ma ci scommetto che più del padre sarà il figlio a morire di lacrime.

  17. Un figlio è un’occasione di redenzione. Da che? Da quella sorta di autismo di cui ogni anima è prigioniera, fin dalla nascita. Sbocciare per la prima volta al “noi”, dopo che quel “tu” fragile e indifeso fa appello a un cuore di carne che non sapevi nemmeno di avere. Le occasioni si possono anche perdere.
    Il mondo è pieno di occasioni perdute, ma finchè non decideremo di arrenderci allo squallore dell’autismo istituzionalizzato (i mondi possibili di Houllebeecq, per intenderci), ce ne saranno di nuove.

  18. voglio raccontarto la mia storia, Giorgio, per ringraziarti del pezzo…
    Qualche anno fa un paio di medici (un andrologo e il mio medico di famiglia) mi dissero, dopo alcuni esami (che avevano a che fare con aun provetta di plastica e un sega svogliata) mi dissero dunque che non avrei potuto avere figli. Ero un ragazzo, allora (sono ancora un ragazzo, lo sarò sempre, mi è costituzionale) e mi strinsi nelle spalle, fingendo indifferenza. Ma qualcosa dentro non funzionava. Mi sembrava lo stigma di quella differenza dalle altre persone che avevo sempre sentito. La prova. Già allora pensavo che riprodursi, che trasmettere parte di noi attraverso i geni e, in seguito, i nostri memi, sia la nostra immortalità. L’unica che abbiamo. Quando, l’anno scorso, la mia compagna mi ha detto di essere incinta e poi è nato mio figlio mi sono trasformato in lacrime. Davvero. E’ difficile spiegare…
    @ Helena: è vero quello che dici…non siamo genitori perfetti ma quando vedi qualcuno comportarsi male con i figli non puoi evitare di pensare che sia una brutta persona…in realtà sta trattando male se stesso…lo vedo con mia sorella. La amo come una volta, ma quando vedo come tratta i propri bambini (troppa competizione, insofferenza, ecc) cerco di tnermi alla larga, ho paura che mi contamini con questo suo odio verso la vita.

  19. Quando ho perso mio padre ho sentito che nulla più mi separava dalla morte. Una linea dritta – come quelle che si vedono sui micro schermi dei navigatori- senza più filtri, barriere, si è imposta al paesaggio della mia esistenza. Il fatto di non avere figli mi fa sentire alla mercè di un attacco alle spalle, non essendoci progenie a difendermi. In questa dimensione – quanto temporanea?- l’unica consolazione è di non crepare sotto i colpi del fuoco amico.
    effeffe

  20. “E’ così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l’essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo – Socrate – ciò che è mortale partecipa dell’immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; non c’è altro modo. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall’amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell’immortalità”.

    Diotima, PLATONE, “Simposio”

  21. D’accordo, Maria (Valente) i figli “mi” danno l’esatta dimensione, nel tempo e nello spazio. A me. Non posso palare per tutti. I problema è che davvero è talmente totalizzante la genitorialità che tendi ad estenderla all’universo mondo, platonicamente.
    Comunque fra i migliori genitori che ho conosciuto ci sono proprio quelli che hanno adottato un bimbo. (anche questa non è, ovviamente, una legge universale). E, ve lo giuro, i figli assomigliano sempre ai genitori adottivi, intendo proprio fisicamente, sempre.
    Concordo con sergio pasquandrea che la genitorialità si conquista strada facendo, non è una cosa semplicemente innata. Anche quella delle madri.
    M’avete fatto venir voglia di mandare una mia poesia sull’argomento. ma sono in partenza. Vedo se trovo il tempo…

  22. Ciao Gianni,

    oltre a bellissimi libri scrivi anche poesie?
    scrivi scrivi…che io leggo!
    un abbraccio
    carla

  23. ciao giorgio
    io quasi non ricordo più com’ero prima, quando non avevo figli. Distinguo, nel passato, la sensazione che avevo di poter fare tutto, viaggiare e uscire quando mi andava, dormire solo quando avevo sonno e svegliarmi solo quando i doveri mi obbligavano. Ero una donna, amica, compagna, figlia. Punto. Organizzavo la mia vita seguendo ritmi miei. Poi sono rimasta incinta. Capisco che per un uomo sia diverso, ma sentire un esserino che ti cresce dentro è una cosa strana. Ti vedi il ventre crescere, e dentro una personcina che è fatta di cellule anche tue, comincia a calciare e a girarsi, o ad avere il singhiozzo. Poi lo partorisci, e te lo ritrovi in braccio. E tu non sei più solo donna, amica, compagna e figlia. Sei soprattutto madre. Madre di un esserino che dipende da te.
    E non puoi più uscire quando ti va, e vivere seguendo ritmi tuoi. I figli ti tolgono la possibilità di vivere “secondo te”, devi vivere “secondo loro”. Ti liberano di un sacco di roba, che sembrava fondamentale prima e poi capisci che si sta benissimo anche senza.
    Ti racconto il mio pomeriggio di ieri. Alle tre ho finito di aiutare Marco, prima elementare, con i compiti (le paroline capricciose con la “cu” e la “qu”), poi ho fatto la spesa, dato che oggi sua sorella Caterina andava in gita sulla neve con la scuola e in frigo non c’era niente per fare panini. Tornata dalla spesa ho caricato i figli in macchina, accompagnato Marco a calcio, poi Caterina dall’allergologo per il vaccino contro l’allergia, terza dose. Ho atteso in ospedale che l’iniezione non avesse effetti collaterali, poi ho portato Caterina a casa, sono andata a prendere Marco, l’ho messo sotto la doccia, consolato per due botte ricevute e incerottato. Dopo sono andata alle scuole elementari per la consegna della sua prima pagellina. Le maestre mi hanno detto che è un intelligente e bravo bambino. Ho toccato il cielo con un dito. Sono tornanta a casa e ho preparato la cena. Poi è venuto il fabbro, ora di cena!, ad aggiustare la serratura del portoncino nuovo.
    Questa mattina sono a casa dal lavoro. Ho la febbre. Forse ce l’avevo anche ieri, ma chi se n’era accorta.

  24. Il pezzo è molto interessante.
    Tuttavia.
    “Questa apparente bestialità è invece una condizione profondamente umana: poter fare il bene proprio malgrado, senza credenziali e senza garanzie, senza essere autorizzati.”
    In che senso fare un figlio è “fare il bene”?
    Se fare il bene è un atto che afferisce l’etica, che a sua volta concerne problemi di comportamento verso terzi, in che senso fare un figlio avrebbe a che fare con l’etica, invece che con la biologia?
    Se generi un figlio gli “fai del bene” per il solo fatto di averlo generato?
    Di aver determinato le condizioni della sua esistenza?
    Nemmeno parlerei di fare il bene in riferimento alle cure parentali, che sono compulsive e genetiche (io lo so per esperienza), dunque evolutive.
    All’etica afferisce invece l’adozione, probabilmente, nel senso del prendersi cura di un cucciolo abbandonato.
    Ma anche lì resta il problema orribile di imporsi come GENITORE a qualcun altro, facendosi carico della sua “educazione”, cioè del suo addestramento alla vita come formattazione mentale.
    La famiglia, da qualsiasi punto di vista la vedi, resta un sanguinolento trita-carne.

  25. “resta il problema orribile di imporsi come GENITORE a qualcun altro, facendosi carico della sua “educazione”, cioè del suo addestramento alla vita come formattazione mentale.
    La famiglia, da qualsiasi punto di vista la vedi, resta un sanguinolento trita-carne”.

    Non solo la famiglia, se è per questo. Lo dico da insegnante: è qualunque processo educativo che rischia di trasformarsi in un gioco al massacro. Se mi guardo da fuori, mi vedo imporre a degli adolescenti, con tutte le loro legittime e naturali pulsioni fisiologiche, lo studio della canzone petrarchesca e delle dinamiche storiche dell’assolutismo nell’ancien régime. Mi dico che gli servirà (?), che sto formando le loro menti (??), che anche un brutto voto li aiuta a crescere (???), che anche stare seduti ad ascoltarmi per mezz’ora invece di farsi una canna in bagno è educazione (????). Ci devo credere, in un modo o in un altro.
    Poi penso al rapporto tra me e mio padre, che è uno sfiorarci il meno possibile, come se un qualsiasi contatto, epidermico o psicologico, fosse penoso, urticante, umiliante. Però sto per diventare padre, e dovrò proibire a mio figlio un sacco di cose che la sua natura lo porterebbe a fare: andare in giro nudo, mangiare con le mani, urlare quando gli va, dormire quando gli va, scorreggiare quando ne sente il bisogno, prendere a pugni un amichetto che gli ha fregato il giocattolo, buttare all’aria i libri per correre fuori a giocare, dire a uno stronzo che è uno stronzo.
    Mi dico che, certo, dovrà anche arrivarci da solo, che a poco a poco capirà, che man mano gli spiegherò il perché, ma come distinguere il capire dal “formattarsi”, l’educazione dall’omologazione?
    Però anche qui ci devo credere, perché qual è l’alternativa?

  26. carla bariffi, ok. lei ama biondillo. va bene. comunque anch’io scrivo poesie. la notte, pensandola. legga questa:

    vorrei avere un figlio
    lo chiamerei carlo
    sul lago di como
    con perry como
    che canta
    magic moments
    con me all’unisòno.
    carla bariffi
    mi dica di sì
    io sono qui
    pronto
    disposto
    in grado
    con l’aperol soda
    in una mano.
    carla bariffi
    se lei c’ha il gattone
    io c’ho il cagnone
    che è pure un filone.
    et cetera.

  27. Lei si sbaglia caro Sitting Targets
    io amo Michele Ferraro!
    Però lei è proprio simpatico!
    deve aver letto un sacco di fumetti da giovane….

  28. Aveva sei mesi esatti e quella sera mio marito rientrò dal lavoro che erano le dieci passate. Posò la valigetta sulla sedia nell’ingresso, si tolse il giobbotto e venne in cucina.
    Io l’aggredii, piangendo, che la cena era sulla tavola e che ora me ne andavo a dormire, che ero sfinita perchè la bambina era tutto il pomeriggio che voleva stare in braccio e piangeva se mi fermavo anche un istante, che non riuscivo a calmarla e che ero a pezzi.
    Lui fece un mezzo sorriso e se la prese.
    Non mi lavai neppure i denti tanto piangevo, indossai il pigiama e me ne andai a letto, a singhiozzare al buio e a sentire che succedeva.
    Spense la televisione.
    Dopo pochi minuti già non sentivo più nulla: Mi alzai per spiarli. Lui mangiava e lei, seduta nel seggiolino vicino alla tavola, giocherelleva con le mollichine, una se la infilava in bocca e l’altra la infilava nella bocca di papà che, sorridendole, faceva finta di mangiarsi pure il ditino.
    Tornai a letto che non avevo più nemmeno le lacrime da piangere.
    Dopo meno di un’ora la bambina dormiva tranquilla nella sua culletta di fianco a me.
    Anche lui venne a letto, e senza dire nulla, senza neppure controllare se avessi gli occhi aperti o chiusi mi abbracciò.
    Se quella bambina non fosse stata mia biologicamente, se l’avessi cioè adottata, non credo che mi sarei mai più perdonata quella sera.

  29. carla bariffi, io leggevo superman. perché mi identificavo. e braccio di ferro. per la stessa ragione.
    lasci stare ferraro e si beva un calice di ferrari con l’underwritten… sono simpatico sì. ai privilegiati…

  30. @sergio pasquandrea
    il tuo commento è toccante.
    all’educazione non c’è alternativa e non è augurabile che ci sia.
    tuttavia ci si può sempre riferire ai padri per fare esattamente il contrario di come facevano loro con noi.
    cioè si può educare cercando di ridurre per quanto possibile la sofferenza reciproca, che tuttavia sempre un po’ resta.
    se stai per avere un figlio posso darti un’indicazione (chiedo scusa per la presunzione): parlagli sempre come fosse un adulto.

  31. Ho appena letto il pezzo magnifico di Giorgio Vasta. I commenti di Maria Luisa e di effeffe mi hanno commossa. Anch’io faccio parte della schiera senza figli. E spesso sono triste perché mi sento come una pianta isolata, debole: nessuna terra da fertilizzare; un amore latente sprecato.
    Un figlio con effeffe? Perché no? Spero che mi perdonerà questa libertà di linguaggio.

  32. @véronique: grazie, bello condividere con te. Su effeffe, véronique, mi raccomando fai una breve indagine sul genoma dandy. A senso, il/la bimbo/bimba potrebbe non dormire mai, gironzolare curiosissimo/a appena lo si lascia gattonare, vedere cosa succede a far cadere un vaso Venini di fronte agli occhi di mamma/papà, richiedere pigiamini in tinta con le calzine e il marsupio. Per non parlare del momento in cui riuscirà ad articolare le prime frasi trilingue francese-napoletan-italiano in rima. Pensaci, anzi pensateci :-)

  33. E’ strano, ma questo pezzo, diversamente da quanto accaduto agli altri lettori, non mi ha suscitato considerazioni sugli aspetti “ontologici” della genitorialità. Mi ha colpito più il modo di definire la responsabilità come evento incontrabile, presente, dotato di una valenza temporale e privato di connotati moralistici.
    Ho sempre pensato che la responsabilità fosse tutto questo e che, in qualche modo, rispecchiasse un lavoro di lenta costruzione.
    La procreazione quindi è un atto irresponsabile e il prenderne coscienza viene dopo, forse.
    Ma davvero, chiedo all’autore, pensi valga anche per la scrittura?

  34. @ tashtego
    “Ma anche lì resta il problema orribile di imporsi come GENITORE a qualcun altro, facendosi carico della sua “educazione”, cioè del suo addestramento alla vita come formattazione mentale.
    La famiglia, da qualsiasi punto di vista la vedi, resta un sanguinolento trita-carne.”

    Non ti sembra di generalizzare ? La mia casa è l’unico posto al mondo dove sto bene e la mia casa è, ovviamente, la mia famiglia.
    Dipende, sempre.

  35. Tashtego, io invece condivido quasi tutto quello che scrive, e mi chiedevo come uno che la pensa così come me ( che la famiglia sia una cellula microterroristica che pure, per una qualche assurda banalità in cui tutti prima o poi si casca, si finisce per rimpiangere quando si sfalda), sia riuscito ad andare a muso duro contro tutti i suoi princìpi, a sfidare tutte le sue disillusioni, a decidersi un giorno a saltare quel fosso ad occhi chiusi, a precipitarsi giusto in mezzo al tritacarne per la seconda volta e in tutta coscienza…ad ogni modo, non so quanto possa farle piacere, ma credo che lei sia uno dei pochi che mi sarebbe (quasi) piaciuto come padre.

  36. Non si tratta di fare un computo se la famiglia sia più spesso un nido o un tritacarne: il problema è che la famiglia non ha alternative, e si carica di tutte le bellezze e di tutte le brutture che gli uomini sono capaci di farsi l’un l’altro.

  37. @ tashtego
    più che parlare sempre come ad un adulto, direi di parlare sempre con autenticità. che non presuppone l’adultità.
    avere figli costringe ad educare. e certe volte è terribile. tanto quanto fare i conti con sé quando non se ne ha voglia. tanto quanto digerire gioco forza la propria responsabilità.
    concordo con chi ha testimoniato la toccante bellezza di alcuni commenti.

  38. @ maria valente

    ‘Tashtego…credo che lei sia uno dei pochi che mi sarebbe (quasi) piaciuto come padre.’

    aaaahhhhhhrrrrrrrrrgggggggghhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh

    abbiamo trasmesso: ‘tre passi nel delirio’

    quìzzzz

    1) di chi erano i passi?
    2) chi interpretava il ruolo del ‘delirio’?
    3) è vero che NI ultimamente ha strani effetti allucinogeni?

  39. Quando un uomo di 26 anni dice di scoprirsi, a volte, a fantasticare un figlio da coccolare, da accudire, viene guardato strano. Una donna invece c’ha “l’orologio biologico”, l’uomo? no.

  40. deve esser simpatico avere un numero di figli ordinati su una scala anagrafica; averli visti crescere nel pancione, uscire dalla grotta, aumentare di peso ed in lunghezza, ed iniziare a pensare, ad esplorare per casa nelle segrete di quelli che già cerano.
    E poi rifare una parte del percorso ogni volta per il nuovo arrivato; ma solo con una parte di se; bisogna avere un occhio anche per quelli che già sono al mondo.
    Deve essere faticoso, ma molto divertente.
    A me se tutto va bene, me ne appioppano da due a tre in una botta sola, se tutto va male anche 6; ovviamente dispersi su una scala angrafica.
    Sempre si spera; in effetti non c’è alcuna certezza di ciò; potrebbero essere tre gemelli di X anni e tre di Y anni.
    UHmmm, non ci avevo pensato.
    Vabbè oramai mi voglio divertire anche io a fare il buon padre educatore.
    Questa procedura si chiama adozione internazionale.
    Di questi tempi risulta meno difficile in paesi come il Brasile, dove appunto capita di vedersene presentati marmocchi tenerissimi a gruppi di tre e multipli di tre.
    Quando torneremo, semmai torneremo, dopo due mesi di vita sud-americana, la prima cosa un corso full-immerssion di tecniche di comunicazione di massa per web-nauti.
    e tante belle parole, parole, parole,…………tutte quì.

  41. Il post di Vasta sollecita in varie direzioni.
    L’etica della responsabilità parentale, genitoriale – fermo restando il dubbio che si tratti di vera etica, che contenga cioè la scelta tra i suoi dati fondanti – è arma a doppio taglio, contiene una potenziale (a mio avviso certa) offesa verso l’oggetto delle nostre cure, verso quel figlio/a generato o peggio adottato, cui imporremo la nostra stupidità le nostre fisime e convinzioni, che instupidiremo con superstizioni spiritualiste cattoliche e non, con chiameremo Benito oppure Illic a seconda delle nostre convinzioni politiche (casi veri), al quale ci sentiremo in dovere di dare schiaffi, oppure baci a seconda di quanto ci sentiamo incazzati col mondo, cui imporremo il nostro corpo e il nostro odore, la nostra faccia, la nostra noia assieme all’incapacità di capire il suo mondo, oltre che il nostro. Faremo di tutto per farlo diventare un imbecille a nostra immagine e somiglianza, un’altro disgustoso imbecille che cammina sulla superficie del pianeta, che farà lo stesso coi suoi figli e così via: questo è quello che in realtà accade la maggior parte delle volte.
    Se non fosse così l’orrore del mondo passato, presente e probabilmente futuro non sarebbe spiegabile.

  42. Grazie Mauro. Inizia ad agosto, per la precisione, in piena estate, probabilmente proprio sotto il solleone…

  43. Tash, concordo. Con un’aggiunta, però: i millimetri di territorio in cui, a volte, gli avi non si propagano sui figli,- o per resilienza dei secondi o per gli infinintesimali gradi di libertà guadagnati dai genitori- sono anche l’unica “luce dell’avvenire” che io riesca ancora a prendere sul serio.

  44. sono la madre che avrei voluto avere.
    mia madre mi ha insegnato questo, ed io ora le sono grata.
    mia madre non sapeva amare ,non ne era capace. lei non era stata amata e non poteva, non riusciva ad amare. mia madre è un essere completamente inconsapevole, completamente in balia della vita.
    io la guardo ora, vecchia, i cammellini che le portano via pezzetti di memoria, cammelini che si portano via anche un po’ di dolore, cammellini che la stanno portando via, cammellini del cazzo, e mi si stringe il cuore per tutta quella vita priva d’amore, io, che ho imparato da lei, da lei, ad amare tanto, ad amare i miei figli che ho voluto, cedendo all’istinto della speranza.
    io ho per donato mia mamma, da tanto tempo e mi sento in pace con lei.
    per il resto concordo con tash :))
    baci
    la funambola

  45. se avrò in figlio, non voglio essere come mia madre! l’ho sempre pensato (non glie l’ho mai detto). Ma, mi succede più spesso di quanto potessi immaginare di ripetere sue frasi, urlare stesse imprecazioni e forse avere anche i suoi stessi stati d’animo (non me ne ha mai parlato).
    ………..ma nonostante tutto: le ore di sonno perse, , le amiche (senza figli) sparite, le promesse mancate, i sogni rimandati, partorire un figlio è meraviglioso, ma crescerlo ancor di più .

  46. Lei mi darà un bambino

    Una casa bianca, viviamo io e lei
    Un piccolo giardino e un mondo per noi
    Coi fiori sul soffitto, coi fiori sopra al muro
    Coi fiori sotto il letto, persino sopra il tetto
    Lei mi darà un bambino

    Nove mesi fa lei mi disse che
    Aveva una sorpresa grande per me
    Il sole a casa mia, ridemmo di gioia,
    Danzammo in cucina, la strinsi a me vicina
    Lei mi darà un bambino

    E per avere un bimbo lei pregò
    Ma per non farmi male non parlò
    E quando non dormiva di notte mi guardava
    Io so che lei piangeva, io so che lei sperava
    Lei mi darà un bambino

    Amore nella casa, amore fra di noi
    Amore giù in giardino, amore come mai
    Amore sul soffitto, amore sopra il muro
    Amore sotto il letto, persino sopra il tetto
    Lei mi darà un bambino

    Quando vien la notte
    E io so che lei dorme
    Mi avvicino piano, senza far rumore
    Con l’orecchio ascolto a lungo il suo cuore.

    E nel silenzio sento
    A volte un movimento
    E nel buio vedo proprio lì vicino
    Una testa bionda
    E il sorriso del mio bambino.

    Poi io guardo lei,
    La vorrei, oh come la vorrei
    Sono un uomo e la vorrei…
    Ma io so che non si può
    E soffrendo mi dico no,
    Tu devi restare buono ancora per un po’

    Come si fa,
    Sentire il tepore del suo corpo accanto a te
    Ed amarla come mai e sapere che tu non puoi…

    Il buio se ne va…
    Il sole è già quà
    E il mio bambino nascerà…
    Che cosa…? Non ti senti bene…?
    Credi che sia venuto il momento…? Non scherzi…? E’ vero?
    Allora prendo l’auto… Oh cara, è meraviglioso si, lo so
    Tu mi darai un bambino

    Non preoccuparti, ho tutto…
    Lo spazzolino, quella vestaglia nuova che ti ho comprato
    Piano, piano… c’è un gradino…
    Guiderò dolcemente, e andrà tutto bene, vedrai, vedrai…
    Lei mi darà un bambino

    Io guido e intanto tremo
    E prendo la sua mano
    Un grido di sirena mi esce dal cervello
    Sopra al suo viso non c’è nessun sorriso
    Mordi la mia mano, ti amo…
    Lei mi darà un bambino

    Guardando la mia faccia sul pavimento sporco
    Di un anonimo ospedale, io sogno un grande parco
    Ma dov’è lei? Son dieci ore ormai
    Che cosa accade mai? Che cosa accade mai…?

    Arriva un dottore, finalmente
    Dopo tante ore… c’è un’espressione strana in lui
    Mi chiedo, mi chiedo come mai…?
    Mi chiedo, mi chiedo come mai…?
    Lei… lei… cos’ha…?

    *

    Più l’ascolti, più capisci perché questo è il paese del mulino bianco (e del cavaliere nero).

  47. ‘E per avere un bimbo lei pregò
    Ma per non farmi male non parlò’

    Questo distico, veramente profetico, conteneva già l’annuncio dell’Italia ruìna e razzìnghera. Un’intera generazione, allevata nel silenzio, per future, mirabolanti crociate…

    Meditate, gente, medicate. O mendicate.

  48. @ Per Maria Luisa. Mi scuso per il ritardo. Non ho internet a casa. In effetti mi sembra saggio di seguire le raccomandanzioni. Il messagio mi ha fatto sorridere. Mi è piaciuta molto la visione umoristica del bimbo o della bimba.
    Grazie ancora per il commento tanto più che non parlo bene l’italiano, ma spero fare dei progressi.
    Con amicizia, Véronique.

  49. Ciao Giorgio,
    i figli! Sono arrivata a 30 anni senza desiderare di averne. Non volevo un matrimonio, non volevo bambini, avevo altri progetti. Poi però le cose hanno preso una piega diversa.
    Credo che la decisione di fare un figlio nasca da un desiderio del tutto irrazionale, di pancia e non di testa: ad un certo punto scatta qualcosa, se scatta.
    Quello che serve dopo è il figlio stesso a dartelo, se è un figlio voluto davvero.
    In questo senso diventare genitori è “diventare responsabili dell’irresponsabilità”: definizione perfetta.
    Essere pronti non significa niente: nessuno può sapere che genitore sarà, prima di diventarlo.
    Se dovessi dire perché si fa un figlio, direi che si fa per amarlo. Mi sembra l’unico motivo sensato. Lo stesso per cui si adotta un figlio.
    Quando in me è scattato quel desiderio, c’è stato qualche problema: due aborti spontanei ravvicinati, l’inquietante diagnosi di ovulo cieco, lo spettro di qualche crudele anomalia genetica per cui poteva essere che il mio corpo riconoscesse l’embrione come un nemico, di cui sbarazzarsi al più presto. Abbiamo pensato molto all’adozione. Abbiamo indagato un po’ su quello che poteva esserci che non andava, ma prima di scoprirlo (se mai ce ne fosse stata la possibilità) si è messo in viaggio un ovulo che ci vedeva bene, che è arrivato a destinazione. Così è iniziata la vita con i figli. La cosa più bella è che con i bambini non puoi fermarti mai, ti allenano a cambiare sempre, tu trovi la chiave e loro cambiano la serratura.
    Oggi abbiamo tre figli: il terzo volevamo comunque adottarlo, ma lei è arrivata prima.
    Conosco tante storie di adozione, tutte molto diverse, nelle motivazioni della scelta, nel percorso burocratico, negli esiti (qualche volta disastrosi) sul rapporto genitori/figlio. Conosco genitori (biologici) meravigliosi, che sarebbero stati giudicati altamente immeritevoli di avere un figlio.
    Probabilmente, il problema delle pratiche di adozione è lo stesso che si ripropone in tutte le situazioni in cui bisogna regolamentare, standardizzare, uniformare, stabilire un percorso obbligato in una sfera così delicata e insondabile come il processo che trasforma un individuo in un genitore.
    Quello che mi sentirei di dire “a discolpa” dell’iter burocratico per le pratiche di adozione è che lì entra in gioco un’entità terza, “qualcuno” che non è l’aspirante genitore né il potenziale figlio adottivo, ma che per loro deve decidere. E non deve essere facile.

  50. The Writer

    In her room at the prow of the house

    Where light breaks, and the windows are tossed with linden,

    My daughter is writing a story.

    I pause in the stairwell, hearing

    From her shut door a commotion of typewriter-keys

    Like a chain hauled over a gunwale.

    Young as she is, the stuff

    Of her life is a great cargo, and some of it heavy:

    I wish her a lucky passage.

    But now it is she who pauses,

    As if to reject my thought and its easy figure.

    A stillness greatens, in which

    The whole house seems to be thinking,

    And then she is at it again with a bunched clamor

    Of strokes, and again is silent.

    I remember the dazed starling

    Which was trapped in that very room, two years ago;

    How we stole in, lifted a sash

    And retreated, not to affright it;

    And how for a helpless hour, through the crack of the door,

    We watched the sleek, wild, dark

    And iridescent creature

    Batter against the brilliance, drop like a glove

    To the hard floor, or the desk-top,

    And wait then, humped and bloody,

    For the wits to try it again; and how our spirits

    Rose when, suddenly sure,

    It lifted off from a chair-back,

    Beating a smooth course for the right window

    And clearing the sill of the world.

    It is always a matter, my darling,

    Of life or death, as I had forgotten. I wish

    What I wished you before, but harder.

    ( by Richard Wilbur )

    Mi è capitato di dedicare questa poesia a mia madre, forse perché non ho potuto dedicarla a una figlia (non ne ho). E’ buffo, ma io credo anche che i figli facciano da genitori ai genitori – non dico solo i casi disastrati come la mia amica Federica di Roma, che ora sto ospitando e dorme nella stanza affianco (le faccio un po’ da mamma in questi giorni): lei ha mantenuto i genitori da quando aveva dodici anni, è un caso eccezionale, ce ne saranno altri ma è comunque lo straordinario almeno in Italia, in Europa, in Occidente. Ma (è una domanda ai genitori) mi pare che fare un figlio sia anche una rinascita per cui, mentre materialmente ci si occupa di loro riconoscendone l’assoluta dipendenza, i bambini si occupino degli adulti, senza il nostro paternalismo, narcisismo, insicurezza. Fanno domande che sono insegnamenti, ad esempio.
    Lavoro molto coi bambini (ma ripeto, non sono mai stata madre, per cui – ) e credo che se li lasciassimo governare e gestire il mondo forse gli errori e gli orrori diminuirebbero esponenzialmente. Indipendentemente dai loro genitori e dalle differenti situazioni sociali in cui crescono, mi paiono sempre più intelligenti e sensati di noi “adulti”. Quindi mi chiedo se davvero i figli abbiano bisogno di genitori o non siano i “grandi” che per svariati motivi più o meno consapevoli e/o nobili non sentano a un certo punto la necessità di rinascere mettendoli al mondo. Sperando di salvare sé stessi, in corner, dal tritacarne!

  51. Due figlie ed io mamma incoscienza. Babby shampoo e figlia delle mestruazioni sono le amiche che non ho scelto, le sorelle dal sangue misto, il frutto della mia polvere, il luogo dove vanno a morire le mie lacrime. Ad ogni etto guadagnato, tronfia sorrido al vero miracolo che non è l’allargare le gambe per smatrare 9 mesi dopo bensì custodire quei bei faghotti pezzo di cuore fuori dal grembo. Io insicura, io imperfetta, io che soffro e poi sorrido, io che non ci sono più solo io e loro noncuranti che calpestano la mia vita di gioia, una dall’alto di una nuvola e l’altra distesa al mio fianco.

  52. Purtroppo per figliare non sono necessarie autorizzazioni. Anzi. La riproduzione viene da tutti indicata come una benedizione.
    Capita così che, su tredicenni ingravidatesi durante quello che doveva essere un piacevole gioco, vengano esercitate pressioni perché non abortiscano o, nel caso in cui si riesca a convincerle che si tratta della soluzione più ragionevole, che i sensi di colpa indotti da luoghi comuni e melensaggini sulla genitorialità, carichino le povere bambine di assurdi sensi di colpa per aver “ucciso” l’embrione che si era insediato in loro .
    Certo, avere figli è naturale. Ma noi non viviamo più allo “stato di natura”. Nella misura in cui siamo riusciti a farlo, la natura l’abbiamo piegata ai nostri bisogni. Figliare, quindi, comporta delle conseguenze non solo per chi decide di farlo, ma anche per tutti coloro che a tale proposito sono estranei.
    Ed è qui che entra in ballo la questione del diritto alla maternità e il dovere della collettività di sostenere tale diritto. Dovere su cui concordo pienamente. È giusto che lo stato tuteli i diritti dei singoli. Compreso il diritto alla riproduzione. Ed è doveroso che ogni cittadino si assuma una parte dell’onere derivante dalla difesa di questo, come degli altri diritti.
    Ma dal momento che il diritto alla procreazione comporta delle conseguenze per la collettività, tale diritto andrebbe sottoposto ad un qualche vincolo.
    E dal momento che tale diritto ha un costo per la collettività, tale diritto deve avere dei limiti.

    Ovviamente coloro che figliano tanto non sono d’accordo. Ma è normale. Anche coloro che portano a pisciare i loro cani in giro non sono d’accordo con l’affermazione che la pipì dei cani puzza e che tale puzza era sopportabile quando di cani ce ne erano pochi e che non lo è più adesso che il cane lo hanno tutti perché avercelo è trendy.

    L’affermazione di “scorz” secondo la quale -”se li lasciassimo- (i bambini) -governare e gestire il mondo forse gli errori e gli orrori diminuirebbero esponenzialmente”- mi pare proprio, mi perdonino le sensibili orecchie dei gestori e dei lettori di questo blog perbene, una solenne stronzata. I bambini sono “naturalmente” sadici e crudeli. Tirano la coda al gatto, bruciano le formiche o, come nell’Apollo Sauroctono di Prassitele, ammazzano le lucertole.

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