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Un piccolo premio in Brianza

di Marco Rossari

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Mi aveva incastrato una vecchia amica scrittrice.
“C’è un premio in Brianza. È intitolato al figlio di una mia amica. Lui è morto un paio di anni fa, giovanissimo. E voleva scrivere. Insomma hanno organizzato questo concorso per ragazzi sotto i vent’anni. Io sono in giuria. Non c’è pubblicazione, danno ai primi tre un po’ di soldi. È un modo per stare insieme. Cercano qualcuno che legga ad alta voce i testi di Daniele. Solo che non si possono permettere un attore. A me sei venuto in mente tu. Hai quel bel vocione.”
“Non so…”
“Allora li avviso subito. Ti faccio chiamare da loro. Intanto ti mando il libro… Daniele, quel ragazzo, aveva scritto qualche racconto. Hanno riunito i frammenti in un libricino a loro spese. Tra mezz’ora è a casa tua.”

Subito dopo mi aveva chiamato la madre del ragazzo. Si era detta commossa. Io mi ero schermito.
Volevo un rimborso spese?
“Non è il caso.”
“Grazie, grazie. Ce la fa a leggere i testi per stasera?”
“Li ho già ricevuti.”
“Grazie ancora.”

Il libro di Daniele era uno smilzo volumetto verde. Meno di cento pagine stampate a caratteri cubitali. In copertina c’era una farfalla elaborata al computer. Il nome del ragazzo. Il titolo: Thisiswhatiwrite. Sottotitolo: Pensieri sull’arte e sul mondo. Dietro raccontavano il suo calvario. Un linfoma maligno. Quattro anni di cure. Chemioterapia. Un autotrapianto di midollo. Poi due anni di tregua. Due anni che erano stati la fine del liceo, qualche viaggio, l’iscrizione all’università. Aveva scelto Lettere, naturalmente. Due anni che erano il momento più spensierato della vita. Ma in fondo ai suoi due anni c’era stata la recidiva. Non si era riusciti a trovare un donatore compatibile per un altro trapianto. Avevano fatto un tentativo disperato con un donatore non completamente compatibile. Un disastro. Era morto a ventun anni. Questa quarta di copertina era scritta in modo asciutto. Non avevano girato intorno alle cose. Morto, c’era scritto. Non mancato. Non scomparso. Niente eufemismi. Morto. È così che si dice, no?
Nella premessa ai testi, dentro, si spiegava che Thisiswhatiwrite era il nome del file sotto il quale erano stati rintracciati i brani. Non “racconti” o “testi” o “poesie” o cose simili. This is what i write, ecco cosa scrivo. Un giro di parole. La tipica reticenza degli scrittori in erba. Chissà quante ragazze, quanti ragazzi questo Daniele aveva incontrato nei primi mesi dell’università che gli avevano raccontato baggianate tipo: Voglio scrivere, puoi farlo di notte, sei svincolato dal lavoro. Il luogo comune della Creatività, della Musa, del Demone. Invece lui no. Si trincerava dietro un’ambigua scritta inglese. Nel libro c’era anche la foto. Un ragazzo con la frangia lunga e gli occhi curiosi, seduto davanti a un bicchiere di vino. Non sorride, ma non perché sia scorbutico. Sembra non dare importanza alla foto che gli stanno scattando, come se avessero interrotto una bella chiacchierata.
All’inizio questa storia del libro mi aveva spaventato. Li avevo presente quei manufatti. Cinquanta pagine incollate alla cazzo con una copertina orrenda e due righe di introduzione a una serie di poesie impresentabili. L’impaginazione sballata. L’orgia di refusi. Le sgrammaticature. E la morte prematura purtroppo non rendeva qualcosa di scritto migliore. E quei libri equivalevano il più delle volte ai fiori disperati appoggiati al guardrail dove si è schiantata una macchina.
Ma non era questo il caso.
La carta era buona, la confezione dignitosa e l’immagine di Daniele non era stata schiaffata in copertina, come se quella fosse la sua lapide. Il libro conteneva una succinta introduzione, una prima sezione di brevi testi, un abbozzo di romanzo, una poesia, qualche articolo scritto per il giornalino della scuola e una coda di testimonianze altrui sulla sua generosità e la sua voglia di vivere.
Poi, avevo letto.

La sera ero uscito. In mezz’ora ero arrivato nei pressi del paese. La premiazione si svolgeva vicino al municipio, in una vecchia villa.
Al primo piano era stato allestito un buffet. Ero in ritardo e qui non c’era nessuno. Di sopra, una sala imponente ospitava un centinaio di persone. Mi ero avvicinato al tavolo centrale con i microfoni. La madre di Daniele, una grossa signora dall’aria premurosa e accorata, doveva avere intuito che quello sciamannato che risaliva il corridoio ero io: l’ “attore”, come mi avrebbero chiamato da quel momento in poi.
“È arrivato l’attore,” aveva annunciato agli altri dopo avermi stretto la mano e ringraziato per l’ennesima volta.
Eravamo pronti. Io ero la voce, il microfono, il veicolo, il tramite, lo strumento. Dovevo solo leggere qualche brano di Daniele in apertura e poi avrebbero premiato i tre vincitori.

Mi avevano regalato una bottiglia di vino. La madre mi aveva stretto la mano commossa. Poi erano passati al buffet. Io mi ero dileguato. In macchina, avevo ripensato agli scritti di Daniele. La cosa più dura della serata era stato leggere il brano iniziale. E quella sensazione non mi voleva lasciare in pace. Me l’ero portata dietro per la buia campagna brianzola, per quel paesino nebbioso da lupi mannari, in mezzo a quella folla di devoti del dolore, sulle spalle di un ruolo non mio, l’attore venuto apposta per l’occasione, l’appassionato lettore, il garbato interprete delle parole di Daniele stesso, così gentile da non chiedere nemmeno un rimborso spese, e in mezzo a tutta quella folla luttuosa che vociava con una pizzetta in bocca accrocchiandosi intorno a un banco con sopra i libretti di Daniele, in mezzo a questo purgatorio pseudoletterario quella sensazione aveva resistito a tutto.
Attraversavo di nuovo la nebbia. E pensavo a quel libro. Non c’era niente, dentro. La morte era deflagrata nei conati letterari di Daniele lasciando solo frammenti. Piccoli spicchi di dolore. Spunti vaghi, impennate liriche, approssimazioni: tutto il campionario di chi non sa da che parte cominciare, ma deve farlo.
Il romanzo era un tentativo abortito. Prima c’era scritto: “Nell’ultimo anno Daniele aveva spesso parlato con gli amici di un romanzo che aveva in testa di scrivere”. Riguardava gli angeli. Tre facciate. Quello non era l’abbozzo di un romanzo, come avevano scritto loro. Era un abbozzo e basta. La frustrazione terribile di chi parte per le nebbie di un romanzo che non ha in mente e si ferma subito. Lo sconforto. Poche idee ma confuse. Non sapere cosa scrivere e nemmeno come farlo. Una frase senza vita che ne segue un’altra ancora più spenta. L’ultima frase era stata addirittura lasciata a metà, senza nemmeno un punto. Il cedimento. Esiste qualcosa di più doloroso di questo?
Ma il libro di Daniele non era tutto qua. C’era anche la lotta di qualcuno che cerca di descrivere il Male con le parole inadeguate della sua età. “Sentirsi impotente, seduto su un letto aspetto di essere divorato da dentro dal male che io stesso ho creato o dalla cura che il mondo sta cercando.” Quante imprecisioni. Uno sta morendo e cerca di imbellettare la scrittura perché è così che gli hanno insegnato. Può anche provare a leggere Hemingway, ma essere asciutti è una pena troppo grande per un ragazzo. Ci vogliono gli orpelli, la pompa, la retorica, gli archi in sottofondo, le parole dei poeti, il pianto. “E sembri una foglia di autunno sempre più marcio e più secco: quasi fuggito dal brutto ricordo di un olocausto, stavolta non c’è nessuno da condannare.” Vent’anni e un male incurabile. Come poteva un ragazzo trovare le parole adeguate?
Mi era tornata in mente una scena a cui avevo assistito qualche anno prima. Su un autobus, in città. Faceva caldo. Di fianco a me, in piedi, c’erano una madre e una figlia. Vestite leggere, con occhi brillanti e dignitosi, stavano in silenzio. La madre teneva le mani sulle spalle della ragazzina, mentre la figlia guardava fuori curiosa.
“Mamma, è successo di nuovo,” aveva detto a un tratto, portandosi una mano al petto.
Un’ombra sul viso materno. “Ancora?”
“Sì, ancora.”
“Com’era? Prova a descriverlo.”
“Un colpo caldo, poi uno freddo. Poi di nuovo uno caldo.”
“Tre volte?”
“Sì, così. Prima caldo, poi freddo, poi caldo.”
“Domani andiamo dalla dottoressa e ne parliamo con lei. A casa lo scriviamo. Tu stai bene amore, vero?”
“Certo, mamma.”
Una bambina cardiopatica. Le aveva lisciato i capelli, perché l’aria che entrava dal finestrino glieli aveva scompigliati.
Bambini di fronte al Male. Come Dawid Rubinowicz, il ragazzino polacco di cui dopo la guerra era stato ritrovato un diario, senza nemmeno il talento di Anna Frank. E che pure il 28 febbraio del 1942 aveva scritto: “Ormai ci siamo messi nelle mani di Dio, siamo preparati a tutto a braccia aperte”. Da che parte bisognava prendere il Male quando arrivava? A braccia aperte?
E poi si sentiva che Daniele di giorno in giorno migliorava. Un piccolo poeta spaurito sull’orlo dell’abisso che si siede al suo tavolino del cazzo e ci riprova per l’ennesima volta, dai forza le parole verranno, un romanzo, magari un racconto, al massimo una poesia, qualche frase, una sola parola che spieghi la mia morte. Invece niente, non succede niente. E chissà forse Daniele non avrebbe nemmeno voluto che quella roba venisse letta. Invece quelle parole restano incistate lì, come un groppo in gola. E continuano a stamparle, le distribuiscono a tutti, perfino all’attore improvvisato che è stato così gentile da raggiungerci con quella nebbia. Ma tutto questo aveva senso? Eppure in questa raccolta già postuma una cosa funzionava.
C’era una poesiola. In extremis, con tutto quel dolore, una goccia d’acqua pura era scesa.

Una farfalla che cade
si porta dietro
la sua anima
e il suo male.

Dopo la chemio e i trapianti e lo strazio della carne, questo ragazzo aveva trovato la forza di rappresentare la morte come una farfallina? Niente di che. Ma la morte come una piccola, scura farfalla leggera nera che si posa sulla spalla del mondo era un tentativo. Una specie di colombre fragile. E lui la vede subito, a vent’anni. Ti dicono di non guardare, ma invece sei un ragazzo coraggioso e allora guardi quella creaturina posarsi sulla tua pelle. Le sorridi? Nonostante tutte quelle radiazioni? Ripensavo a Pripjat’, quella che chiamavano la città del passato. Il borgo che sorgeva vicino al reattore di Cernobyl’. All’inaugurazione, a metà degli anni Settanta, era stata annunciata come la città più giovane del mondo. E invece era stata quella con la vita più breve. Muor giovane colui che al cielo è caro.
E soprattutto, mentre tornavo a casa, aveva pensato all’estrema supplica in una delle sue paginette. “Parole, non voglio soltanto lasciar parole.” La vita che, finalmente, ha il sopravvento sulla letteratura.
E così sia.

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23 Commenti

  1. Questo pezzo non mi sembra un granchè…
    La cifra linguistica mi sembra dimessa e alterna buone intuizioni a cadute di tono evidenti.
    Il senso del testo è interessante, ma segue strade incerte, torutosamente avvilupate su se stesse; vorrebbe essere qualcosa che però non riesce ad esssere fino in fondo…In questo senso l’ “e così sia” finale è esemplarmente un abisso colmo di briciole.

  2. Ciao Marco.
    Bello, anche se non son d’accordo sulla farfalla (che in poesia va sempre evitata come i gabbiani e i tramonti).

  3. Ricorderei amichevolmente a Giancarlo Tramutoli le poesie di Gozzano sulle farfalle, e, sui gabbiani, almeno una poesia di Primo Levi. Quanto ai tramonti, mi sembrano una ffra le sfide più difficili e ambiziose per un poeta, proprio perché apparentemente intrattabili e soffocati dalla stucchevolezza. La sacrosanta antiretorica, mi sembra, a volte tralascia per partito preso un sacco di cose che rimangono lì, abbandonate, non dette, o, peggio, nominate dentro il discorso esclusivo della retorica kitsch. Insomma, dire che qualcosa va “sempre evitato” in poesia significa abbandonarlo al nemico (mi esprimo in termini un po’ enfatici), ossia cederlo come esclusivo monopolio di altri discorsi, altri stili, altre posture linguistiche spesso caramellose o snaturanti. Mi figuro i poveri gabbiani e i poveri tramonti che aspettano qualcuno che gli dedichi una poesia presentabile, invece di subire gli ennesimi versi stucchevoli. Per spiegarmi ancora meglio, e in termini forse un po’ sempliciotti, ci sono un sacco di cose belle nella vita che aspettano però un discorso, un linguaggio (una “poesia”) che le liberi dal kitsch linguistico con cui sono trattate solitamente. Tutto questo lo dico senza alcun tono polemico verso Giancarlo Tramutoli. E’ un discorso a cui tengo.

  4. @ tiziano scarpa

    magari non c’entra una fava, ma mi viene in mente il piccolo manifesto nerudiano del 1935 – “su una poesia senza purezza” – che rivendica la necessità della poesia di occuparsi di ogni cosa, compresa “la malinconia, il consumato sentimentalis, perfetti frutti impuri della meravigliosa qualità dimenticata, lasciati dietro dal frenetico libresco”

  5. @Tiziano Scarpa
    Il principio teorico è giusto, ma certe immagini, certe parole sono logorate dall’uso e dall’abuso. Per dire, in pittura, non sopporto la Gioconda di Leonardo, e neanche quella baffuta di Duchamp. Si può cercare d’inventarsi qualcos’altro? Levi e Gozzano, infatti, non sono autori da me particolarmente amati. A me piace molto il gorgonzola, ma se qualcuno non lo ama, non mi scandalizzo. Poi tutto si può tentare. Anche scrivere una buona poesia con tramonti, gabbiani e farfalle. E’ una sfida titanica. Come cucinare un buon piatto con prodotti avariati. Sempre a mio modesto parere che a volte condivido. Ciao

  6. Bah, volevo entrare citando un capolavoro centrato sulla luce del tramonto, il simbolo di un potere immenso che si spegne, insomma volevo dire che col tramonto si possono esprimere cose altissime producendo come prova il “Carlo V alla battaglia di Mühlberg” di Tiziano (si trova al Prado). Mi ricordavo la luce calante, l’uomo più potente del mondo, quello che diceva Sul mio impero non tramonta il sole, avvolto in un tramonto-presagio, ma non so, cercando notizie in rete nessuno legge il dipinto in questo modo. Dicono – ed è sicuramente la verità – che Tiziano fu chiamato da Carlo V a dipingergli due ritratti, e quello a cavallo è il piu rappresentativo della ritrattistica celebrativa di un sovrano. Eppure al Prado me lo ricordavo come una tela che produceva un groppo in gola, in cui si vedeva benissimo che Tiziano spegneva quel sovrano guerriero con la luce del tramonto.
    Non so, trovo persino pochissime immagini del dipinto. Nei cataloghi a casa non è nemmeno riprodotto a colori, come fosse un quadro minore. Eppure la luce del tramonto me la ricordo…
    Non so più che dire.

  7. L’intervento di Tiziano (Scarpa, non Vecellio di cui parlo io :-)
    è di una bellezza cristallina, le ultime righe potrebbero muovere un esercito di artisti.
    Direte che sono un invasato o che mi paga il suo ufficio stampa. Ma che ci posso fare, mi pare che quello che dice sia così evidente, però non immediatamente evidente, perché per qualche motivo ti hanno portato lontano, ti hanno fatto perdere il senso dell’orientamento, allora non lo vedi più, almeno finché non c’è uno che trova la strada e chiama gli altri.

  8. perché la farfalla va evitata?
    Ricordate l’atropo nella soffitta della signorina Felicita. Anche lì un male, la tubercolosi, la morte imminente, e un esserino scuro, col teschio impresso nel disegno delle ali, e il nome della parca addetta al taglio della vita.

  9. Ecco, per l’appunto.
    La poesia della tisi.
    Preferisco di Pisano-Cioffi:

    …Tu sei come una fra-ffa-lla
    che svolacchi intorno a me…

    (La Pansè)

  10. a ciascuno ciò che si merita.

    p.s. Gozzano è un titano.
    Ma niente dogmi in letteratura. Di questo se ne può discutere, come dei gusti personali.

  11. non ho letto i precedenti commenti – credo che questo brano rientri in quell’idea di “poesia onesta” che nutriva Saba – mi ha davvero colpito – complimenti

  12. Tramutoli: “Poi tutto si può tentare. Anche scrivere una buona poesia con tramonti, gabbiani e farfalle. E’ una sfida titanica.”

    Ecco. Eroicamente m’immolo :-))

    La farfalla gialla
    Si sbatte come un battito di ciglia
    Mariposa che si posa
    E si riposa sulla merda
    Che emerge dai granelli
    Intrugli, plastiche e bargigli
    Tra’ cippi, i pali, i fusi
    Di centomille ombrelloni chiusi
    In un lungo e momentaneo
    Abbandono litoraneo.

    E ferma sul rifiuto
    L’ali leva e flette
    Con aritmica voglia
    Mentre l’astro muto
    Cala sulla soglia
    E trasmette al cielo
    Un liquido bruciare
    E un sentimento nero
    Che tutto preme e pigia
    Il sole e il suo bagliore
    sotto la linea del mare
    come fosse una valigia
    e qualcosa stesse per salpare
    in questo truce momentaneo
    tramonto litoraneo.

    E dal nero stringente
    Si sfila nella brezza la farfalla
    risucchiata sincopata in entroterra.
    Lasciando il campo libero agli spettri,
    alle bianche cadaveriche mani
    che nella tenebra frugano febbrili
    e stridono del rauco orribile
    grido dei gabbiani.

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