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Non è un film di Kaurismaki, non è nessun film, non c’è più nessuna poesia

faccia-viso.jpg

di Gemma Gaetani
 

«Sì, immaginavo di avere ancora la bronchite, me la sento, non faccio altro che tossire, ma almeno adesso la tosse è secca… Eh, ha visto? Proprio sullo zigomo… No, non mi sono bruciata, non so cos’è, credo il freddo. Nei giorni scorsi non ho messo niente sulla faccia, creme, tonico, niente, avevo altre cose da fare. Eh, lo so che ci si dovrebbe curare prima di andare dal medico… Ho la pelle delicata, questo freddo me la scuoia. Ma no, non m’è caduto niente sopra, glielo direi! No, non m’ha nemmeno graffiato nessun gatto, me lo ricorderei… Boh, dottore, non lo so proprio, presumo il freddo, l’altra mattina mi sono svegliata e avevo questa specie di ferita. Mi bruciava. L’ho guardata a lungo, cercando di capire cosa fosse. Poi era tardi, dovevo andare in ufficio, frugando di corsa ho trovato dei cerotti per le vesciche, di quelli che vanno tenuti finché la vescica non guarisce, e ce ne ho messo su uno. Nei giorni successivi il bruciore è passato, ma quando l’ho tolto ho notato che la ferita era sempre lì, più liscia ma pure più larga, in effetti sembra un’abrasione. Ah, mangiano la pelle quei cerotti. Eh, oh… Non lo sapevo, pensavo di far bene».


Dice che mi prescrive una pomata per quella e queste gocce per la tosse, basta con l’antibiotico. Dice sempre, pure, perché non me ne torno a Roma. Perché non posso, il lavoro ce l’ho qui, l’ho trovato qui, con i concorsi si trovava ancora lavoro all’epoca, gli rispondo sempre così. Quando uscirà l’interpello, il concorso per i trasferimenti dei dipendenti pubblici che non esce da anni, allora lo farò. Stavolta aggiungo questo dettaglio. È la prima volta che lo penso. E comunque non è mai uscito in questi anni.
All’uscita mi infilo subito in farmacia. Il freddo è uno sganassone in piena faccia (ho una faccia non un viso, non ho più un viso da quando sto qui). Altrove l’inverno è gentile. A Roma l’inverno è più gentile. (Quando ci torno, anche soltanto per due giorni, la mia faccia ridiventa un viso). Che cazzo è che dovrei comprare? (A Roma non le dico tutte queste parolacce, non sono mai nervosa a Roma). Cardiazol-paracodina gocce e Sofargen crema. (Perché non ho rifiutato il posto quando m’hanno detto che era a Milano, perché?).
Mi metto in fila. Davanti a me due signore e un cane. Si chiama Pepe il cane, una delle due (non quella che lo tiene al guinzaglio) lo chiama così, chiedendogli quanto è bello. «Quanto sei bello, Pepe? Eh, Pepe? Quanto sei bello?». Devono essere amiche, vicine di casa. Io non ho mai conosciuto un vicino di casa. Da quando sono qui ho cambiato quattro case e non ho mai conosciuto un vicino. Otto anni. Pepe non mi pare così bello, mi sta sul cazzo pure lui. Eppure adoro i cani, sono di quelle che li baciano sul muso, che li chiamano amore della mamma, patatina. O patatino se sono maschi. Che mi succede? Che cazzo mi succede?
Anche se non sono in fila per comprare un’insulina e dell’acqua distillata, non ho buchi che si possano vedere sulle mani, né quelli che non si possono vedere, braccia, gambe (me li ricordo tutti quelli che ho visto finché non me ne sono andata di casa, tutti, come fotografie) vado sempre più in paranoia (ecco perché te ne sei andata di casa, da Roma, non fingere di non saperlo), una paranoia proprio da tossico (l’ho vista, l’ho provata vista da fuori, la conosco bene), secondo dopo secondo (li sento ticchettare come gocce sulla pietra che è diventata la mia faccia questi secondi che non passano mai), me ne voglio andare in fretta da questa farmacia, da queste signore e da Pepe (nome del cazzo, sciure del cazzo). Mi dà fastidio il profumo e l’atteggiamento che hanno. Impellicciate, ridanciane: milanesi. Mi sento fuori contesto. Anche questa ferita, che cazzo è? Questa città mi sta consumando. Consumando. Me la tocco, mi brucia di nuovo, ora mi brucia di nuovo, mi viene da piangere, mi guardo intorno, ingoio il nodo che ho in gola. Tutto è milanese in questa città e me ne accorgo ora, come se mi fosse arrivato addosso un fascio di luce, un riflettore che costringe a dirsi la verità. Vorrei scappare da qui, scappare nelle braccia di mia madre.
Una voce vecchia, corposa e di donna prorompe nel soffocante ambiente mentale dei miei pensieri e in quello di cui siamo diventate statuine (la farmacista è lenta come la morte. Se fossimo a Roma qualcuno direbbe: «Ahò, che ce dobbiamo fa’ notte in farmacia, signori’? ‘Nnamo ‘n po’»…).
«Siete in fila? Questa è la fila? Signorina, lei è l’ultima? È dopo queste signore? Fa freddo oggi, vero? Così tanto freddo! Oh, un cane! C’è anche un cane!».
Mi giro a guardare la voce. Appartiene a una signora strana, ha l’aspetto di una nonna ma il nervosismo di un giovane fuori di testa, di un matto, di un tossico, pure lei.
«Sì, signora, io sono l’ultima», le rispondo. Sorridendo. Poco, ma sorridendo.
Lei continua il suo monologo. «Bisogna uscire ogni tanto da casa, anche se fa freddo! Per vedere persone! Ecco, se non fossi uscita non avrei visto questo bel cane! Queste persone! Fatto quattro passi! Fa freddo, sì! Eh, ma il freddo passa! Passa passa, il freddo passa!». Io conquisto il mio turno.
La farmacista-lentezza-a-Roma-t’avrebbero-messo-le-mani-addosso (questo le dico con gli occhi e i denti stretti) mi dà la bustina con le mie scatoline in una mano e il resto dei soldi nell’altra.
Riesco a intravedere la prescrizione per cui lei, che ha smesso all’improvviso di parlare, è qui. L’ha piantata sul banco appena  ho fatto per rigirarmi, con l’espressione di un cane davanti a un osso vero, coi pezzettoni di carne attaccata. Alprazolam, c’avrei giurato che era qualcosa del genere. La guardo dai piedi alla testa, mi è accanto, è alla mia sinistra, mi viene facile, lei, anche se la manica gonfia del suo giaccone sfiora quella del mio, non s’accorge che io sono rimasta così, ferma, che il giro su me stessa non l’ho ancora concluso. Mi fermo sui suoi occhi. Di profilo si capiscono gli occhi, meglio che di fronte. Lo vedo che non vedono, che guardano ma non vedono. È emotivamente cieca. Come un tossico, lo conosco bene questo sguardo vuoto. Mi viene il magone, l’angoscia allo stomaco. Avrà settant’anni. Ce li ha dei figli, un marito, se ce li ha perché deve uscire per vedere persone? All’anulare sinistro non ha niente. Sospiro fuori il groppo che mi è tornato in gola. In un film di Kaurismaki forse le direi qualcosa, lei vedrebbe i miei occhi guardandoli, io le direi che non mi sembra che questo farmaco l’aiuti, lei risponderebbe che quella è l’unica forma d’amore che conoscono le sue giornate perché è vecchia e sola, e se ha dei figli sono degli stronzi che non vanno mai a trovarla e se non li ha li avrebbe tanto voluti e se aveva un marito è morto e lei ha buttato via la fede, tenerla ancora al dito la intristiva. Lo diremmo come se stessimo considerando quanto è buono un tè, come se fossimo a sorseggiarlo da Savini, in Galleria, con calma, senza alcuna autocommiserazione diremmo queste cose se fossimo in un film di Kaurismaki, le nostre disperazioni sarebbero eleganti, sobrie, stilizzate, teatrali, non direbbe “stronzi”, lei, dei suoi figli; concorderei con lei che il mondo di oggi è poco bello, che sì, era migliore quello di una volta, perciò me lo faccio sempre raccontare da mia madre e ogni tanto registro i suoi racconti, per poterli ascoltare quando non ci sarà più, come una favola da adulti, perché non mi racconta un po’ del suo?, i miei nonni io li ho persi prestissimo, le chiederei perché non frequenta un centro sociale per gli anziani (questa vecchia donna mi fa una tenerezza struggente, non riesco a smettere di osservarla, capisco che la mia disperazione rispetto alla sua ha una ragione precisa, che è più piccola, che ho quarant’anni di meno, che io posso cambiare le mie cose, volendo, mandare affanculo questa città, riparare ai miei errori, tornare a Roma e cercarmi una casa tutta mia, un nuovo lavoro), qui ce ne sono tanti, perché non fa l’uncinetto o legge un libro?, le lascerei il mio numero di telefono, le chiederei il suo (si gira a guardarmi, per un momento soltanto mi fissa e pare vedermi), le chiederei di chiamarmi pure quando si sente giù, la chiamerei per sapere che fa, come sta. Le nostre vite diventerebbero complici, trovando il coraggio di deviare per un momento dalla trama della mia io forse cambierei la sua.
Ma non è un film di Kaurismaki, non c’è nessuna poesia. Non è un film di Kaurismaki, non è nessun film, non c’è più nessuna poesia, io riabbasso gli occhi. È Milano, io mi chiamo Serena ma non lo sono, non sono serena, sono una cosa che ha il nome di una cosa che non è, sono una faccia tirata e non un viso, una cosa che si sta consumando dentro e fuori, è Milano, non c’è nessuna poesia, non ce n’è più, Savini non è più un bar, è solo un ristorante, di lusso, per pochi, chi poteva permettersi soltanto un tè non può più entrarci.

I miei piedi concludono il loro giro su se stessi, il coraggio di non farlo non lo trovano.

Presto, anche se ancora non lo so, troveranno quello di licenziarsi, andare via da qui e tornare a casa.

 

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48 Commenti

  1. Dal Fiorucci Store al Savini, si fa progressi. Mangi ancora quelle “cose” al Mc Donald ? Bello il racconto.

  2. E’ un pezzo molto bello Gemma, ma credo che Lei abbia adottato un’ottica talmente introspettiva per cui il personaggio, in questa breve pagina, ne risulta solo accennato. E’ come se il lettore pretendesse un ulteriore sviluppo del protagonista, una serie di chiarimenti, che in forma narrativa e certo non tenendo “una voce così tesa” come a torto consigliava Binaghi, bensì dispiegando una trama, dia vita a qualcosa di più complesso, di più articolato e coerente.

  3. Il racconto ( un raccontino, in verità), non mi è piaciuto. mi fa solo sentire fortunato di non abitare a Milano. ma questo lo sapevo già. poteva anche non essere mai stato scritto, avrebbe risparmiato fatica all’autrice e a chi l’ha letto.auhg.

  4. Non averne a male, ma torna a Roma. Lascia Milano e quella finta massa di borghesi atteggiati che vive di conti correnti e finzioni.
    Quella medesima massa esiste, come sai, anche qui a Roma, però… però…
    Qui c’è meno omologazione, il clima è migliore, esiste ancora un senso di tolleranza e apertura mentale verso la diversità che in molte aree del nord, non solo Milano, si è perso da tempo.
    Te lo dice un Polentone che vive gaudente a Roma.

  5. Di tutti i commenti mi ha colpito quello di Fra.
    Fra è a mio avviso uno che i libri li fa, un lettore professionale. Fra non tornerà e non mi dirà se ho ragione, ma pazienza. In ogni caso sono d’accordo con lui. Narrativamente non funziona, funzionerebbe forse se fosse solo un frammento di un testo più articolato, ma se non ricordo male Gaetani scrive prevalentemente poesia, e questa è una prosa da poeti.

  6. son d’accordo con te, alcor, quando dici che magari ne sarebbe venuta fuori una poesia. magari così:

    una ferita sulla faccia
    che non è più un viso

    e freddo nelle pupille
    acqua nella testa

    delle vecchie in farmacia con il cane Pepe
    poggiano lenzuola fredde di curiosià
    sulla mia ridicola ferita
    cattiva amara curiosità

    in questa Milano così lontana
    dal mio sangue…etc.

  7. @alcor
    perché non dovrei tornare?
    Ho piacere che tu sia d’accordo. In quanto al “fare libri” e al “lettore professionale”, sono lusingato, e mi stupisco di come tu abbia potuto trarre tutto questo da poche righe improvvisate. Se tu abbia ragione o meno, questo non sta a me dirlo.

  8. Solo non capisco il significato del commento di Morgan. A chi si sta rivolgendo con il “torna a Roma”? A chi dice? Alla protagonista del pezzo della Gaetani? O all’autrice stessa?

  9. Ribadisco: sviluppare una trama è meno difficile che mantenere la fermezza di una voce narrante. Questa è un’operazione più alta, ha meno a che fare con la progettualità del testo che con la musica.

  10. @ V.Binaghi

    Non è vero che sviluppare una trama è meno difficile della narrazione in prima persona ( se questo intende per “una voce narrante”), ma soprattutto questa non impedisce che vi sia un intreccio di vicende.
    Intendevo prima riferirmi alla tensione della voce che ben notava Lei in questo brano. Conservarne l’intensità per duecento pagine è un rischio per la tolleranza del lettore.
    Ma forse ho capito male. Non so, mi dica Lei.

  11. Mi riferivo alla protagonista del pezzo ovviamente. Con il sorriso fra le labbra e leggendo sempre Nazione Indiana con consuetudine preoccupante. :)

  12. @ fra
    pensavo che fosse un’osservazione volante, di chi passa e va.

    @Binaghi

    Anche in questo caso sono d’accordo con @fra
    Sviluppare una trama, o meglio ancora, una struttura narrativa che tenga, non è affatto facile. Ed è particolarmente difficile per un poeta perchè la concentrazione sulla lingua, la centralità della lingua, lo distrae e probabilmente lo annoia portandolo lontano dalla camminata paziente del narratore. Certo, un plottino possiamo farlo anche qui tra noi. Ma un plottino non è niente, come non è niente la capacità di fare rime. Io ho un rimario, in cinque minuti qualche strofetta con qualche rima mi esce.
    Narratori e poeti sono figure differenti. Non invece prosatori e poeti. Questa della Gaetani è quel tipo di prosa, che non si pone i problemi che si pone sempre un narratore.
    La fermezza di una voce narrante, scusa Walter, soprattutto quando coincide come qui con la voce dell’autrice, solo debolmente estraniata, si mantiene senza troppa difficoltà.
    Ovviamente ci sono eccezioni che confermano la regola, ma appunto, sono eccezioni.

  13. A scanso di equivoci (mi sa che è meglio precisare), io sono una di quelle che crede che lo stile sia uno dei punti cruciali della grande narrativa. Lo stile, non lo sprofondo. Il poeta fa il sub, che è un po’ diverso da fare il capitano di nave.

  14. Mah, forse pensavo soprattutto alla fatica come l’ho sperimentata io. Organizzare trame, anche complesse, non parlo di una scaletta ma di un vero storyboard, è un’operazione più artigianale, rispetto sia all’intuizione del personaggio che alla voce narrante che non è necessariamente in prima persona. Sarà che per voi poeti questo è basilare. Io, quando ci arrivo, ci arrivo con un vero e proprio disossamento del dire, che lascia sostanzialmente immutata la trama.

  15. Non sono un esperto e non sono uno scrittore, anche se mi diletto con le parole scritte da anni, tuttavia vorrei menzionare le parole di Moravia a proposito:
    – Quello che mi attrae nei poeti è la poesia. La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra. Il poeta è simile ad un rabdomante, trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare -.

    La biografia di Elkann su Moravia che ho letto di recente mi ha fatto annusare mondi che stavo per dimenticare, con oblio imposto da mille sciocchezze della società.
    Non smetterò mai di pensare che leggere le parole dei grandi del passato mi dona serenità inusuale. E non credo di essere l’unico. Spero.

  16. non trovo il centro, (per centro intendo un’emozione) in questo racconto
    come nel titolo, non c’è nessuna poesia.

  17. il centro per me è un riferimento, l’emozione scaturisce da questo centro.

    magari in questo testo c’è un centro, ma io non lo trovo, (questo può essere un mio limite) e lo trovo triste.

  18. credo che finora gemma abbia scritto un libro di narrativa.
    questo breve racconto mi è piaciuto.
    mi sembra che franz stia perpetuando quello che faceva nel suo bog personale: pubblicare post di altri. e credo lo faccia bene.

  19. se l’autrice va avanti così bene per 150 pagine avrà in premio una serata al savini con me. secondo me ce la fa…

  20. @ Binaghi

    A mio modesto parere una trama ben fatta dovrebbe con leggerezza avvolgere l’intero lavoro artigianale, per smussarne le dure linee e i contorni di viti e bulloni. E questo è uno dei più duri lavori, tanto per la narrativa che per una certa poesia che ama narrare più che evocare, o fa entrambe le cose insieme. Così le intuizioni, che danno vita e a volte genialità alle storie, sono momenti della produzione del poeta come del romanziere. Questione importante è frenare la resa immediata in parole dell’intuizione sovvenuta, soprattutto per i poeti, spesso innamorati del proprio essere poeti – come dire – quasi oracolari, da non doversi preoccupare di una benché minima rielaborazione intellettuale.
    Il prosatore in questo rimane più avvantaggiato, poiché ha il dovere della sintassi, che è già di per sè un obbligo retorico.
    In generale entrambi farebbero bene a rispettare certi doveri di retorica, che sono in fondo il succo del lavoro, la fatica insomma, perché la scrittura è cosa faticosa.

  21. Vi ringrazio per i commenti, le opinioni e i consigli, l’attenzione prestata.

    Non trattandosi esattamente di un racconto, ma di un piccolo estratto da un romanzo, molte delle mancanze sentite da alcuni in questo pezzo, in realtà nella totalità dello scritto tali non sono. Prima di questo pezzo Serena ha detto chi è, dopo di questo farà quello che deve fare, e la trama della sua vita prenderà un altro verso.

    Quanto alla poesia, di quella, come dichiarato precisamente, ci sono momenti e luoghi in cui non ce n’è più. Non ravvisandone intorno non si può che negarla anche alla scrittura. In questo caso la protagonista parla le mie parole. E se lo dice una che l’ha saputa vedere anche dietro una t-shirt con gli angeli che poesia non ce n’è più, si vede che proprio non ce n’è…

    Ho trovato molto interessante il discorso sulla contrapposizione tra personalità della voce narrante e trama. A mio avviso i capolavori sono quelli in cui tutt’e due sono somme. I romanzi veri quelli in cui prevale l’ultima. La scrittura vera quella in cui prevale la prima.

  22. Inoltre.

    Sono d’accordo con Fra. Un poeta se scrive in prosa non può concepire la prosa come fare versi ma senza andare a capo. Perché non scriverà, così facendo, un romanzo vero. Non può vivere di frammenti la prosa, perché di frammenti non vivono i personaggi.
    E’ come girare (e ancora prima concepire) un film.
    Ecco perché scrivere un romanzo vero, per uno i cui occhi e le cui mani funzionano da poeta, è una grande sfida, e perché poche volte chi scrive ottimi versi non scrive ottima prosa e viceversa.
    Bisogna imparare a rimpolpare il dire, a diluire l'”intuizione sovvenuta” (è un’espressione perfetta, Fra). Con elementi tecnicamente narrativi, oggettivamente tali.
    In poesia invece non c’è bisogno di trame e luoghi, dialoghi e connotazione dei personaggi. Perché c’è un unico personaggio: l’io guardante, più che narrante.
    Al proprio stile in prosa, se poeti, bisogna imparare a negare la licenza poetica, mi verrebbe da dire. Bisogna imparare ad educare il proprio sguardo.
    Infine io credo nella variazione della voce, in prosa. Un romanzo scritto sempre con la stessa tonalità sarebbe insostenibile. Come se anche la voce subisse una trama.

  23. Nel mio secondo commento: si legga “molte volte chi scrive ottimi versi non scrive ottima prosa e viceversa”, non “poche volte”… Pardon.

  24. è un gran bel passo Gemma,
    bisogna effettivamente staccarsi dalla poesia, entrare in un’ottica diversa, e non è facile per chi vede solo la poesia,

    io lo vedo come un distacco dal sogno, un entrare completo e privo di riparo, nella realtà, assorbendone i lati più veri, crudi, sordi….forse è questo che mi spaventa.

  25. qual’è la sottile differenza tra viso e faccia?vorrrei coglierla ank’io
    ps
    complimenti… e scusa se mi soffermo su un dettaglio…

  26. “Come se anche la voce subisse una trama. ”
    Splendido!
    Inoltre auguri per il romanzo.

    In quanto alla poesia come prosa-spezzata-dagli-a-capo, mi trova totalmente d’accordo, e ho avuto modo di leggere il sonetto che compare nella prima pagina del suo sito, ma mi permetta di dissentire invece su quanto dice a proposito del fatto che la poesia non ha bisogno di trama, luogo, caratterizzazioni, personaggi, perché il personaggio è uno solo e così pure l’ottica. Non le pare un po’ eccessivo?
    Se così fosse sarebbe una grossa limitazione per la poesia: esisterebbe solo una forma di poesia, quella dell’introspezione e dell’evocazione.
    E’ vero che oggi chi scrive poesia ha poco interesse a narrare, a contestualizzare in eventi i concetti dei propri versi: è un’ abitudine – secondo me – malsana proprio perché rappresenta un grosso limite.

  27. @ Fra

    No, pensandoci ancora non mi pare di eccedere…

    Intendevo in termini di resa del “raccontato”. Anche la poesia che non è introspettiva ed evocativa in qualche modo ha soltanto, in quanto misura breve, del verso come della struttura, anche quando sono liberi, la misura giusta per evocare. Suggerire, suggestionare. La poesia che non evoca raramente non è brutta poesia, per me. (Per esempio detesto la cosiddetta poesia civile, la sua retoricità, soprattutto italiana e soprattutto contemporanea).

    La poesia vera evoca magari in maniera così potente da dire, definire, tornire, scolpire, con un verso, ok. Ovvio. Ma mai definisce più di qualche dettaglio. Ti dice il luogo, la situazione, i personaggi, i ruoli, quanto succede. Ma quelli sono strumenti di quanto la voce del poeta vuole dire, in modo troppo più funzionale che in prosa, dove invece è il contrario. Dove i personaggi, i luoghi, i ruoli, le situazioni vivono una vita propria e poi dicono anche qualcos’altro. E la voce, perfino la trama, si assoggettano a quelli.

    Inoltre è vero in maniera davvero banale per quanto riguarda i dialoghi, la poesia raramente utilizza i dialoghi.

    Infine è vero, per me, in termini di relazione, forse anche inconscia, con quanto osservato.

    Se chi scrive è un flâneur, e per me lo è, scrivendo in prosa si è costretti a relazionare maggiormente su quanto visto (su quanto visto anche immaginando, non sto parlando per forza di scrittura della realtà).

    Pensi a “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, rappresenta esattamente quanto voglio dire. Quegli occhi, di un personaggio che noi lettori non vediamo, rimangono un mistero nei versi. E allora sì, arrivò la morte (di Pavese) e aveva i suoi occhi (di Costance Dowling), ma com’erano quegli occhi? Veramente, com’erano? La poesia non lo dice. Ci dice che lui in quegli occhi vedeva la morte e/o che nella morte avrebbe visto quegli occhi, nient’altro.

    Immagini “La ragazza Carla” come romanzo e non come poemetto. Sarà d’accordo con me che in forma totalmente romanzesca avremmo saputo di più.

    Ecco, intendevo questo.

  28. Il pezzo emana livore. Non si può scrivere nulla di interessante se si è mossi da questo sentimento. Banale l’attacco, strasentita l’analisi critica sulla città di Milano (vivo a Roma, ma per carità, basta dire che a Milano si sta male e a Roma bene, lo sanno anche i tombini delle fogne, perchè ce lo dobbiamo rileggere qui?), furbo l’incontro con la povera vecchia e la commozione da lei suscitata, pretenzioso l’ accenno a Kaurismaki.
    Un deja vu dalla prima parola all’ultima, una noia tombale che stilisticamente si arrovella su sè stessa alla ricerca di personalità. Un romanzo scritto tutto così? Per carità, da malditesta.

  29. @ Gemma Gaetani

    Non sono convinto, ma è una questione davvero interessante.
    Credo che il punto sia: nel processo di determinazione di un soggetto letterario, il poeta opera nello stesso modo, e con la stessa definizione ( di particolari che aumentano l’individuazione di personaggi, ambiente, vicende, e quant’altro ) del prosatore, oppure in maniera minore, o infine è tutto un altro livello di indagine quella poetica?
    Se si valuta la cura che è necessario impiegare nel prodotto, versi o prosa che sia – non si può in alcun modo dare il primato all’una o all’altra forma di scrittura. Il genere non determina quanto un’opera è stata più o meno limata.
    In quanto alla quantità di informazioni “determinanti” la cosa è più complessa, pioché, soprattutto per il romanzo, – a mio avviso – il discorso si allarga immensamente per sconfinare nel mondo dell’infinita varietà di stili e sperimentazioni, anche di generi e di organizzazione della materia narrata ( si pensi ad esempio alla differenza che corre tra un romanzo che procede con la voce di un narratore onnisciente e un romanzo epistolare, o rispetto a tecniche come lo stream-of-consciousness ). Qui conterà dunque l’epoca ( gusti, usi, costumi ), e il tasso di sperimentalismo di un dato autore o di una generazione di scrittori. Questo vale certamente anche per la poesia sempre in merito al grado di “definizione” che si vuole imprimere a un soggetto.
    In questo ambito di indagine se giustamente tralasciamo il margine di libertà di ogni autore di adoprare la tecnica desiderata o di inventarne di nuove e la quantità di dati “individuanti” che si vuole esplicitare, l’unica questione che possiamo dibattere è appunto sull’epoca, sull’uso quotidiano. Cioè cosa oggi, nell’attuale letteratura, va per la maggiore.

    E’ un appello aperto a tutti.

  30. Cara Gemma,
    Ciao. I Complimenti sono evidenti, ma c’è altro laceri l’ Anima, provochi emozioni, di solitudine, e di altro… Ti ho scritto in privato sai che da tempo devo prendere del cortisone, pelle e anima vanno di pari passo, la mia sensibilità mi ha portato da anni a frequentare anche i dermatologi e Ti capisco. Faccio outing, ma è giusto così, perchè non bisogna avere paura di essere Sensibili, nè di Amare e nè di essere Sereni, Alda Merini ha scritti che Musatti e Fornari l’ aiutarono ad accettare le paure d’amore, e la Fede ad accettare la cattiveria degli uomini…
    Tu continui a regalrci gemme … Ti abbraccio forte, anche se mi consideri (magari, non so) un poeta da moleskina… :):):)
    davide fent

  31. Il racconto mi è piaciuto ma devo dare ragione a Luciano Orzi, l’accenno a Kaurismaki è forse un po’ pretenzioso; del resto è impossibile dire qualsiasi cosa con sicurezza visto che si tratta solo di un morceau e non del testo completo perché, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere perfettamente in linea con la cultura e sensibilità del personaggio Serena.
    Mi è piaciuto molto Colazione al Fiorucci Store (come GG sa bene anche dal suo blog) e non vedo l’ora di leggere questo romanzo.

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