Il fattore C. La comunicazione del governo alla prova dei sei mesi #1

di Edoardo Novelli

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Comincio a pubblicare oggi la prima di sei parti in totale di uno studio condotto da Edoardo Novelli – docente di comunicazione politica all’Università Roma Tre e autore tra gli altri di La Turbopolitica (Bur 2006) – sulla comunicazione del governo Prodi dopo i primi sei mesi. Lo studio – che si compone di una prima parte analitica e di quattro interviste dello stesso Novelli a Gianluca Luzi, inviato di Repubblica; Giovanni Floris, conduttore di Ballarò; Valerio Saffirio, Orange Comunicazione; Silvio Sircana, portavoce del Presidente del Consiglio – è stato presentato lo scorso 12 dicembre a Roma presso l’Università Roma Tre e pubblicato su aideM. Rivista di critica della comunicazione, rivista che esiste anche on line. Ringrazio Edoardo Novelli per aver messo il suo lavoro a disposizione di N.I. 

C’era una volta il fattore K, brillante invenzione giornalistica di Alberto Ronchey che fotografava un mondo diviso in blocchi interscambiabili e una società popolata da nemici interni. Tramontata la stagione delle grandi ideologie e delle contrapposizioni frontali, durante l’ultima campagna elettorale, Romano Prodi ha parlato di fattore C, per intendere alla natura fortunata che è solita accompagnarlo. Una trovata di successo che ha subito bucato sui media, al punto da essere presa da Bonolis come titolo del suo nuovo programma che però, a giudicare dai risultati d’ascolto, si è rivelato poco profetico. Dopo la vittoria alle elezioni politiche per 25.000 voti, pari allo 0,066 %, e la vittoria della nazionale di calcio ai mondiali di Germania, valutata dagli analisti economici equivalente ad alcuni punti di Pil, il fattore C di Prodi è stato elevato a variabile politica. Ha scritto il “Venerdì” di Repubblica: “Nei primi cento giorni del governo Berlusconi, Bin Laden tirò giù le torri gemelle. Nei primi cento giorni del governo Prodi, l’Italia tirò i rigori meglio della Francia. E questa è già una bella differenza”. 

Nel momento in cui scriviamo, a sei mesi dalle elezioni, a tre dalla finale con la Francia e nel pieno delle polemiche per la finanziaria, la buona stella del Presidente del Consiglio sembra un po’ appannata, e un altro fattore C si sta rivelando sempre più cruciale tanto per il governo che per la sua leadership. È il tema della comunicazione. Parola generica e abusata, che contiene al suo interno aspetti differenti: la capacità del governo e del Presidente del Consiglio di trasmettere all’esterno le proprie priorità, la propria missione; sapersi rapportare ed entrare in sintonia con i mass media; l’abilità a fare notizia e a posizionare i temi preferiti nell’agenda; la costruzione di una leadership forte e vincente; l’immagine, intendendo tanto quella legata agli aspetti più personali e fisici, quanto quella derivante da posizionamenti politici e programmatici. 

Obiettivo originario di questo intervento – che comprende anche alcune interviste a operatori della comunicazione e a Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi – era vedere se, a sei mesi dalla vittoria elettorale e a cinque dall’entrata in carica del nuovo esecutivo, fosse già possibile cogliere i segnali della politica di comunicazione del governo, la sua strategia nei confronti di un tema la cui importanza, ai fini della vita di una maggioranza politica, non è più messa in discussione da nessuno. Dopo il diluvio comunicativo berlusconiano, basato su un impasto di populismo mediatico-politico raccolto intorno alla triade audience-sondaggi-target; la costruzione di un partito medium che ha interiorizzato le categorie e i tempi del mondo dell’informazione e dello spettacolo; l’accettazione ed anzi l’accelerazione del lato spettacolare e sensazionale della politica; l’instaurazione con i mass media di un rapporto oscillante fra il collateralismo e l’occupazione; una precisa strategia di saturazione e di occupazione dell’agenda e, non ultimo, la costruzione di una leadership fortemente intrisa di tratti personali e comportamenti pre-politici, era una curiosità più che lecita interrogarsi su come si stesse muovendo il nuovo governo. Fra afasia e berlusconismo, c’è spazio per una soluzione mediana, lontana tanto dalla storica sottovalutazione quanto dalla speculare accettazione acritica dei modelli e dei percorsi esistenti? È possibile una terza via alla comunicazione politica? 

Interrogativi di lungo respiro, diventati ancora più urgenti man mano che il nuovo fattore C ha iniziato a essere indicato da più parti e all’interno della stessa compagine governativa come una delle principali emergenze. Le difficoltà nella comunicazione del governo e del Presidente del Consiglio sono infatti un tema così frequentemente richiamato da correre il rischio di suscitare, a seconda dei punti di vista, noia o preoccupazione. Alcuni esempi? Controversa chiusura dell’accordo con i tassisti in seguito al decreto Bersani? Prodi spiega che: “il tam tam della categoria fa venire fuori a livello di immagine, una loro vittoria sul governo. Sembra – aggiunge dando l’impressione di non conoscere che nell’attuale turbopolitica ciò che sembra è almeno equivalente a ciò che è – che abbiano vinto i mondiali” (19/7/06, le date si riferiscono al giorno di pubblicazione sui quotidiani). Un sondaggio rivela che è in calo la fiducia nel governo? Di Pietro dichiara: “dobbiamo imparare a venderci meglio” (9/10/06). Forti contrasti con gli industriali per la Finanziaria? Il ministro dell’economia annuncia: “dobbiamo migliorare anche nella nostra capacità di comunicare” (12/10/06). 

La tendenza dei governi a scaricare sulla comunicazione difficoltà in realtà molto più politiche è nota. Un modo adeguato ai tempi per salvare almeno parte del loro operato, lasciando intendere: “la nostra politica va bene, è la comunicazione che fa difetto”. Anche Berlusconi nei momenti di maggiore difficoltà politica era solito puntare il dito sulla comunicazione. Con la differenza, però, che il Cavaliere non sosteneva di non saper comunicare, ma di non avere i mezzi per farlo. Un distinguo non da poco che, colto, ha portato alla correzione di tiro avviata da Silvio Sircana parlando di “disinformazione” (10/06/06), e clamorosamente ribadita una settimana dopo da Prodi: “lavorare con i mezzi di comunicazione contro per noi è un problema serio” (16/10/06). Un’azione coordinata fra il portavoce e il Presidente del Consiglio che testimonia l’esistenza di una regia. 

L’immagine di un leader come di un governo, fortemente dipendenti dalla loro comunicazione, sono questioni ben più complesse e articolate di quanto sostengono o fanno finta di sostenere coloro che le riducono a una semplice questione di tratti esteriori e caratteristiche estetiche. Il tipo di cravatta, il colore di un manifesto, l’affabilità del portavoce, la qualità del rinfresco alla conferenza stampa, etc. 

Basta pensare a quelli che sono comunemente ritenuti in ambito scientifico gli elementi costitutivi dell’immagine, intesa come rappresentazione mentale sintetica, composta tanto dagli attributi personali politicamente rilevanti (ad esempio la capacità ad entrare in contatto con l’opinione pubblica, l’essere percepiti come vicini e propositivi, la cifra della comunicazione, la telegenia, etc.), quanto dai tratti politici più marcati e caratterizzanti (quelli solitamente connessi ai temi più sensibili: sicurezza, immigrazione, giustizia, economia, questioni etiche, etc.). Se dunque la comunicazione e l’immagine sono fortemente dipendenti dalle caratteristiche fisico-caratteriali e politiche di coloro che comunicano – il che equivale a ribadire che a ogni persona si addice una comunicazione differente e che quella che funziona per un soggetto non funziona per un altro – impossibile non tener conto delle tante specificità di questo governo. A partire da Romano Prodi: insolita figura di leader senza partito, passista e pedalatore per natura oltre che per hobby, caratterizzato da una articolazione del pensiero e della frase lenta e articolata, da un tono sommesso e riflessivo, e naturalmente lontano dalle logiche, dai tempi e dai formati della televisione e dell’informazione. 

Non tutti i leader seduttori, figura dalla quale le moderne democrazie elettroniche sembrano non poter prescindere, seducono nello stesso modo e con le stesse armi. Si pensi alle differenze personali e politiche che intercorrono fra Zapatero, Blair, Clinton su un fronte, e Aznar, Chirac e Berlusconi sull’altro. Ma nessun leader può esimersi dal sedurre. Anche per Prodi quindi si pone il problema di trovare e di far emergere la sua chiave e il suo stile. Ma qual è oggi il profilo di Romano Prodi presidente? Difficilmente potrà continuare a essere quello che si è rivelato vincente nel corso della lunga campagna elettorale. Il professore bonario e sereno, semplice e vicino alla gente. Il Prodi-mortadella che gli avversari hanno inventato per delegittimarlo e che lui e coloro che hanno curato la sua comunicazione sono stati così abili da girare a proprio favore. 

Per quanto riguarda invece la coalizione governativa, sembra fin troppo scontato sottolineare non solo l’estrema eterogeneità politica ma anche “caratteriale” dei suoi principali esponenti, esasperata da una mentalità proporzionalista latente, che fa sì che spesso il proprio marginale vantaggio prevalga sull’interesse collettivo. Il tutto reso più balbettante da una risicata maggioranza numerica. 

Specificità forti, dunque, in apparenza non facilmente conciliabili con quei requisiti di visibilità, rapidità, coerenza, spettacolarità, efficienza, richiesti dai mass media per accomodarsi da protagonisti al tavolo della comunicazione. Eppure, proprio per la presenza di queste difficoltà strutturali congenite, la comunicazione avrebbe dovuto essere concepita quale una risorsa ancor più importante, alla quale attribuire un peso e un’importanza eccezionali, poiché in grado di tenere insieme e dare coerenza a cose molto diverse. Un collante magico, operativo sul piano simbolico, emotivo, cognitivo. 

Il primo problema comunicativo di fronte al quale si è trovato il nuovo esecutivo era come e in che direzione differenziarsi dai cinque anni precedenti. Come cioè marcare una discontinuità e un nuovo stile che avrebbero potuto funzionare come cassa di risonanza, da volano della novità politica. Tutte le nuove stagioni, quale quella che si era ripromessa di avviare il governo, sono sempre state raccontate e amplificate da innovazioni sul piano linguistico e simbolico. È stato così per il new-deal di Roosevelt e per la nuova frontiera di Kennedy, per il new-labour di Blair e per lo zapaterismo, ma, a ben vedere, anche per il centro-sinistra di Moro e Fanfani, per il nuovo Psi di Craxi, per il berlusconismo. 

La comunicazione è oggi così importante perché, quando non pensata come semplice leva tattica, ha la funzione di dare coerenza e significato all’intera attività di governo. Non a caso la comunicazione è diventata la principale attività dei governi moderni. Dopo il governo dell’ideologia, il governo della religione, il governo della burocrazia, viviamo nell’epoca del governo della comunicazione. In più di una occasione il nuovo esecutivo ha dato invece l’impressione di essere ancora permeato di quella visione critica della comunicazione politica che ha a lungo accomunato tanto la cultura marxista quanto quella cattolica. L’equazione comunicazione uguale contraffazione, latente nelle parole del portavoce di Prodi, Silvio Sircana: “non faremo una comunicazione con il fard” (12/7/06), è sin troppo evidente in quelle di Padoa Schioppa: “criticate pure chi comunica male, ma diffidate sempre da chi comunica troppo bene” (12/10/06). Insomma, quando si parla di comunicazione politica, subito all’interno di una certa cultura si sente odore di zolfo. Un riflesso condizionato, che sembra direttamente derivare da vecchie teorie comportamentiste e pavloviane. Sarà solo un caso che, con una simile concezione, la comunicazione del governo è diventata un’emergenza? 

Se si considera la comunicazione un male necessario, una moderna tassa che il buon governante e il buon politico debbono pagare alla contemporaneità, da convocare a cose fatte e decisioni prese – per intenderci: “bene, adesso che abbiamo deciso, come lo comunichiamo?” – e non invece un approccio operativo e programmatico all’interno del quale muoversi, è più facile incorrere in incidenti e battute d’arresto. Che infatti non sono mancate tanto a livello di forma che di sostanza. Il 17 maggio il governo giura al Quirinale. A cerimonia conclusa, nella solennità del momento, Prodi dichiara: “L’Italia aspetta. Non possiamo fallire” (17/5/06). Chi si attendeva di essere compiaciuto con la prefigurazione di una nuova stagione, riscaldato con il calore di un sogno, si trova di fronte alla crudezza di una minaccia, alla brutalità di un monito. La frase non trasmette entusiasmo, non coinvolge, e lascia intendere che la vera risorsa del governo sarà la forza della disperazione. Passano pochi mesi e nel corso di una festa di partito al Premier viene chiesto cosa pensa della possibilità di dover andare a casa prematuramente a causa della litigiosità degli alleati di governo. La risposta, trasmessa da molti telegiornali, è di quelle che lasciano di stucco: “Se vado a casa io, vanno a casa anche loro. Ci pensino bene.” Una scivolata, un’errata interpretazione? Insomma, i soliti problemi con la stampa? Non sembrerebbe, visto che il concetto viene ripetuto durante l’intervista a Die Zeit: “Via io, via il governo. Se il governo cade resteremo i prossimi sessant’anni all’opposizione” (8/6/2007), e poi in quella a El Pais: “Non possono mandarmi via perché non saprebbero che fare” (16/10/06). Che emerge da queste dichiarazioni? Il governo unito non dai molti progetti che ancora lo attendono, dalla voglia di migliorare il Paese, dal vedere la stessa Italia di domani, ma dalla volontà di conservarsi le reciproche poltrone. Eppure, non è una novità che la comunicazione gioca con significati non detti, evoca immagini, lascia intendere, andando al di là del significato delle singole parole. E anche una semplice dichiarazione come quella che passa sulle prime pagine dei giornali il giorno dopo la visita di Prodi all’Unione europea: “sarò il primo della classe” (14/6/06), sembra non tener conto che le classi prevedono un primo bravo e brillante e altri 25 circa che non sopportano quel secchione. Talvolta, sembra che Prodi attinga a un universo simbolico e metaforico se non proprio distonico, quanto meno non collimante con quello del Paese. Come quando per spiegare la sua azione lunga e paziente dichiara: “Sa come si fa la mozzarella? Si gira e si rigira con pazienza fino a formare una matassa. Diciamo che io sto facendo una mozzarella”. Il giorno dopo La Stampa titola “Io governo come se facessi una mozzarella, ci vuole pazienza” (16/10/06). 

Sempre solo colpa della stampa che gioca contro? Eppure Prodi conosce, o quanto meno dice di conoscere, l’importanza, ai fini della riuscita e del successo dell’azione di governo, non solo dei risultati concreti ma anche della ricaduta psicologica. “L’Italia ha bisogno di una sterzata psicologica almeno quanto ha bisogno di riforme strutturali – dichiara in piena polemica sulla legge finanziaria –. Ma se le riforme vengono offuscate (…) il loro impatto economico resta, ma quello psicologico, essenziale, rischia di andare perduto” (22/10/06). Ed è proprio sul piano psicologico ed emotivo che la comunicazione potrebbe giocare un ruolo determinante. 

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7 Commenti

  1. Mi scuso per l’O.T. Vorrei informare la redazione che ho segnalato Nazione Indiana in un post che tratta dei blog di narrativa. Il post s’intitola “i blog di narrativa fuori e dentro Libero” ed è stato pubblicato ieri sul mio blog. Forse avrei dovuto scegliere la bacheca per questa comunicazione, ma vi confesso che lo spazio della bacheca un po’ mi deprime… :-) un cordiale saluto. Writer.

  2. non ho letto il post qui sopra.
    non so cosa c’è scritto.
    so che il governo è caduto ieri pomeriggio.
    non è una cosetta da nulla.
    perché è stato il groviglio di contraddizioni che avvinghia il complesso di culture che lo poteva sostenere, a farlo cadere.
    groviglio che passa dentro ciascuno di noi.
    di noi, popolo non-berlusconiano, non-fascista e post-fascista, non-cattolico fondamentalista.
    noi popolo di non-imprenditori, di non-liberisti, di non-filo-americani, di non-molte altre cose.
    noi incapaci di definirci politicamente in positivo, di costruire con pazienza una realtà politica e culturale diversa (anche solo un po’ diversa dall’attuale) a partire da quello che abbiamo, coi mezzi che abbiamo, senza fughe in avanti, aggregando l’aggregabile, eccetera.
    prodi è caduto prima ancora nel paese, che al senato.
    prodi poteva fare alcune cose, non eclatanti, non rivoluzionarie, non trasformazioni radicali.
    poteva fare alcune semplici cose nell’ambito del fattibile, nell’ambito della sua debolezza, ma poteva farle.
    aveva già cominciato.
    il paese poteva fare qualche piccolo in avanti – e sottolineo piccolo, ma meglio di niente.
    Ratzinger già ringhiava.
    adesso gongola.
    adesso l’Avvenire, con lo sdegno di chi ha vinto, si permette di mettere la notizia della caduta di prodi in quinta pagina.

  3. Tash, datti un’occhiata alla copertina, al sommario e alle prime 3 pagine del manifesto di oggi. Della Caduta si parla e si sparla in tutti i modi, naturalmente per dire che è tutto frutto di un complotto dei Poteri forti (Pininfarina, definito volgarmente il “filoamericano”). Buio pesto sui sinistri “irresponsabili” che ieri sera gongolavano a Ballarò.

    O vogliamo parlare del commentatore dal nome faraonico che soloneggiava in quel di Ferrara, com’è che si chiama?, Anubi D’Avossa o giù di lì, e il cognome non è finito qui, più lungo è più figo sei. Oppure l’apertura soviettista del tg3 di ieri pomeriggio, con la camera fissa sul presidente Marini per non far vedere i fogli che volavano dai banchi dell’opposizione? Ma ovviamente i migliori restiamo “Noi”, no?, anche quando facciamo una, dieci, cento, mille stronzate ideologicamente corrette. Noi, non-violenti e contro la guerra, che diamo dell’irresponsabile a chi non vota il rifinanziamento della missione in Afghanistan, ma siamo in prima fila a dire no, la base di Vicenza no. Altro che doppiezza togliattiana, questo è paraculismo di serie zeta.

    Personalmente mi sta bene la caduta del Travicello, e spero proprio che non faccia il bis, perché in quel caso il Paese – come lo chiami tu – altro che passi avanti: ne farebbe tanti, ma proprio tanti, all’indietro, indietro tutta, verso un governicchio in salsa Dc. I Casini, i Mastella e i Follini, i Rutelli e i boybelli sono pronti, in fila, in marcia, ragazzi, è fatta.

    Sul pezzo di Novelli, infine, molti gli aspetti da approfondire. Ma una domanda potrebbe essere questa: e se il problema della comunicazione politica della sinistra, in Italia (e non solo), fosse proprio questo: pensare non solo alla “Immagine” (il popolo della sinistra) ma alle Idee? (mi chiedo quali, visto che sono sempre quelle, trite e ritrite, da anni, tutte uguali, mai una sorpresa, mai e poi mai, quello sei e quello resterai).

  4. Anubi D’Avossa Lussurgiu (nipote del Generale – non so dse dell’esercito, marina o cosa, ma generale – Gianalfonso Lussurgiu D’Avossa); tanti paradossi della sinistra: cacciari contestato dal figlio del fratello a venezia. Per carità, ognuno è libero di sputare sul piatto dove mangia, sopratutto se il piatto è il suo.

    La domanda è: cosa troverò da mangiare domani nel mio, di piatto! Speriamo non un berlusconi tris, nè un risorto governo democristiano, nè un mix allargato ai clerico fasciti. A volte mi domando e DICO, ma che paese strano che siamo.

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