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Ipotesi Inland Empire. Appunti

di Marco Rovelli

Qui riscrivo gli appunti presi durante la visione di Inland Empire di David Lynch, ripercorrendolo passo passo, rivedendolo alla sua stessa luce. Alla luce della sua ipotesi sull’essere. Proprio perché questi appunti sono una replica, si può cogliere appieno il senso di tutti i rimandi solo avendo già visto il film. Ma credo che qualcosa possa arrivare anche a chi il film non l’ha visto: magari, può essere una specie di guida per quelli che hanno qualche resistenza ad avventurarsi negli oceani lynchani. In ogni caso qui evoco un senso: non sono in grado, ahimé, di restituire neppure un briciolo di quella bellezza.

“La stanza non la riconosco”, dice la ragazza a gambe aperte mentre sta per denudarsi. Sullo schermo non si vedono i volti, oscurati da un fuori fuoco. C’è solo l’atto di una copula meccanica, e l’inizio è tutto qui.

L’occhio è l’evoluzione biologica di una lagrima, scrisse qualcuno. E in questo impero della mente messo in scena da Lynch è un occhio che lacrima a creare il mondo, nell’istante stesso della sua caduta. Il mondo inizia con la visione, e questa visione è dolore. E’ come il grido del bambino appena venuto al mondo, ma è un grido cosciente del proprio dolore. L’occhio che lacrima lo vede, il dolore: il suo sentire è tutt’uno col suo vedere. E’ una presa di coscienza, che coincide con la creazione stessa. L’occhio vede il dolore, lo vede riflesso: riflesso in uno schermo. Allo sguardo che si apre in lacrima, il dolore compare in uno schermo di tele-visione. Ha una forma triangolare, il dolore: sulla scena dello schermo ci sono tre leprotti – un maschio, una femmina, e un altro maschio che fa da rivale. Eccolo là, il dolore della venuta al mondo: messo in scena, compare il triangolo maledetto del desiderio.
Il dolore originario (la sua scena primaria) compare sotto le (mentite) spoglie di leprotti simili a somari. Gli animali divengono uomini, ed è sulla scena che si diventa uomini, a partire dallo sguardo dell’altro. Ancora una volta: “il soggetto è anzitutto soggetto allo sguardo. Ciò che fondamentalmente mi determina nel visibile è lo sguardo che sta all’esterno, scrive Lacan: l’uomo è un soggetto che è gia da sempre fuori di sé.”

La prima domanda, sulla scena, è: what time is it. E’ una domanda che fa ridere (si sentono risate fuori campo, da sit-com), ma è un riso che risuona in vuoto sterminato, ed è un vuoto tragico. Si capisce che la vita ha un senso, e il suo senso è quello di rispondere a questa domanda sul tempo. C’è da trovare il tempo giusto, per risolvere questo enigma che è la messa in scena della vita. Il tempo giusto, il kairos.

Le forme cominciano a mutare. Prendono (altro) corpo, ma si tratta sempre di corpi con-formi all’origine, conformi a quella prima scena del triangolo maledetto del desiderio, visto e sentito all’atto della caduta. Intanto nel fuori scena (nella stanza contigua alla scena dei leprotti/somari) compare un uomo. L’inizio comincia a tornare.

Bussano alla porta della villa della star del cinema, Nikki. E’ la nuova vicina. Un-heimlich. Perturbante, inquietante, mostruosa. Chiede del film che sta per fare, alla diva. Sarà un film sul matrimonio. Sull’unione di due.  Bene, dice la mostruosa vicina. Però il marito di Nikki non è coinvolto: e questo è male. Il male è nel triangolo, che strappa il due all’uno, che lo de-grada.
Le filastrocche della vicina (l’una riflessa nell’altra: una ri-guarda un bambino, l’altra ri-guarda una bambina) risvegliano qualcosa di sconosciuto, ma che appartiene alle profondità dell’essere. Il rimosso comincia a riaffiorare. Le filastrocche ri-velano l’origine del male. E il male sta nell’uno che diventa due. Canta così, una filastrocca (de-canta): il bambino uscì per giocare, e vide il mondo, e vide il suo riflesso, e nacque il male. E l’altra filastrocca, invece, canta di una fanciullina che si perde nella via dietro alla piazza del mercato.
La star non capisce. Ma la vicina la rincuora: la dimenticanza capita a tutti noi, le dice. Dimenticanza? Quale dimenticanza? Ma come, ve lo siete già dimenticati? Siamo qui per rispondere a una domanda. La domanda sul tempo. E oggi, tanto per iniziare, diventa domani, ed è sempre lo stesso.

Poi, siamo a Hollywood. Lo spettacolo dello spettacolo. E qui il racconto si sdoppia a sua volta: il film fa segno a se stesso. Dice, Guardatemi. E’ anche me che dovete vedere, non dovete vedere solo la storia che sto raccontando, altrimenti non capirete nulla. Dovete considerare la mia presenza, dovete sapere che io sono illusione. Qui non c’è una storia, ce ne sono almeno due.
Era o no la verità? – recita la star provando le battute del film a venire (il film, lo vedete, qui sta giocando con se stesso, mette in scena il suo fuori scena, fa presente il futuro anteriore). Sì e no, si dovrebbe forse rispondere se toccasse già rispondere, Sì è no, come per il gatto di Schrodinger. Ma ancora la risposta non tocca, bisogna farne di strada per rispondere, bisogna ricordare tutto. Bisogna seguire le tracce rimosse che cominciano ad apparire, come la presenza che compare nello studio cinematografico ancora vuoto.

A volte le cose sono condivise, sentenzia l’oracolare assistente del regista, A volte no. A impedire la condivisione, dice, a impedire la riunificazione, è la paura. Il divo non ha avuto paura della presenza, le è corso dietro per vedere chi fosse: non ha trovato nessuno, ma è un buon segno, un buon inizio.

Poi il regista rivela: il film a venire è il re-make di un film non finito. Il ritorno di un in-finito che è sempre lo stesso.

Dice l’assistente oracolare: C’è un vasto intreccio, là fuori, un mare di possibilità.

Ogni azione ha le sue conseguenze, si ripete. (Per Spinoza il mondo è una produzione necessaria: essere necessario è essere causa di un effetto, e non effetto di una causa).

E’ a questo punto che la star saluta il co-protagonista (il terzo), ma ciò che dice a lui lo sta dicendo, in realtà, allo spettatore del film: Ci si vede a fine riprese. E’ come se uno aprisse la scatola di medicinali e leggesse le istruzioni per l’uso. Ci si vede a fine riprese.
E come se non fosse abbastanza chiaro, il regista esclama: In bocca al lupo a tutti! E qui parte quello che viene da molti spettatori giudicato come un delirio, nient’altro che un illogico flusso di coscienza – e non sono pochi, a vedere il numero di quelli che abbandonano la sala a partire da questo momento, ma anche a sentire i commenti di color che resistono fino alla fine.
In bocca al lupo a tutti! – il regista parlava allo spettatore, perché sa che il rischio, per lo spettatore (lo aveva appena detto il marito di Nikki), è quello di ascoltare ma non sentire. Lo spettatore, se non capisce, è perché ascolta la storia, ma non sente chi la racconta. E’ perché si aggrappa alla storia, ai personaggi, alla coerenza logica della successione spazio-temporale delle scene – e non vede invece che ciò che gli appare come delirio ha una coerenza ben più profonda. Non c’è un filo logico, ma un filo figurale. Qui, si può solo mostrare. (E’ il factum loquendi, ad apparire).

In bocca al lupo (del resto, l’illuminazione non è un fatto di volontà: accade): comincia il viaggio tra i fenomeni della coscienza che riaffiorano, e riaffiorano in uno slittamento continuo di piani temporali (“E’ successo ieri, ma è domani”), in dialoghi che – la star comincia ad accorgersene, a prenderne coscienza – sembrano presi dal copione.
Nikki rivede la scena delle prove (dove il film faceva presente il proprio futuro anteriore) – ma nel rivedersi, lei non c’è. Lei, adesso, è al di là del vetro appannato, al di là di quella nebbia della dimenticanza che impediva di scorgere la pluralità dei mondi possibili, il mare di possibilità là fuori.

“Nel futuro ti troverai in un sogno come se stessi dormendo. Quando ti sveglierai ti troverai accanto un viso familiare. Questa è la strada.” L’unheimlich apparirà heimlich. Il non familiare, il perturbante, apparirà, per un istante, familiare. Questa sarà la traccia. Seguila, dicono a Nikki. Allora (e il film è ancora talmente chiaro…: c’è il solco di un vinile che gira – il copione…) – allora vedrai.
Per vedere (ricordarsi la domanda!) Nikki dovrà mettersi l’orologio al polso, e guardare attraverso le trame sottili di una seta bruciata da una sigaretta. Indovinate cosa vede, Nikki, quando segue queste istruzioni? Vede la scena primaria. La messa in scena dei leprotti/somari, quando l’uomo diventa uomo. Sono le 9,45. Per la prima volta Nikki vede l’ora. E quando vede l’ora, si ri-vede l’occhio che lacrima, e lacrimando crea.

Il nome non ha importanza. Chiaro, no? Si succedono tanti personaggi, ognuno con un nome diverso, ma non importa. Non è il nome che conta. E’ il processo. Il processo di rivelazione dell’essere. “Tante persone cambiano”, dice Nikki con un altro nome – poi si corregge: “no, non cambiano: si rivelano per quello che sono”. E dice: “Per tutto il tempo non ha fatto altro che rivelarsi. Aveva in mente qualcosa, qualcosa che mi riguardava”.

Entra nella stanza e vede la sigaretta che aveva trapassato il velo del tempo. Si rincorre.

Poi. Aspetto un figlio, dice Nikki/Susan. Che cosa significa? le chiede il marito.

Così lei telefona a Billy, l’amante. Il terzo. E ancora si squarcia il velo: a rispondere è il terzo leprotto/somaro, dalla scena primaria.

Il Fantasma. Il Circo. Gli zingari della leggenda. Le figure archetipiche dell’illusione.
Il Fantasma (l’essenza stessa del gesto della creazione) è scomparso: “Dov’è?” “E’andato. Ha detto qualcosa a proposito di un Inland Empire”. Ancora una volta, il film fa segno a se stesso. Seguite il senso.

E ancora: “Sono venuta per un conto in sospeso che dev’essere pagato”. La bambina incompiuta, lo ricordate? Il film non finito, lo ricordate?

In bocca la luce rossa della memoria. Un cacciavite. Indizi sempre più consistenti di una trama (la vasta trama del fuori) che man mano si ricompone. Nikki sente, adesso, anche se ancora non vede.

Intanto il marito lo dice: Io non posso avere figli. E si rivela la rottura dell’unione.
Due coppie vengono rotte da due terze persone. A questa doppia azione segue una doppia conseguenza. Due omicidi.

E’ tutto ok. Stai solo morendo.
La luce. Niente più bui domani. Ora sei tra le stelle, gioia?
(E il film si diverte ancora a far segno a se stesso, la stella di Pomona, la star del cinema, appare finalmente come riflesso degradato della stella dell’essere. Hollywood – ricordo Bataille – come degradazione del sacro).

“Fine delle riprese!”, grida il regista. Il risveglio. Ma non è finita. La morte è solo un altro trapasso. Nikki Grace esce dagli studios, dal recinto dello spettacolo trionfante, e s’incontra con il gesto creatore: s’incontra, finalmente, con l’occhio che lacrima. E’ uscita dalla caverna (“Guardavo le cose come nel buio di un teatro, prima che la scena si illumini”), e vede – su uno schermo di un cinema deserto, che riflette il cinema reale, che chiama lo spettatore alla coscienza – di essere un riflesso, e ha finalmente coscienza di essere al culmine di un cammino. Ma ancora c’è da ascendere. Sale dall’uomo che la ascoltava, che le faceva da specchio mentre lei ricordava, sale seguendo una luce blu (come blu era la luce primordiale di Strade perdute). E là, finalmente, uccide colui che cercava, l’uomo del cacciavite (l’uomo della violenza), con un bocca da clown, come il Fantasma del Circo.

In fine – l’occhio vede se stesso dentro lo schermo, e tutto è compiuto. Si vede finalmente la donna dell’occhio, si distoglie dallo schermo, non c’è più scena primaria adesso, non c’è più nulla tranne Nikki al culmine del cammino, “I can see the…” si sente cantare, la donna dell’occhio si abbraccia con Nikki e scompare, e non c’è più riflesso né lacrima.

Ma le immagini, tutte le immagini del mare di possibilità – non sono scomparse. Permangono come immagini, consapevoli finalmente di essere tali. Sono tutte lì, simultaneamente. Ci sono e non ci sono, e lo sanno.

E mentre tu, spettatore che ti sei lasciato guidare fin lì, hai gli occhi pieni di meraviglia e dici a te stesso “…bello…”, una delle immagini là sullo schermo ripete “…bello…”
E una cantante canta, meravigliosamente canta, “Don’t you know that I need you?”.

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16 Commenti

  1. sono contento che marco inizi, e bene, a lasciarsi trasformare da Inland Empire, è probabile che lo seguiro’, avendo anch’io da gestire le varie metamorfosi psichiche indotte dal signor Lynch;

    ma, in margine ad ogni sprofondamento, una considerazione da taverna poco illuminata e sudicia: Lynch SE NE SBATTE, Lynch è assolutamente libero, Lynch riesce a far passare per le sale cio’ che, a rigor di termini, non potrebbe mai passare: l’antinarrativo, l’antiretorico, l’antirealistico….

    è avant/pop? Macché: è pura sperimentazione senza vergogna, roba che si puo’ vedere solo in cinemateche o videoteche protette, con lo schermo singolo e le cuffie, di nascosto, in orari lavorativi: tipo le 11 di mattina.

    Non sono film sono magneti psichici.

    Un film, ricordatevi, per tutta la famiglia. Tornati a casa, pero’, nascondete tutti gli oggetti da taglio, prima di andare a dormire.

  2. in effetti in una paio di passaggi mi sono annoiato; e annoiarsi vedendo Lynch è un sintomo preoccupante, vuol dire che ha alzato la posta pericolosamente:

    per la cronaca, Lynch sta girando per gli USA con una vacca e un gran poster della sua attrice feticcio, per candidarla all’oscar; sapendo che le candidature all’oscar mobilitano milioni di dollaroni, si è messo pure lui per sfida, e in economia…

  3. La recensione è complessa, ma chiarisce qualcosa, mi pare. Io, che ho visto il film ieri sera, l’avevo letto come la storia della necessaria liberazione della mente, una liberazione tramite la quale si ricongiungono passato, presente e futuro. Ma la mia è un’interpretazione certo un po’ troppo psicanalitica.

  4. lynch è bravo… e non è affatto difficile “capire” i suoi film (che vuol dire semplicemente lasciarsi prendere senza razionalizzare a tutti i costi spaccandosi la testa su un teorema che per forza non torna). mi sono sempre divertito a vedere le sue opere. tuttavia, questa sconfinato culto per Lynch non lo capisco. dopo aver visto Mulholland Drive mi sembrava, per la prima volta in vita mia, di aver visto il diavolo, e che una lampadina si fosse accesa in cucina da sola. anche io non sono sicuro che si tratti di cinema. è roba divertente, che provoca questi effetti di shock psichedelico. dopo, se hai senso dell’umorismo, ridi e riconosci di esserti divertito… tutto qua. anche il vecchio Dune girato col suo attore feticcio di Twin Peaks è stato un film veramente molto divertente e inquietante, perfino un po’ troppo, perfino un po’… fascista?

  5. fioretti della settimana secondo Domenico Savio:

    Portare il mio capufficio a vedere Inland Empire
    Portare i suoceri a vedere Inland Empire
    Portare la mia nuova ragazza/il mio nuovo ragazzo a vedere Inland Empire
    Portare un barone universitario a vedere Inland Empire
    Portare un brigatista a vedere Inland Empire
    Portare una famiglia leghista a vedere Inland Empire

    Immaginare che cazzo direbbe Ghezzi, in audio differito, dopo aver visto per sette volte di fila Inland Empire

    Cercare di far passare l’idea che Inland Empire debba essere distribuito nella ultime sale che ancora proiettano film porno

  6. …ma un altro film che consiglierei a un leghista (e sette volte a Enrico Ghezzi) è Paura e Delirio a Las Vegas di Terry Gilliam. non è granché, ma dopo averlo visto io non riuscivo a conservare la posizione eretta… rientra anche questo nella categoria “allucinogeni”. altro film da far vedere a un leghista è il già citato Dune. in questo caso perché rischia che ti diventi un musulmano integralista. sarebbe divertente (anche se nel film non ci sono i musulmani, ma qualcosa di simile e inquietante) un talebano bergamasco o serenissimo.

  7. vorrei dire anche una roba seria: mi sembrano da rigettare interpretazioni psico-analitiche dell’opera di Lynch. almeno non mi convincono affatto. a me sembra un autore attirato dal grottesco, dall’iperreale/surreale, dal bizzaro e dall’umorismo (come quando in Mulholland Drive suggerisce l’idea, divertentissima, che a Hollywood comandi il diavolo alleato con la mafia!) ma non un indagatore del profondo. ovviamente, potrei sbagliarmi. a dire il vero ha fatto anche un film molto bello e poetico come The Straight Story che per me è vero cinema e non il solito allucinogeno.

  8. marco
    non ho ancora visto il film
    Però. Per l’esperienza che ho di lynch e dell’Unheimliche la lettura psicanalitica mi sta un po’ stretta. Quindi, visto che sopporto (anzi mi interessano) anche visioni/ esperienze differenti, me la dai una spiega (for dummies:) di come secondo te si dipana/diviene l’assunto-tesi lacaniano?

  9. mi è piaciuta molto questa lettura… io, sono stato al cinema tutto il tempo vicino a un musicista lucano che di tanto in tanto si alzava per andare a bere un quantità di alcool che non so dire… era molto allegro e mi ha fatto da antidoto… credo che fosse la compagnia migliore per un film del genere.

    il film è qualcosa di grosso e di enormemente “irrispettoso”.

    hollywood e il circo sono sullo sfondo…

    il circo con il suo esoterismo ed esotismo da terre lontane – che amplifica l’immaginazione e crea spazio in una dilatazione indefinita –

    e hollywood (il vero bersaglio del regista) – in particolare con le sue simpatiche-umane-puttane-comparse… (bei seni, ad ogni modo!)

    poi ci sono gli “effetti” – filmici e linguistici – (per dirne una, quella di una Nikki, prima perbene, poi pulp) che credo stiano lì a svelarci l’operazione altamente retorica del cinema – e perchè no! anche della letteratura – quando innesca i suoi artifici da accalappiacani… ma Lynch ne sa una più del diavolo e lo fa con una consapevolezza dirompente che riflette i trecentosessantagradi della società dello spettacolo…

    a questo punto, però, secondo me le simbologie si svuotano… e non vogliono più dire nulla (anche se continuiamo a lambiccarci, e a trovare infiniti significati). credo che il regista sia consapevole che l’eccesso le esautori. come nel barocco… dove il pieno zeppo, l’eccesso – in genere – è un “horror vacui”.

  10. @ andrea ingles che cita i fioretti della settimana. Sì ok, ma è anche possibile che porti tutta sta gente a vedere sto film (come qualsiasi altro, beninteso) e rimane anche semplicemente indifferente, magari annoiata, oppure piacevolmente spiazzata ma comunque niente trip psicologici, attraversamenti del fantasma o cose simili. o la famigliola che poi torna a casa e tutto come prima, al massimo si parla un po’ della trama. che poi magari s’accoltellano, ma tanto l’avrebbero fatto già prima per conto loro.
    detto questo: ma un Lynch della letteratura esiste oggi?

  11. Trama? quella che si buca con una sigaretta per vedere oltre.

    L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lacrima.
    E’ il titolo di un film di Alberto Grifi, uno che l’antinarratività l’ha praticata negli anni’60 montando scarti di pellicola girata da altri.

    Quella di Lynch è la tragedia antinarrativa dei molteplici mondi/modi possibili.
    Tutti parziali remakes di film non finiti, da cui si entra e si esce, salendo, scendendo…
    con la casualità necessaria, quella propria dei numeri, in cui si cercano simboli come significati, disperatamente

  12. io penso che lynch dovesse fare film sulla vita militare che è allucinogena più di un trip. in sardegna, capo teulada l’allora mio comandante maggiore serrao andava sempre a carciofi durante le esercitazioni. i ragazzi sparavano e lui prendeva i carciofi a un metro. roba da m.a.s.h., da comma 22. e il tenente colonnello arolfi, senese della contrada dell’oca, ubriaco di vino dalle 11 del mattino, comandante del nucleo, gli dava man forte.

  13. Io appena sono uscita dalla sala, cioè questo sabato, mi ero convinta che la chiave di tutto fosse lo sceneggiatore (che sono convinta sia lo sceneggiatore) ovvero quell’uomo che affianca il regista jeremy irons. e che lui fosse il corrispettivo o alter ego dell’ipnotizzatore circense polacco. in modi diversi, però tutti e due artefici della scrittura di questa storia e di tutti i suoi risvolti dolorosi. io pensavo che lo sceneggiatore o magari anche il marito di nikki, visto che è così ricco, attirasse belle donne con il sogno di diventare stelle del cinema, e che poi per qualche inganno (droga o ipnosi appunto) finissero sul marciapiede (anche quando nikki sulla hall of fame dice: “ora vi faccio vedere un bel gesto, e tutte insieme le prostitute fanno schioccare le dita). e ciò me lo aveva confermato anche il fatto che lui chiedesse soldi sul set sia agli attori che agli altri che lavoravano alle riprese, come fa un magnaccia. e che in questa storia di prostituzione poi ci finisse anche nikki coi suoi sogni di diventare una stella. insomma credo che ci siano tanti mondi tutti speculari, come una storia che si ripete, il male che si ripropone, come un viaggio a ritroso nelle vite passate. poi di nuovo, non mi chiedete perché, ho creduto che quando susan/nikki uccide l’ipnotizzatore e si vede dopo alcuni spari la faccia quasi mascherata, io non so perchè ho pensato che fosse la faccia della signora anziana che va a fare visita a nikki all’inizio. (la signora infatti conosce molto bene il futuro ma non tutto il futuro, conosce in pratica la “sceneggiatura” e i rischi che ne comporteranno). e quindi credo, non so bene il perché, che la signora sia la madre dello sceneggiatore. tutto il film grida di continuo Guarda oltre quello che vedi, perchè non è quello che vedi quello che conta, c’è una ragione molto più profonda e sedimentata che riguarda quello che stai vivendo, finchè vivrai nell’illusione della mente e non guarderai con occhi consapevoli trascendendo la realtà, non farai mai luce, non uscirai mai a vivere fuori dall’inganno della mente e tutto si ripeterà senza fine. quando ecco che si dice Il cavallo sta arrivando alla sorgente. e sue uccide il Fantasma. credo tutto questo sulla base mia intuizione.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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