Complementarità e dintorni 4

di Antonio Sparzani

Nel caldo giugno del 1925, al ventiquattrenne Heisenberg, che stava in quel momento, guarda caso, a Göttingen, venne la febbre da fieno. Cosa fanno (facevano) i tedeschi in queste circostanze? Andavano dove non c’erano piante. Heisenberg andò a Helgoland, un’isoletta che sta nel mare del nord, a ovest della Danimarca, lì, sperduta nel grande mare nero. Dico mare nero perché io ci sono stato, non penserete che un fisico perduto dietro a fantasie di pellegrinaggi si perda una simile occasione. C’è un battello che da Cuxhaven porta a Helgoland in poche ore, si va e torna in giornata. L’isola si gira a piedi, ed è rigogliosa di piante come non mai. Io non lo so come sia stato, se le piante sono cresciute tutte dopo, per festeggiare gli avvenimenti del ’25 o se semplicemente non c’erano quelle che davano fastidio al nostro fisico. Dev’essere così, perché dice il serissimo Van der Waerden che “non vi cresce alcuna erba”.

Ecco una rapida descrizione di Heisenberg, in una lettera al sullodato Van der Waerden: “Vi fu un attimo a Helgoland, nel quale mi venne come un’illuminazione, quando realizzai che l’energia era costante nel tempo. Era notte, e piuttosto tardi. Ricalcolai tutto faticosamente; e funzionava. Mi arrampicai allora su una roccia, guardai l’alba e fui felice.”

Voi direte, bella scoperta, si era accorto che l’energia si conserva, ma non lo sanno tutti che le cose vanno sempre così? Sì, lo avevano sempre detto tutti, salvo che invece, proprio negli anni immediatamente precedenti, siccome non si riusciva a capire davvero nulla del perché avvenivano certi decadimenti (emissioni di elettroni da parte di certi atomi) alcuni – e tra questi Bohr e altri dei migliori – si erano azzardati a ipotizzare che l’energia si conservasse solo in media e non in ogni singolo processo. Capite che questa è grossa: ci possono essere, secondo questa ipotesi, dei processi elementari nei quali l’energia non viene conservata, eresia e raccapriccio, purché naturalmente su un grande numero di processi analoghi l’energia totale si conservi. Non era una rinuncia da poco. E invece ad un certo punto il nostro capì che non occorreva questa ipotesi così eterodossa e riuscì a far quadrare i conto lo stesso.

Però a prezzo di altre pesanti eterodossie. L’evoluzione del pensiero di Heisenberg in questo frangente è abbastanza limpida. Non sa bene a cosa si possa ragionevolmente rinunciare. E allora si attacca ad un principio chiaro e distinto:  “Il punto fondamentale è: nel calcolo di qualsiasi grandezza, energia, frequenza o altro, devono apparire soltanto relazioni tra quantità in linea di principio controllabili.” Frase interessante perché prelude ad un’analisi spietata su quel che davvero è controllabile, cioè davvero misurabile e cosa no.

Voi come fareste a misurare la posizione di un elettrone? Lo guardereste? E guardare cosa significa di preciso? Per vedere bisogna che qualche cosa passi – al contrario di quel che pensavano i nostri deliziosi stilnovisti per i quali era il nostro occhio che emanava qualcosa che colpiva l’oggetto osservato – dal visto al vedente. Dunque dovete illuminare l’elettrone e aspettare che qualche pezzetto di quella luce vi rimbalzi sulla retina; capite subito che non è come dirlo, soprattutto perché appena sbattete sull’elettrone un po’ di luce – si dice un fotone – questo influenza il movimento dell’elettrone e lui non è più quello di prima e non riuscite più a capire dove sia andato.

Per questo Heisenberg diventò sempre più esigente in materia: per parlare di una grandezza, occorre che sia osservabile. Lettera di Heisenberg a Pauli del 9 luglio 1925: “Da Helgoland in poi il mio punto di vista sulla meccanica diventa di giorno in giorno più radicale . . . siamo d’accordo che già la cinematica della teoria quantistica dev’essere tutt’altra da quella della meccanica classica . . . è mia convinzione che una interpretazione delle formule di Rydberg nel senso di orbite circolari o ellittiche della geometria classica non abbia il minimo senso fisico e tutti i miei poveri sforzi vanno nella direzione di ammazzare completamente, e sostituire con qualcosa di appropriato, il concetto di orbita, che appunto è del tutto non osservabile.”

Questo dunque è il nuovo punto: occorre sacrificare uno dei pilastri della cinematica classica: cinematica è quella parte iniziale della meccanica che insegna a descrivere (non a calcolare o a spiegare) il movimento. Il pilastro è il concetto di orbita. Cosa è l’orbita? È il cammino di un corpo al passare del tempo, la sua traccia spazio-temporale, la conoscenza ad ogni istante della posizione del corpo. Bene questo non s’ha più da fare o da immaginare di poter sapere. Basta orbite, bisogna cambiare, sostituirle con qualche altra idea, forse più debole, però – in compenso – osservabile. E il difficile era, naturalmente, trovare quest’altra idea, più debole sì di quella di orbita, tuttavia sufficientemente forte da poter ancora fare un po’ di fisica. Se no, dove stava più il divertimento?

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8 Commenti

  1. prometto. Ma credo di avere risposto anche l’altra volta, solo che l’ho fatto in ritardo, quando il post era già “giù”. Provi ad andare a vedere. Comunque stavolta garantisco.

  2. Qusti testi danno lo stesso piacere intellettuale che ho provato con “Copenhagen” di Michael Frayn. È importante che un luogo di letteratura faccia letteratura attraverso l’epistemologia, e viceversa. Oltretutto l’autore è un signor divulgatore, il che non guasta, e scrive bene. Ogni tanto fa bene ricordarsi che è QUESTA la comprensione scientifica del mondo (non quella spacciata come tale da un parroco bavarese il cui nome ora come ora mi sfugge, né quella degli apocalittici per contratto con dio), ed è questo l’ambiente col quale dovrebbe interagire una letteratura non onfalocentrica: molto di quello che si dice pro/contro il post-moderno o il relativismo perde senso, se non è in relazione con questa comprensione. O, semplicemente, ha un senso, ma è meno interessante di un libro di (su) Heisenberg o Gödel.
    Ovviamente ci sarà un “Complementarietà e dintorni” 5 (e 6, 7, 8…)?

  3. Sono sempre stato un attivo sostenitore della buona divulgazione scientifica, eppure…

    Eppure nell’approccio divulgativo ai temi complessi della scienza, e in particolare della fisica, credo che si debba fare uno sforzo ulteriore. Non capisco perché la divulgazione scientifica debba sempre e comunque prescindere dalle formule e dall’apparato fisico-matematico. Non capisco perché una persona di cultura, o comunque interessata a temi culturali, debba sapere di letteratura, di storia e di filosofia, e al tempo stesso non sia tenuta a sapere cos’è un’integrale, una derivata, o non debba poter manipolare equazioni e simboli così come manipola le parole del linguaggio naturale.

    La matematica nella scienza è essenzialmente, come diceva Ernst Mach, economia di pensiero. E non è così difficile da imparare come si vuol far credere. La divulgazione non si può ridurre alla spiegazione di formule e riusltati fisico-matematici a parole. Semmai è analisi storico-critica dello sviluppo di teorie e concetti. Nel pezzo presentato questo approccio c’è, ma sarebbe stato interessante mettere anche qualche formula.

    Nel Saggiatore (1623) scriveva, in maniera molto lungimirante:

    «[…] forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».

    Spesso la divulgazione parolaia è più difficile da capire di un trattato di geometria differenziale. Un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

  4. E il difficile era, naturalmente, trovare quest’altra idea, più debole sì di quella di orbita, tuttavia sufficientemente forte da poter ancora fare un po’ di fisica. Se no, dove stava più il divertimento?

    Almeno un trailer di anticipazione, se non le orbite cosa? Una insinuante serpentina sinusoide, uno zig zag futurista? Una breakdance atomica? Le orbite danno sicurezza, tutto sul suo binario, nulla che si scontra, tutto che fila via liscio…

    “Vi fu un attimo a Helgoland, nel quale mi venne come un’illuminazione, quando realizzai che l’energia era costante nel tempo. Era notte, e piuttosto tardi. Ricalcolai tutto faticosamente; e funzionava. Mi arrampicai allora su una roccia, guardai l’alba e fui felice.”

    Che invidia questi rapimenti poetici dei fisici. Ricordo la nostra adorabile professoressa di Fisica e Matematica, la signorina Arrigoni, grazie alla quale qualcosa ancora resta del tanto appassionato insegnamento a cui dedico la sua nubile missione, con una luce esaltata e sognante negli occhi mentre con il gesso ricopriva formule la lavagna. Scritte ordinatissime. Era talmente distratta da cascare quasi in un tombino, mentre discettava di non si sa cosa con il suo professore all’Università e da avere sempre i bottoni degli impeccabili tailleur allacciati sghimbesci, saltando il primo bottone. Ci raccontava del famoso Ampere, che durante le lezioni si soffiava il naso con il cancellino della lavagna ed una volta mentre passeggiava per Parigi, preso da un raptus, scambiò la porta di una carrozza parcheggiata per una lavagna e cominciò a riempirla di formule e, quando improvvisamente ripartì, egli si mise ad inseguirla per terminare i suoi calcoli.

  5. Anch’io leggo sempre volentieri Sparzani, anche se non so perché, visto che non capisco se non in misura minima quello che dice, per mancanza di basi.
    Prodan ha forse ragione, che non è così difficile da imparare, ma a quelli che non erano portati è stata insegnata in modo da allontanarli per sempre.
    Io sono una di quelli.
    Bisognerebbe forse formare diversamente gli insegnanti, io non ricordo niente di quello che hanno malamente tentato di insegnarmi al liceo, forse era colpa mia, ma credo soprattutto della scuola.
    Comunque grazie Sparzani, tra i lettori silenziosi ci sono sempre anch’io.

  6. Caro Prodan, non potrei essere più d’accordo di così con quel che dici, le formule sono largamente considerate uno spauracchio incomprensibile perché la mamma degli/lle insegnanti di matematica incapaci è sempre incinta. Vedi commento di Alcor. Per questo motivo sto scrivendo un “manuale” di matematica e fisica elementari per non addetti ai lavori, per laici, insomma, o anche, come si dice con una definizione quanto mai infelice, per gli studenti delle facoltà umanistiche (le altre non sono umanistiche, ovviamente), ma sarà pronto dopo l’estate. Il problema della divulgazione è quello di dire cose che siano contemporaneamente comprensibili e giuste. Non semplificazioni demenziali che danno idee sbagliate e abborracciate. Ho provato a fare questo in un libro pubblicato tre anni fa “Relatività, quante storie” nel quale credo di essermi sforzato di far capire l’idea di relatività appunto ai laici, e di far vedere come essa pervada ampiamente la letteratura tout-court.

    Le formule sono alla portata di tutti, occorre guardarle freddamente, con la precisa consapevolezza che l’uomo è padrone della formula e non viceversa. Se non la si capisce è perché ce l’hanno scritta male, senza spiegare tutti i simboli che vi compaiono. In un post di NI non è facile mettere delle formule significative, anche perché non credo ci sia il software adatto, ma qualcosa si può fare. Bisogna però cambiare la mentalità di chi appena vede una formula scappa inorridito gridando io non ci ho mai capito niente. Guardarle freddamente, prego.

    Alla sempre gentile così&come dico che una facile anticipazione è che alle orbite si sostituirà la maledetta probabilità, ma detto così naturalmente non dà abbastanza l’idea, un attimo di pazienza, grazie. Almeno hai avuto un’insegnante di Mat&Fis simpatica.

    E Galbiati dov’è sparito?

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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