Mammifero italiano

giorgio-manganelli.bmp di Matteo Di Gesù

Fu Italo Calvino il primo a ponderare sin dai suoi esordi, e dunque in tempi non sospetti (ovvero ancora immuni dagli attuali rischi di una banalizzazione conseguente a questa tardiva ‘scoperta’ da parte di frotte di lettori e critici) tutta la consistenza politica della scrittura di Giorgio Manganelli: «La mia impressione», scriveva Calvino già a proposito del Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti (testo poi inglobato in Agli dei ulteriori), anno di grazia 1965, «è che l’antistoricismo di Manganelli e il suo imperturbabile gusto del rigore intellettuale siano una sfida, un pungolo, molto più utili di quel vago escatologismo millenaristico che da più parti viene spacciato per storicismo». Che l’autore di Centuria, per usare ancora le parole di Calvino, «riesca a esercitare una vera e propria funzione di ‘moralista’ e perfino –uso un termine che susciterebbe tutti i suoi sarcasmi – di ‘interprete del nostro tempo’», ce lo hanno ricordato recentemente Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, curatori di un numero della rivista «Riga» a lui dedicato e deliberatamente orientato a mettere in rilievo la cifra civile della sua scrittura e della sua attività di commentatore e polemista su quotidiani e settimanali (e, si parva licet, anche l’autore di questo articolo aveva proposto, in un paio di libri, una lettura politica del corpus manganelliano).
Proprio a Marco Belpoliti si deve la cura amorevole del Mammifero italiano (Adelphi 2007, pp. 150, euro 9,00), fresca raccolta di articoli apparsi tra il 1972 e il 1989 sul «Corriere della sera», «L’Espresso», «Il Messaggero», «L’Europeo», «Il Mondo», «La Stampa» (alcuni dei quali anticipati per l’appunto in quel fascicolo di «Riga»), che va ad integrare le precedenti collezioni di Lunario dell’orfano sannita e Improvvisi per macchina da scrivere. Riproposti nella loro versione a stampa e sistemati secondo l’ordine alfabetico dei titoli attribuiti loro dal curatore (sempre di una sola parola: quasi dei lemmi), finiscono col costituire un piccolo breviario, un compendio del lascito ad usi civici tramandatoci dal Malinconico Tapiro.
Per Manganelli, il corsivo, più che con ogni altro genere letterario, è una forma imparentata addirittura col sonetto, per «la dura brevità a cui deve obbedire»; e del resto, sul risvolto autografo della prima edizione degli Improvvisi si poteva leggere: «di tutto il suo opus, è vanitoso, spesso in modo intollerabile, unicamente dei suoi corsivi; talora li legge da solo, e ride». Potrebbero già essere sufficienti questi cenni per far comprendere che si cadrebbe in errore (e si farebbe un gran torto al Manga) qualora si considerasse la sua attività pubblicistica come una porzione secondaria della sua produzione di scrittore. Semmai, proprio alcune delle prerogative che meglio caratterizzano la sua scrittura letteraria (antimimetismo, ironia angosciosa, parodismo, e soprattutto lateralità distopica, ‘infernale’ e ‘paludosa’), si ritrovano in questi testi e concorrono a determinarne la smagliante e implacabile efficacia analitica e polemica.
Il perfetto meccanismo a orologeria dei corsivi manganelliani raccolti in Mammifero italiano muove, quasi furtivamente, da un attacco frivolo e canzonatorio, se non paradossale (e nondimeno di calibratissima esecuzione formale) per poi, dopo aver condotto il lettore al cuore della questione, deflagrare in tutta la sua potenza corrosiva (ecco, ad esempio, i tre ‘movimenti’ di Tasse I: «Stamane ho pagato le tasse. Come ogni volta ho avvertito un oscuro, profondo, incomprensibile piacere […] L’italiano è colpevole. L’italiano non si stupisce se qualcuno viene arrestato, mai. Lo trova naturale. Solo silenziosamente si stupisce di non essere lui, l’arrestato […] Quando esco dalla banca, corro a prendere l’autobus con passo leggero. Sono un evaso con i documenti in regola»). Ovvero avanza per accumuli convulsi: «L’italiano passerebbe buona parte della sua vita a irridere ministri, deputati, preti, bigliettari, capi di Stato nazionali ed esteri, vigili, santi, re, netturbini, sindaci, metronotte, orfanelle, carristi, carabinieri, dogmi e liberi docenti; temperamenti più laconici e comprensivi potrebbero insultare la nazione tutta o, come si è detto, prendere a calci la bandiera» (Patria). O ancora procede sul filo di un dileggio sottile quanto inesorabile: «Vedo una poltrona che si percuote lo schienale con i braccioli: pura disperazione. Poi una voce femminile, acre e minatoria, domina la sala distratta. Non mi stupirei che parlasse della fine del mondo. Sembra informata. Meglio uscire» (curiosando a un’assemblea della DC in Democristiani).
L’esito di un tale distillato di efficacia stilistica è una micidiale disamina, un vero e proprio, seppure postumo, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che trova, come nota puntualmente Belpoliti nella sua postfazione, nella famiglia e nel familismo la causa originaria delle degenerazioni necrotiche della società: «Non ho alcun motivo per amare, venerare, rispettare la famiglia italiana. Questa famiglia è una curiosa sopravvivenza della tribù patriarcale che esisteva ancora cinquant’anni fa; non era granché nemmeno quella». Manganelli, sulle tracce di Ernst Bernhard, il grande psicoanalista junghiano dal quale fu in analisi per molti anni, con l’attitudine di un antropologo interpreta le patologie del corpo sociale come il tralignamento di un rapporto affatto distorto degli italiani-figli con la Grande Madre mediterranea (è lei, del resto, la donna con la tunica e la testa coronata da una cinta turrita che simboleggia la ‘Patria’). E lo fa da «moralista simpatetico», come scrive Belpoliti, senza tirarsi fuori dall’insieme sul quale si posa il suo sguardo da entomologo («Come tutti gli italiani degni di questo nome, io sono un cittadino mediocre, diciamo pure scadente»), sentendosi partecipe di quella idiozia che tratteggia nei suoi quadretti fulminanti. Proprio fondando su questi presupposti analitici e su questi modi espressivi la sua replica al mai molto amato Pier Paolo Pasolini e alla sua celebre e spiazzante polemica sull’Aborto, ad esempio, Manganelli ha buon gioco nel demolire le argomentazioni capziose addotte in quella circostanza da un Pasolini che «a furia di dribbling» aveva ingannato se stesso.
Tuttavia la sua spassosa e ineguagliabile verve di corsivista funziona altresì come una vera e propria microfisica del potere, specialmente quando per l’appunto prende in esame i luoghi istituzionali e le dinamiche nelle quali lo si esercita (la scuola, l’università, la giustizia, oltre alla famiglia). È in questi pezzi, che l’«oltraggiosa anarchia» della sua risata sardonica, in pochi guizzi, disarticola gli apparati retorici del potere, ne demistifica le cerimonie e centellina anticorpi immunizzanti contro le sue più insidiose infezioni. Ci basti qui questo passo contro le consuetudini accademiche: «A mio avviso, la tesi di laurea obbligatoria e generale nasconde in sé l’antica, omicida utopia universitaria: quella di trasformare tutto ciò che di non dialettizzabile offre l’esperienza –storia, arte, letteratura, filosofia- nell’eden della “cultura”».
A ulteriore smentita di chi, ancora fino a pochi anni fa, faticando a comprimerne l’opera negli schedoni monografici sui quali solitamente si computa la letteratura italiana e in palese assenza di storicismi teleologici che ne prospettassero le future magnifiche sorti, non esitava a definire Manganelli un disimpegnato nichilista.

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5 Commenti

  1. Visto che si parla anche di Calvino (a una prima veloce lettura)….mi riservo di mandare un commento appena il tempo e la concentrazione me lo permetteranno.
    Un saluto a Sergio.

  2. Gran bell’articolo!
    approfondirò il coraggioso argomento.
    mi viene scrivere questo:

    Chi va contro corrente merita un ascolto in più!

  3. corsivista fulminante, acrobatico traveller, polemista acuto del costume italico… cosa c’entra tutto questo con la ‘microfisica’ del potere, con i più autentici scrittori civili che l’italietta del secondo ‘900 per sua fortuna ha avuto?

  4. riconosco di possedere un’idea piuttosto ‘allargata’ di scrittura civile, e per rimanere nell’ambito della produzione italiana “del secondo ‘900” non fatico affatto ad accostare Primo Levi all’anonimo multi-autore de ‘La strage di Stato’, così come mi vien naturale considerare ‘Uomini e no’ opera civile al pari di ‘I sentieri dei nidi di ragno’, e ritenere l’elogio della menzogna perpetrato da Manganelli un’anatomia del potere altrettanto potente della tipizzazione della rete di scambio, che dalla classe dirigente tracima fino al sotto-proletariato, tracciata in ‘Petrolio’.

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sergio garufi
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Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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