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Montalbano e la Sirena

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di Linnio Accorroni
“Ma poi che gambe, che classe, che gambe! Anche se ce l’ha storte, è troppo sexy e bello! Che mi frega a me se non ce l’ha i capelli. Me lo porterei a casa e butterei via le chiavi: soli io ed il mio Montalbano bello.” Così, dietro a me, mugolava tra il deliquio e la trance erotica, una signora senz’altro âgée, con pelliccia rigorosamente da prima ( così faceva anche la sua mamma, del resto): ‘A teatro sempre con la pelliccia’ anche quando, fuori dal teatro, come quella sera, lo scirocco appiccicoso segnalava l’incongruente dolcezza di una primavera in pieno gennaio).

Di lei percepivo, a soprassalti cubistici, i capelli freschi di coiffeur, le zaffate di Ô de Lancôme, cellulare coloratissimo, un appeal, a conti fatti, inesistente. A sipario aperto, sul palco, scorgevo invece due leggii, asimmetricamente disposti, e che tentavano di farsi compagnia nella penombra, in attesa del paventato inizio; messi lì sembravano pure un po’ tristanzuoli e scettici; ma, verso la fine, avrebbero riscattato questa loro parziale desolazione iniziale con uno ‘sconvolgente’ colpo di scena drammaturgico: l’Attore, cambiando Personaggio, sarebbe magicamente passato dall’uno all’altro. Poi, a luci di sala spente, ad aumentare la suspence per l’apparizione del Montalbano bello, si materializzò il maestro Germano Mazzocchetti, compositore ed esecutore dei brani d’accompagnamento, con uno smoking che, a dirla tutta, non gli calzava proprio benissimo ed un’aria tra il gaddiano ( “Per favore, mi lasci nell’ombra”) ed il chatwiniano ( “Che cosa ci faccio io qui” ). Imbracciava comunque, volenteroso e diligente, una fisarmonica d’ordinanza ( va detto che ormai questo strumento sembra un must irrinunciabile per le letture sceniche) con la quale avrebbe riempito le pause fra una sequenza narrativa e l’altra di questo “La sirena”, mirabile racconto di Tomasi di Lampedusa. Questa era poi in fondo la ragione vera per cui stavo lì, in quella terza fila di platea, tra quei impazienti fans montalbaniani, di età e genere diverso, ma tutti/e quasi in fregola per l’imminente apparizione del Nostro. Molti meno (praticamente nessuno), almeno ad arguire dai commenti dei sovreccitati spettatori a portata di orecchio, coloro che avevano fatto risuonare nel cuore e nella mente la felicità di quel racconto perfetto. Per questo ero lì, non certo per acclarare la ipotizzata, seducente stortezza degli arti zingarettiani o apprezzare, quando Montalbano bello apparve nella possanza della sua fisicità non certo statuaria, l’eleganza del suo tre pezzi nero con camicia bianca e gemelli sbrilluccicanti. Ero lì, invece, per ascoltare in viva voce questo racconto, riassaporarne, se fosse stato possibile, la malinconica bellezza.

La vicenda narrata nel racconto di Tomasi di Lampedusa è questa: un illustre grecista in pensione, il senatore Rosario La Ciura, coltissimo e misantropo, incontra ed affascina, in un caffè piemontese, Fabrizio Corbera, giovane cronista in quel 1938 de ‘La Stampa’, ultimo discendente di un antico casato siciliano in rovina, io narrante della vicenda. I due, in virtù di quella legge chimica che talvolta funziona perfettamente anche fra gli umani, ovverosia l’attrazione dei contrari, si piacciono e, dopo una serie di iniziali schermaglie dialettiche, diventano amici, non lesinandosi battute e arguzie. Tra i due, dopo una serie di visite e di conversazioni amicali che preludono ad una specie di reciproco corteggiamento intellettuale, nasce una solida affinità elettiva sorprendente a constatare la differenza esistente fra due personalità, per tanti aspetti, antitetiche. Durante uno di questi convegni dialettici, il senatore, sopraffatto da un attacco di ‘malinconia retrospettiva’, racconterà al giornalista una vicenda favolosa, dai toni favolosi e mitici: la storia della sua estate più bella, in una spiaggia sicula, quando ventenne ebbe la ventura di incontrare la sirena Lighea, figlia di Calliope, che lo avrebbe iniziato alle gioie dell’Eros. Qualche giorno dopo questa rivelazione, sopraffatto dalla vacuità della propria esistenza attuale e dalla furia dilagante dei ricordi, La Ciura si suiciderà buttandosi in mare dal ponte del transatlantico Rex che lo portava ad un convegno accademico in quel di Lisbona. Il racconto è di ammaliante bellezza: schivando la tentazione dell’esercizio di stile e del puro calligrafismo, in agguato davanti ad un materia narrativa tanto liricheggiante ed iperpoetica di per sé, Tomasi di Lampedusa ha confezionato un racconto di calibrata misura, pieno di battute ustorie, di citazioni coltissime, di vertiginosi sofismi, disseminato di indizi autobiografici e di meditazioni filosofiche che incantano e strappano una grata meraviglia che si rinnova quasi ad ogni voltar di pagina. La Ciura, come don Fabrizio Salina, il Principone del Gattopardo, è un vagheggiatore della morte, l’ adepto disincantato di un cupio dissolvi fermamente perseguito sia nella ebbrezza sensuale dell’amor fou con la Sirena che nella ritualità della ‘morte marina’, attuata attraverso il liberatorio tuffo dal Rex.

Ecco quindi l’esigenza insopprimibile di sedermi lì, in quella terza fila, ancora turbato dal retaggio di malinconia e di lutto che l’ennesima rilettura pomeridiana del racconto, fatalmente, aveva portato con sé. Quale meraviglia quindi sentire, ad apertura di spettacolo, il maestro Mazzocchetti diteggiare sulla fisarmonica un pezzo allegro e scoppiettante, più da sagra paesana d’antan che in sintonia con il mood sostanzialmente luttuoso del racconto. Ho sinceramente sperato allora nella lettura di Montalbano bello, anche se segretamente avvertivo che questa inconsulta introduzione musicale non sarebbe stato che le estremità di quel rospo tutto intero che avrei dovuto ingoiare nel corso della serata. Quello scirocco in pieno gennaio avrebbe pur dovuto insegnarmi qualcosa! Mi sembrava di non pretendere poi tanto : una lettura neutra, piana, più aderente possibile allo spirito del testo, lontana da enfasi ed istrionismi, magari sussurrata, ma ‘fedele’, affinché a quella prosa estetizzante fosse restituito il suo intrinseco incanto. Purtroppo, non fu così: mandate giù con somma fatica le zampe del rospo, adesso mi aspettava la parte più pesante, tutto il suo corpaccio viscido e repellente. Infatti, a malapena ripresomi dal refrain ( beffardo? inconsulto? dispettoso? geniale? folle? ) introduttivo del maestro Mazzocchetti, ecco che il melanconico La Ciura veniva trasformato, dalla recitazione retoricheggiante e quasi trombonesca di Zingaretti, in una specie di macchietta, una sorta di pallone gonfiato dai toni roboanti e dalle tirate tenorili: una via di mezzo tra l’istrionismo clownesco dei discorsi del Duce e Petrolini-Nerone. Ero allibito e sconfortato: avrei voluto gridare ‘aridatemi li sordi’, alzarmi in piedi e scappare, inveendo contro il duo Zingaretti e Mazzocchetti ed incolpandoli del reato di lesa maestà, picchiare la signora e magari tutti gli altri fans che mi circondavano. Sono rimasto fino alla fine, sbuffando e rigirandomi come una trottola sulla poltrona, cercando di digerire il rospo indigesto. Gli altri, ovvero il pubblico, invece ha molto gradito tutto questo gonfiar di petto, questo sfoggio di tic e vezzi, così poco attinenti, secondo me, alla realtà letteraria del personaggio tomasiano: numerose sono state le chiamate in scena alla fine dello spettacolo, gli applausi scroscianti, lo Zingaretti gongolante e saltellante, Mazzocchetti incantato da tanta imprevista generosità, tanto che alla fine perfino lo smoking sembrava meglio fasciare il suo fisico non particolarmente atletico. La signora impellicciata, poi, era ormai in piena regressione adolescenziale: il Lancome adesso era malamente contaminato da qualche vago sospetto odorifero, un afrore pizzicoso più da ghiandole sudoripare che da fine essenza francese: lei dava in urletti striduli, ho temuto volesse lanciare sul palco la sua lingerie intima, manco fossimo stati ad un concerto di Robbie Williams. Uscito fuori, lo scirocco impazzava: era già l’una, il giorno dopo sarei dovuto entrare la prima ora. In una classe. Ventisette alunni scatenati.

 

Scheda:
Come leggeva (meglio) Tomasi: Era il 1956, pochi mesi prima la sua morte: l’autore volle registrare la sua lettura de ‘La sirena’. Il registratore era un Grundig antidiluviano. Così ricorda Lanza Tomasi, oggi illustre musicologo e figlio adottivo dello scrittore del ‘Gattopardo’: “Giuseppe leggeva da un manoscritto, l’accento palermitano della passata generazione, oggi quasi scomparso, e leggeva con intenzione, facendo comprendere le trame sottaciute. Aveva in comune con il cugino Lucio Piccolo il gusto della lettura recitazione”.
I due leggii: l’unico coup de théâtre in un recital monocorde è il passaggio dell’attore da un leggio ad un altro: vuol dire che è La Ciura che racconta la sua love story con Lighea.
Dove e quando: Pergolesi, Jesi ( uno dei più bei teatri marchigiani), 19 gennaio, 20 gradi. Tutto esaurito.
Uscite per applausi: 3 e mezzo.
Tournée: marzo-aprile. Forse anche date estive.

(Nella foto: Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

 

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25 Commenti

  1. scusa linnio ma non mi è piaciuto questo tuo pezzo. il racconto di tomasi di lampedusa lo leggerò come consigli, e so già che mi piacerà, ma la presa per il culo della vicina e le osservazioni di costume le ho trovate gratuite.

  2. Be’, la cosa comica è che io ho letto solo le parti di costume, saltando dove parla del racconto di Tomasi.

  3. la gratuità delle osservazioni di costume di questo pezzo, a mio avviso, non sta nell’averle enunciate, ma nel punto di osservazione, che mi pare esterno e superiore all’osservato. è il motivo per cui questo paese non ha avuto un grande scrittore mondano, come balzac, o zola, o cechov. in questo senso, manganelli è l’esempio opposto. lui (lo ricordava poc’anzi di gesù con le parole di belpoliti) “non si chiama mai fuori da ciò che descrive, anzi, riesce a raccontare così bene e a fondo i fenomeni che osserva perché è parte del quadro, c’è dentro, osservatore e osservato. il suo moralismo simpatetico non fustiga i costumi sentendosi dalla parte del giusto. al contrario, prova la netta sensazione di essere dalla parte del torto; o meglio: di essere egli stesso il torto che descrive, così che, con perfetto masochismo, parla dell’altro come se fosse se stesso […] la sua lucida cattiveria non è un’arma micidiale rivolta unicamente contro il prossimo, ma una spada a doppio taglio che ferisce prima di tutto colui che la impugna”. non si è credibili, e secondo me neppure divertenti, se ci si limita a stigmatizzare “i calzini improbabili” degli altri e si è convinti che i propri siano sempre impeccabili. “les bourgeois, ce sont les autres”, ammoniva giustamente jules renard nel suo diario (28/1/1890).

  4. su questo racconto ha pubblicato (2000) scritto un bellissimo saggio Basilio Reale (Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Moretti & Vitali editore) –
    (cmq. l’idiozia è un fenomeno eterno ed ineliminabile, parimenti il birignao ed il manierismo attoriale …)

  5. a sergio

    la mia era una semplice cronaca di costume, un pezzullo che doveva essere più ironico che serio, senza nessuna pretsa di echeggiare balzac o cecov, etc… non capisco però perchè uno debba sempre e comunque adeguarsi al mainstream, se no passa per spocchioso-razzista- elitario higbrow. che poi gli altri siano sempre l’inferno, questo è notorio.

    ad alcor
    con moto ?

  6. senza.

    Se mi inviti a pranzo e mi dai un arrosto stopposo e mi chiedi com’è, non puoi poi dirmi, ah, va beh, non mi ci sono molto impegnato, era un arrosto più ironico che serio, un arrosto senza nessuna pretesa.

  7. Se posso riprendere il mio precedente commento vorrei segnalare un aspetto importante del racconto di Tomasi di Lampedusa proprio riguardo alla grecità. Qui Tomasi si rivela un classicista e d’accordo, le citazioni e i riferimenti nel testo ne danno dimostrazione. Su questa linea al contempo se ne potrebbe trarre una deduzione in merito alla concezione storica della Sicilia affarmata dall’autore nelle sue opere. Se nel Gattopardo la Sicilia fu sempre, durante i millenni, terra di conquista, qui ne La sirena si lascia intendere che ci fu in passato un momento di vera integrazione tra la Sicilia e il mondo della grecità e non di dominio straniero.
    L’iniziazione a cui è sottoposto il futuro senatore La Ciura non riguarda solo l’eros, anzi. L’eros è quello greco, come parte di quel mondo in cui viene introdotto. è a tutta la grecità che viene inizato!

  8. Scusate, ma secondo me Linnio ha dato voce semplicemente alla sua delusione.
    L’aspettativa forse era troppa, ed è stata frustrata.
    Insomma, ‘sta lettura non gli è piaciuta nè per lo stile nè per l’accompagnamento, e l’ha detto.
    Perchè ‘crociffiggerlo’ per ciò ?:o)

  9. a proposito di “grecità” – ricordo un distico di Bartolo Cattafi, in una poesia dedicata all’emigrazione: ” dovranno penare, camminare, / conoscere la Grecia” – “grecità” per la Sicilia, per una sua fase storica, significa essere il centro di un esperienza universale

  10. scusa x gli errori (un’esperienza, ovviamente) –

    ah, Cattafi, il lato del muschio in un contesto mediterraneo…

  11. In tutto questo cosa c’entra la signora impellicciata con la mondanità. Simona Ventura è una donna mondana! In quale decennio storico del ‘900 è ambientato lo scritto? Di solito il visone fa sciuretta all’Esselunga.

  12. Notate come la maggior parte dei commenti che vengono lasciati non riguardano affatto i contenuti proposti dai redattori degli articoli, bensì la qualità di questi. Sono appunto commenti, spesso semplici come mi è piaciuto non mi è piaciuto, che raramente danno via ad approfonditi dibattiti sulla materia inizialemnte proposta dai post. Quelli più commentati e frequentati sono avviamente quelli dove si litiga, in genere su questioni da poco e mai per importanti divergenze d’opinioni. E poi c’è chi si sente in dovere di intervenire sempre ogni giorno su qualsiasi pezzo senza dire assolutamente nulla. Che noia!

  13. Ma veramente qui Accorroni ha proposto un racconto suo di cui il racconto di Lampedusa è solo lo spunto, non un saggio critico.
    Forse sei tu ad aver sbagliato thread.

  14. Lighea è uno dei più bei racconti che ho mai letto.
    Credo si ispiri a un quadro di Giulio Aristide Sartorio, il quale almeno in quel quadro ha ben presente il lavoro di Arnold Boecklin.
    dunque propongo, in totale azzardo, questa catena causale.

  15. @barbara
    “Perchè ‘crocifiggerlo’ per ciò ?”

    accorroni è un ottimo critico. in passato ho apprezzato molte sue recensioni presentate qui, e l’ho detto pubblicamente. questa non m’è parsa all’altezza delle precedenti, e mi sono permesso di dirlo perché mi sembrava indicativa di un approccio più generale.

  16. l’interpretazione pubblica, vocale, di un pezzo scritto, è -a mio parere- una sorta di riscrittura interna. zingaretti ha proposta la sua che non è piaciuta ad accorroni che -evidentemente- ne ha già una propria.

    tutto il resto del pezzo puzza di uno snobismo un po’ zoppo: “erano tutti lì per montalbano, per la tivvù; solo io per lampedusa, per la cultura!” sembra dire l’accorroni che -nel suo racconto- ci fa capire che chi guarda la tivvù si veste pure male e manda odore.

    la prossima volta sto povero lampedusa bisogna consumarlo da soli in bagno, così anche per i cattivi odori si rimedia più facilmente.

  17. a sergio
    grazie.

    a venerandi
    ‘ti offro una doccia ai bagni diurni che sono degli abissi di felicità’

  18. Sono d’accordo con Garufi su Linnio – che rimane un mio mito – al dunque
    sarebbe stato sufficiente non calcare la mano con gli stereotipi.

  19. Mi hai fatto pensare al celeberrimo “medium è il messaggio” di Marshall McLuhan. Si assiste alla rappresentazione non più come contenente/contenuto, quanto piuttosto perché quel che conta è l’emittente. Il plot, la fedeltà ad un’origine (stravolta in questo caso) è un accessorio.

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