Da: Hairesis – (2004-2005)

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di Francesco Marotta 

MANIBUS DATE LILIA PLENIS

*

::

È un maestro che parla alle ombre – Virgilio
i suoi gigli sono colpi di luce
nel buio della specie dentata  
nei suoi fragili
specchi di umori
di assenza

 

fuori è inverno
ma da tempo il sole di Giada non splende  
da tempo va covando furtiva
florescenze di rovo
la spina che annuncia a distesa
cammini deserti – sbarrati 

non segue più il canto
che dal coro sommerso dei secoli
fino a ieri muoveva i suoi occhi
a cercare l’incontro
inventare orizzonti
ritagliare altri accenti alla voce

::

Oggi guardo il suo amaro silenzio
frantumarle alla gola il respiro  
imbrattare
di suoni taglienti
il mondo bambino che cancella
con furia dagli anni

stretta a guscio nel vuoto
opprimente
di un sogno svanito  
insegue la traccia di polvere
di una passione caduta ai suoi piedi  

un orgoglio deforme la svela
la consegna ignara al destino
– messaggera di morte
con in mano una pagina
strappata di netto 
dal breviario fraterno del cuore

::

Ecco –
gonfia d’odio la voce
e la sparge feroce nell’aria  
non si accorge che lascia per terra
un seme che lievita sangue
tra risate di scherno  

è niente – lei pensa
è solo un vento che passa
si trascina l’insegna
di un altro dolore
poi la lascia svanire e domani
si tace

Filippo
è un ricchione  
è scritto sul foglio che inalbera
come un trofeo
Filippo ti ama – mi grida  
e urla i suoi versi
che spalancano abissi  
nelle pupille dell’amico perso 
per sempre

ma un verso stavolta
è tutta quanta una vita
e lui ha già impresi sul volto
i segni di quando la morte
vedrà galleggiare
come spuma di mosto
sprofondare libri e speranze
i suoi anni annegare in un bicchiere
di neve  

::

Filippo ora è solo  
si è già arreso –
gli fa schifo Virgilio  
rinnega anche il cielo stellato
la legge morale
e quel dio da lampioni arenati
senza luce – che angoscia  
che risponde con folate di sale
alla domanda che gli ferisce le labbra
lui parla al brillìo della tela
di un ragno  
al suo corpo segnato
dai lacci di una solitudine
immensa – che imprigiona il respiro  

sta stringendo i capelli in un nodo
ora abbassa le palpebre
sotto un peso di piume
che stritola
prima di affidarsi all’aria
stretto in uno con ogni paura
con ogni segreto tormento 

::

Fermati per dio  
ferma la tua corsa – Filippo  
datur ora tueri,
nate, tua et notas audire et reddere
voces?
  

io ti avrei amato davvero – figlio
se era questo
che chiedevi alla vita
perché fosse ancora la tua vita

ti avrei amato come oggi ti amo  
come il più caro
dei miei ricordi feriti

ti avrei gridato non farlo – ti imploro  
sarò qui ogni volta che chiami
a donarti parole  
a inventarmi per te una carezza
la voce stupita
che cerchi  
                  
(No –  
tu hai già figli a cui tendi le mani
e una voce per ricamare mattini
prati rivestiti di luce
nei quali sciamano sicuri
al riparo dei tuoi occhi –
tu sei padre
io vengo solo a mostrarti
miserabili ali
intrecciate di ombre di versi di lampi
confusi
di segni illeggibili
che non so decifrare

guardami ora 
è questo che chiedo –
reggimi appena lo sguardo
come non ha mai fatto mia madre
e qualche volta
sognami –
lasciami l’illusione di un pensiero
che vegli come un lume i miei passi
dietro i vetri annottati
dell’ultimo sonno

io sarò là ad attenderti  
sarò acqua
che scivola a fatica sulla pelle
e goccia dopo goccia
trasforma il vuoto
in miraggi di sorgente
per le labbra assetate
delle stagioni che non fioriranno  

sarò il soffio
vivente 
l’eco che si attarda
sul confine della sera          
per accendere colori di fiamma
a ogni tramonto

– perché è là che io volo  
oltre le spine e l’oltraggio
di un mondo che odia chi ama  

proprio oggi gli offro altro sangue

il mio schianto)


::

Dietro grate che mai più si apriranno
sull’alba
ora Giada dimora
la penombra di un velo dipinto
una preghiera di rose
mai colte  

trascina radici nei sandali  

la sua mano
ha la forma di un  foglio
riflesso nell’onda di mari d’inchiostro 
la sua voce è un sussurro 
un alfabeto
di croci
tracciate su un panno
con forbici
e
resina

mostra il dorso – 
piaghe infette ereditate dal padre
dai padri confusi
e lascivi
di un dire che non sa più ascoltare
guardare amare
capire

mi offre
la sua nudità di giardino inviolato
nel palmo tutto il peso
di un cielo caduto a frantumi
– parole
che ieri germogliavano giorni
all’insaputa degli occhi
– tremori
che mancano ai giorni
per essere giorni…
 
 
non ho mai visto recidere un fiore
senza immaginare una lacrima
affiorata sul labbro delle zolle

ho sulla pelle mille tagli di falce
gli echi di un alfabeto sconvolto

la mia età
è il ricordo di rose divelte

::
(Sul bordo ingiallito del foglio
c’è una data –
proprio ieri Filippo compiva trent’anni

ho portato i miei fiori
davanti alla pietra che aprì le sue braccia
per accoglierne il volo  

petali di mille colori
a immagine delle gocce raccolte
nell’ultimo sogno

anche il manto che Giada vi stese
cresce al tempo stelo su stelo
nodo su nodo
croce su
croce
                           
ora copre anche il marmo

– è l’erba che tesse
nei silenzi di un chiostro
per varcare a piedi nudi il suo guado

il cammino di un’indicibile

incolmabile

attesa)

::
 

Sic memorans largo fletu simul ora rigabat.

 

TESTIMONI SILENZIOSI

*
Conosco dimore
dove vivono genti del sud
uomini antichi
solcati da penombre di silenzio.

Li ho visti entrare
in ogni pianto.
Presenti al dolore di ogni sera.
Le voci che bussano alle porte
di labirinti ciechi
nelle mani fiaccole di vento
e l’anima sui gradini
in attesa dei passi
di ogni assente.

Dialoghi di vite periferiche
sopravvissute
voci di naufragio
intanto che rotola tra illusorie risa
questa stagione di sonno
 

arida distesa di sterpi
dove spighe d’incendio sono il frutto
maturo dei giorni e la terra
è un sigillo di ostinato silenzio
nel vento che ripete
inascoltato
l’ultima sillaba d’acqua alle sue sabbie
 

Dove le case abbracciavano
l’infanzia degli alberi
e le mani
riarse
cingevano di sudore
la zolla dove nasce il temporale –
 

dove la pietra sorgiva ai margini di un fosso
era febbre di raccolto
e una rosa popolata d’alba
guardava crescere la città degli uomini
 

pochi vecchi testimoniano ora
memorie frantumate
gettate in pasto a una morte anonima
 

– lente figure insonni
che vegliano abissi e voli
fuori dalla notte delle parole
custodi di un grido
che passa inosservato
nelle strade dove non hanno nome
dove le sillabe che si univano
per dare voce al mondo
diventano cenere
arabeschi di sogni
dilaniati dal morso di bestie affamate
 

Io li ho visti vivere e lottare
coltivare semi di speranza
tra solchi malati di abbandono
riconoscersi simili alle foglie
nel dolore degli autunni
abitare dimore senza muri
aperte al passo stanco dei viandanti
asili dove approdano le sere
per sciogliere a lume di canto
gli alfabeti di neve
raccolti nel cammino –
 

li ho visti là
sull’arco d’amore del mio sguardo
strappare alle derive del tempo
brandelli di esistenze e di volti
reliquie da custodire come doni
nel calice inviolato
di fraterne labbra

 

Ho visto i loro occhi
accamparsi vigili e sicuri
nella quiete segreta di un astro
dove il seno pudico delle madri
allattava i ricordi e il domani
coi suoni partoriti dentro l’ombra
 

intorno al collo
portavano fieri il fazzoletto nero
che li consacra per sempre
compagni di ogni pena
gli orli fasciati di rosso
per costruire legami
nel colore che annulla le distanze
 

Li ho sentiti
parlare all’orecchio del cielo
di storie raccattate per strada
al ritorno da guerre mai vinte
 

urlare accenti di rifiuto
contro i passi festanti
sulle macerie dimenticate di ieri
sul sangue versato
dove mai si raccoglie un pensiero –
 

conservavano immagini dolenti
di case diroccate alle spalle
l’esilio e la fame
nei deserti di paesi lontani
la luce del ritorno
scolpita sulla pelle
nei segni dell’unico orizzonte
dove non ha tramonto
 

Oggi sono vele
che lentamente scivolano
nel colore innaturale delle acque
verso l’approdo di soli sconosciuti
 

sono fuochi di pupille
visibili
a chi si china con labbra devastate
a chi ferito dentro l’onda cerca
il cristallo che spegne la sua sete
i giorni taciuti alla sua vita –
 

sono volti impressi
sullo specchio nascosto della luna
mani che scavano sentieri di memoria
traversando il lampo
delle stagioni negate alla terra


Parlo di mani in forma di sorgenti
levate a frugare tra i sassi
per scacciare notte e arsura

 

mani da lungo tempo spente
lungo le rovine degli anni
ma vive nel cuore
come lingue che ancora gridano
al morso aspro della spina
 

lingue di fiumi senza rive
che fioriscono nell’aria
alfabeti evasi dalla morte
tracce indelebili
di trascorse acque
sillabe gravide di linfa
da stringere nel pugno
per sentirsi almeno un giorno
più forti dell’oblio
 

Parlo di voi testimoni silenziosi
mentre nel cielo trascorre
da lontananze di rimpianto
la preghiera di corpi che si levano
al chiarore del mattino
steli che nella luce allevano
nuove radici
per camminare eretti

 

Ha il vostro profilo
l’ora che lacrima parole
fedeli al passo
del vento e delle messi
accimate in presagi di futuro –
 

mormora ancora i vostri nomi
il canto della spiga
che matura il pane
nel respiro visibile dei campi
 

la fonte
sulle cui labbra la terra declina
e si concede all’abbraccio della sera
alla purezza di quarzo delle stelle
 

È quanto di voi rimane
ogni ombra dagli occhi recisi
che dal suo grembo colmo di voci
va seminando albe
nelle città del vuoto

 
 

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17 Commenti

  1. Quando la poesia arriva a toccare ogni possibile spazio
    quando entra, come un corso d’acqua in piena
    occupa tutto, m’immergo
    in te il mio pianto
    in te la nascita
    ogni verso
    battito pieno
    cuore.
    Grazie
    Francesco.

  2. …eeeeeeeeeeee…e ho guardato dentro un’ emozione e ci ho visto dentro tanto amore che ho capito perchè non si comanda al cuoreee e….e vabene così senza parole…eeeeeeeeeeeee…senza paroleeeeeeeeeeeeeee…eeeeeeeeeeeeeeeeeeeee…
    tattaira tattaira tattaira tatttaitraaaaaaaaa eeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
    senza parole
    baci baci baci
    la fu

  3. Certo, il titolo non aiuta, ha sapore di vaga scolasticità, nell’impatto col testo.
    “MANIBUS DATE LILIA PLENIS” ha una maggior tenuta, legata a fuochi vivi, rispetto a “TESTIMONI SILENZIOSI”, dove si riscontra una diluizione linfatica.
    Quello che però meno mi concorda consiste in un movimento nostalgico, che zavorra le intenzioni, o forse le intenzioni stanno in questo flusso dolorante, di testimonianza non vissuta, ma ritradotta.
    Elevato, cmq, il gradiente barico.
    Buona poesia,
    g

  4. Beato te che ci capisci, Carotenoide !
    (Mica parente del dott. Carotenuto di chiara fama, eh ?)

  5. Fuoco il sentire
    la lingua che diviene
    purezza di forme
    gioco nel buio
    parola
    Tua
    respiro che
    brucia nel segno.

  6. è forte il sentire…..
    di fronte a questi versi
    ogni barriera crolla!

    grazie a Franz…
    senza la poesia
    come vivere?

  7. Una volta per tutte. Il testo é una vigna nella quale passa la luce che fa crescere l’uva. Come si fa a tastare il senso su uno schermo in cui non passa la luce? Come si fa a prendere tempo in un luogo in cui si é sempre in ritardo su quello che viene dopo nello spazio? Come si fa a non distrarsi nella lettura su Internet? Perché scrivete poesie su questo supporto?
    I rinvii bibliografici sono a La vigna del testo, di non so piu chi.

  8. grazie al dottor marotta per questi bellissimi versi. un saluto al dottor g. carotenoide.

  9. Grazie a tutti per la lettura.

    A Carla e Valeria, soprattutto per la profondità di sguardo tra le pieghe dei versi. Mi piace pensare che, anche per un attimo, abbiate colto la sostanza, tutta al femminile, sulla quale l’intero componimento è costruito. Dalle vostre parole, sento che è così.

    A Carotenoide, un grazie particolare anche per il significativo rilievo critico.

    Un saluto riconoscente.

    fm

  10. Tra i tuoi versi, Francesco, ho cercato le parole, non le ho trovate…
    ma il silenzio sì, ed il pensiero è riuscito per un attimo a incontrare l’emozione. Ed è stato schianto.
    Ho avuto la muta risposta alla domanda:cos’è la memoria? Ma nessuna pena di raccontarla.
    Nel viaggio del mio stesso sentire, mi sei venuto incontro, dandomi una meta, non una deriva.
    E ora che ho bisogno di riparare gli argini, di perimetrare il dolore dentro le parole perchè il senso non vada smarrito, ho la mia cura.
    Leggerti sarà la mia guarigione. Per non dimenticare.

    Grazie.

  11. Mira, potrà sembrare anche retorico a qualcuno, ma le tue parole mi hanno commosso: mi porto addosso la percezione nettissima di un tuo attraversamento dei testi fin nelle più recondite prodondità, di una loro “riscrittura” che non fa che aggiungere esistenza e sguardo alla possibilità stessa dei versi a “essere”. Ti ringrazio veramente di cuore. Anch’io, nel mio “bisogno” quotidiano di “riparare argini”, userò queste tue parole come sponda e farmaco.

    Il mese prossimo, grazie alla bontà e al lavoro impagabile di Biagio Cepollaro, “Hairesis” sarà integralmente disponibile in rete sul suo sito. E’ un piacere anche il solo pensare che una copia dell’opera finisca nelle tue mani.

    Un abbraccio.

    Grazie, Carla. La migliore giornata anche a te.

    Un saluto a tutti.

    fm

  12. Il mio dirti, ancora una volta Grazie, non servirà a correggere l’assenza di sponde, ma è un gesto che spero si depositi a lungo nelle fibre del tuo pensiero. E del cuore.
    Un “eccomi decisivo”, caro Francesco.
    Io ho ubbidito alla tua voce, prodigio di un impulso a raccontare il silenzio, pronunciando parole scelte una per una. Uscite per neccesità dalla trama di un sentire maturo che si fa ansia di protezione.

    Lasciati salire un sorriso. Un sorriso di scampo dalle parole serie.
    Eccomi.
    Ti abbraccio

    Mira

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