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Porca miseria!

porcamise.gif di Andrea Bajani

Chi non ha il senso dell’orientamento non riesce e mettere insieme le cose. Tende a ragionare per piccoli frammenti topografici, costruendosi delle geografie ridotte, dei piccoli spazi di manovra. È sempre alla mercé di qualcuno che, custode della visione d’insieme, si prenda carico del suo disorientamento e lo traghetti altrove, in un’altra sezione topografica. Chi possiede la visione d’insieme è in una posizione di potere, nei confronti del disorientato. Mantenere il disorientato nel suo disorientamento è garanzia di predominio, di egemonia. Non a caso, il sequestratore benda il suo ostaggio per tutto il tragitto dalla zona del sequestro fino al covo in cui verrà tenuto in prigionia. Dopo di che, gli libera lo sguardo, e gli concede di costruirsi una propria ridottissima geografia, che sarà comunque troppo parziale perché l’ostaggio possa dedurne una collocazione, perché possa dire a chicchessia “Io sono qui”, e dunque essere salvato. Così, costruire micromappe del contemporaneo, suddividere il mondo in capitoli, per pagine, separare l’attualità dall’economia, la cultura dalla cronaca e dallo sport, riduce l’autonomia delle persone a poche manciate di metri, con una corda lunga quel tanto che serve a dare l’impressione di potersi muovere.

Così capita che si è grati a chi tenta di costruire delle mappe complessive, con gli scampoli topografici che si ritrova tra le mani. È il caso del documentario “Porca miseria”, firmato dal regista torinese Armando Ceste e pubblicato in questi giorni dalle edizioni Ega. La mappa delle miseria diventa un cortocircuito di discorsi tenuti troppo spesso separati, costruito forzando la suddivisione per pagine. Così le riprese macchina a spalla nei dormitori pubblici di Torino, fanno da controcanto all’incursione situazionista fatta insieme ai devoti di San Precario nei locali del call center dell’892424, ai cantieri faraonici delle Olimpiadi di Torino 2006, ai cancelli della Fiat coi cassintegrati in corteo, al teatro Regio di Torino con le coriste in sciopero ai tempi dei tagli del Fondo Unico per lo Spettacolo. Così i senza tetto scomparsi dai marciapiedi del centro della capitale sabauda durante i Giochi olimpici sono l’altra faccia del trionfalistico sventolare la bandiera a cinque cerchi da parte del sindaco di Torino. Allo stesso modo la carnevalata provocatoria del “minestrone precario” non è che un altro modo per dire quel che dice un operaio di fronte alla macchina da presa: “Facciamo come l’Argentina, andiamo a occupare i grandi magazzini”. E i 500 euro al mese di Rodolfo, l’ex dipendente Fiat in cassa integrazione dal 2000 (“In sei anni avrò lavorato quattro o cinque mesi”), stanno insieme ai 500 euro degli operatori del call center delle Pagine Gialle, e ai 500 euro di pensione dell’anziano signore pizzicato a rubare mandarini al supermercato e poi umiliato dalla sorveglianza.

Con la macchina in spalla Armando Ceste monta una disarmante, lapalissiana messa in scena della contraddizione. Forza dall’interno, con il montaggio, i meccanismi della comunicazione, che vorrebbero nuclei di senso coerenti in se stessi, persuasivi ed evidenti. Mette le une accanto alle altre le evidenze, ma è proprio in quel faccia a faccia, che le evidenze tradiscono le gambe corte che le sorreggono. “Il futuro si realizza”, urla lo slogan olimpico che Ceste cattura in una ripresa silenziosa in alta montagna, in cui si percepisce solo il rumore del vento e quella rivendicazione quasi ottusa a guardare soltanto avanti. È proprio in quella coazione a declinare tutto al futuro, che sta acquattato il germe della contraddizione. Come se realizzare il futuro equivalesse a “salvare le modifiche”, come chiede ossessivamente il computer prima di archiviare un discorso in memoria, eliminando con un clic ogni presenza del passato, cancellando i muri vecchi con lo stucco e la vernice. Come se il futuro non potesse realizzarsi se non dopo avere messo il passato nel cestino, e averlo poi dimenticato. Perché a guardare tutti avanti, a correre pavlovianamente incontro alla campanella del futuro, si finisce per non accorgersi degli altri che corrono di fianco.

Di qui la sensazione di solitudine che Ceste documenta drammaticamente, l’evidente perdita del “noi”, del senso della collettività: ciascuno a gestire il proprio allarme personale, ciascuno a disinnescare l’ordigno che si è trovato tra le mani. È il montaggio delle parti, che dà il senso della contraddizione, la giustapposizione delle manifestazioni dei metalmeccanici, quella dei lavoratori delle nuove generazioni, e quella dei lavoratori dello spettacolo. Messe insieme, disegnate su un unico foglio fanno una grande mappa, che è la mappa di quella che Ceste chiama miseria, ma che altro non è che un’unica dilagante precarietà, un senso di insicurezza che travalica le generazioni. Che ha bisogno dell’imperativo euforico del futuro, per essere tollerata, e ha bisogno dell’oblio del passato, dell’istigazione a una solitudine all’ultimo sangue, per poter essere impartita. “Porca miseria” è allora un antidoto alla tendenza virale alla parcellizzazione dei discorsi, a isolare le parti dal tutto. Perché poi a metterle insieme, quelle parti, vien fuori un tutto diverso, molto meno rassicurante. Vien fuori quell’ “incubo della retrocessione” di cui parla Erri De Luca in un’intervista contenuta nel documentario, che si sta diffondendo come un virus a tutti gli strati della società, a dispetto della retorica ipocrita del “va tutto bene”. E a vederlo, “Porca miseria”, viene in mente il “Furore” di Steinbeck, sullo sfondo di una società che ha promesso di realizzare l’irrealizzabile, di dar corpo ai sogni. Vengono in mente quella paura, quell’incertezza, quelle facce in fuga: gli scarti del nuovo ordine mondiale.

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6 Commenti

  1. Uno di quei film che… non vedrò mai, poco ma sicuro.

    Dalla quarta di copertina – che è poi più bella e completa e chiara della recensione qui postata, a dimostrazione del fatto che… ognuno tragga da sé le sue conclusioni.

    In contrasto con il look scintillante della città olimpica,Torino si scopre più povera della media nazionale, con il 12% di popolazione disagiata. La povertà tocca oltre centomila torinesi, quarantamila nuclei familiari nell’area metropolitana. Gli immigrati extracomunitari, più giovani e con meno pretese sono fuori da questo quadro. Questi dati sono stati elaborati dai 70 centri d’ascolto della Caritas diocesana e presentati pubblicamente in un dossier-choc nella primavera del 2004 suscitando molta attenzione e polemiche. I dati torinesi sono particolarmente neri. La povertà estrema è stimata nel 5%, contro il 4% nazionale. Poi c’è la cosiddetta povertà grigia, i nuovi poveri, i decaduti, categoria stimata nel 30%, contro il 20-25% nazionale. Ma chi sono i nuovi poveri? Qual’è la soglia che definiamo di povertà? Sono domande a cui è difficile dare una risposta precisa. La cosa sicura però è che questi nuovi soggetti provenienti da classi, ambienti sociali finora non a rischio sono andati ad ingrossare le file di quei poveri che da sempre sono considerati gli ultimi, gli scarti che vivono ai margini di questa società. Queste persone si discostano dall’immagine dei senza fissa dimora, del barbone anziano e misantropo che popola l’immaginario comune. L’età media si è notevolmente abbassata. Le cause principali del precipitare nella povertà sono la perdita o la riduzione del lavoro, le spese per la salute, per la formazione dei figli, i mutui o l’aumento degli affitti per la casa. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Eurostat il 19% della popolazione italiana (circa 11 milioni di persone) é a rischio di povertà.
    In questo film documentario si raccontano storie di persone diverse in luoghi e contesti diversi, ma che hanno un filo rosso, un denominatore comune che li unisce, il lavoro. Non solo come risorsa economica per avere garantiti i diritti fondamentali ad una esistenza cosiddetta normale, ma anche come forma di riscatto sociale, di dignità umana. Storie come quella di Rodolfo il cassaintegrato che un lavoro l’aveva ma da alcuni anni l’ha perso e non riesce trovarne un altro perché a cinquant’anni è considerato troppo vecchio. Ma lui resiste, non si arrende. E poi ci sono i giovani alla ricerca di un primo lavoro, ma che trovano solo precarietà, sfruttamento e assenza totale dei fondamentali diritti. E allora non rimane altro che ricorrere alle preghiere a San Precario perché faccia qualche miracolo. Poi c’è il pensionato che dopo aver lavorato tutta una vita per garantirsi una vecchiaia serena adesso non ce la fà più ad arrivare a fine mese. Ma siccome non gli sembra giusto di dover rinunciare sempre a tutto, sperimenta per la prima volta, in un supermercato, una rischiosa forma di spesa creativa. E poi c’è chi la fame la sta facendo come scelta politica. Come alcune coriste del Teatro Regio di Torino che oltre cantare (non a caso il Requiem di Mozart) fanno anche lo sciopero della fame per protestare contro i tagli finanziari alla cultura e per la difesa del posto di lavoro. Infine Ivano (e i tanti come lui) il barbone, il senza fissa dimora che, dopo aver lavorato per molti anni in fabbrica, vive come scelta, rifiutando ogni forma di lavoro, per strada chiedendo l’elemosina e che tutte le notti cerca un luogo riparato per andare a dormire, sognando magari Asia Argento. Come in una sorta di siparietto, ognuno di questi episodi verrà introdotto dai musicisti multietnici dell’Orchestra di Porta Palazzo. Narratori e compagni di questo viaggio nella “porca miseria” sono lo scrittore Erri De Luca, il direttore della Caritas diocesana Pier Luigi Dovis, Egi Volterrani, e inoltre rappresentanti di associazioni del volontariato, sindacalisti, operatori dei servizi sociali, che si sono fatti carico delle sofferenze e delle fatiche del vivere quotidiano di queste persone in difficoltà.

  2. …siamo noi senzaaaaa diritti, ce li han rubati tutti, dai lavora e via andare ma io mi voglo fermare e gridare gridare gridareeeeeeeeeeeeeee
    lotta lottaaaa compagno
    vedrai ce la faremo
    lotta lotta compagno
    vedrai ce la faremo…

    perchè non lo vedrai mai?
    io rimango dell’opinione che andrea abbia postato una bellisisma recensione più meio della seconda.
    baci
    la fu

  3. Io pure cercherò di non vederlo e per il semplice motivo che ‘ste cose mi fanno salire il sangue al cervello, mi fanno salire una rabbia che spacca lo stomaco, mi fanno pensare che l’unica cosa che mi rimane è prendere il mitra e vendere cara la pelle. Ma non ha ragione il Sanguineti quando dice che con ‘sta storia che l’odio di classe è cosa brutta e oscena ci hanno fregato alla grande?
    Un signor nessuno sconfitto senza aver mai veramente combattuto…

  4. Proprio vero, è tutta un’illusione; ti illudi di poter influire nelle decisioni ma non è così. Non c’è più nessuna democrazia da salvare.

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