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I luoghi oscuri

foto di Mauro Baldratidi Mauro Baldrati

La parola d’ordine di noi fotografi milanesi, o forse l’ossessione, in quegli anni dove tutto sembrava possibile, e ogni opportunità concessa, era: la ricerca della bellezza a tutti i costi.

Eravamo spinti, trascinati da questo desiderio di dare forma e immagine alla bellezza umana, femminile e maschile; era una ricerca fine a se stessa, nulla più di un desiderio istintivo, forse rozzo, certamente non consapevole che faceva di noi dei navigatori un po’ sperduti, alla deriva, in cerca di fiducia, di lavoro, di avventure.
Io e il mio amico Giovanni, ognuno coi propri fantasmi ancestrali di figure idealizzate e di stili fissati a fuoco nell’immaginario, esploravamo senza sosta i territori di transito della bellezza, spinti in avanti da una combustione che non si placava mai.
Cosa cercavamo? E cos’è la bellezza? E’ legata ai tempi, alle mode, alle ideologie, al mercato? E’ un concetto individuale? Dipende dai gusti, dalla propria formazione? E’ “sporcata” dalle sovrastrutture e dalle contraddizioni personali? Vi può essere il caos nella bellezza? E una mediazione? Può esistere una bellezza “contro”? E una dominante? Vi è differenza tra bellezza e fascino?
Fatto sta che in quei tempi frenetici vi era un mondo sotterraneo fittamente popolato da dilettanti e professionisti di varie nazionalità (americani, inglesi, tedeschi, spagnoli, francesi) in caccia e in sinergia.
foto di Mauro Baldrati Perché sinergia? Perché la fotografia commerciale, non essendo una espressione di pura arte creativa individuale, ma una forma di artigianato che deve mediare con gli oggetti e i personaggi [o i paesaggi, gli animali (e ciò è vero anche nella moderna tecnologia digitale)], ha bisogno di collaborazioni e di scambio.
Così noi fotografi, per tentare di rendere reali i nostri fantasmi, e di soddisfare il nostro voyeurismo, avevamo bisogno dei soggetti, le modelle e i modelli; loro avevano bisogno di noi, perché la ricerca era sulla persona, la bellezza di se stessi e in se stessi, come soggetti di body art; e tutti avevamo bisogno di una terza figura, che curasse i dettagli: il truccatore, o la truccatrice, che aveva bisogno di noi per attivare la sua mediazione della mediazione; dovevano essere, per tutti, servizi fotografici veri e propri, per dimostrare che se un committente ci avesse affidato un lavoro noi saremmo stati in grado di portarlo a termine, e le foto erano le prove.

foto di Mauro Baldrati

Poi c’era il problema del luogo, o scenario, o location. A me non piaceva lo sfondo neutro dello studio, preferivo scattare in città, cercavo fabbriche dismesse, luoghi con chiaroscuri forti, con ampie scale di grigi, perché quasi sempre si sceglieva il bianco e nero, particolarmente adatto per la ricerca e la sperimentazione. Forse cercavo i miei luoghi oscuri, il Buio, per trasfigurare quella corsa affannosa nell’effimero e nel superfluo, lo sfondo per illuminare il fantasma. Le immagini non andavano inquadrate, il rapporto tra gli spazi era fortemente sbilanciato verso la figura umana: entravano solo dettagli, il particolare di un muro, un’ombra, un colpo di luce.
Le ragazze arrivavano col loro carico di ansie, speranze, frustrazioni. “I want to be a model” era la frase che sentivo spesso. C’era una smania di arrivare, di sfondare, e l’invidia verso colleghe meno dotate, più “brutte”, che invece erano state scelte per i servizi importanti. C’era l’accusa verso il sistema dei giornali, dove imperavano il clientelismo e il conformismo. Questo atteggiamento era anche nostro, ci sentivamo discriminati, seguivamo con rabbia il tale fotografo, che non valeva nulla, che lavorava come un pazzo perché conosceva la tale caporedattrice (o caporedattore), e magari se la/lo portava pure a letto. Tutti ci sentivamo dei grandi e degli incompresi nel sistema dei favori e dell’ingiustizia. E le rare volte in cui avevamo la fortuna di incontrare un interlocutore che si prendeva la briga di evidenziare dei buchi o delle banalità nel nostro lavoro – caso raro, perché pochi si assumono la fatica di criticare, col criticato che si inalbera, contesta; è più semplice cavarsela con un “mi dia il suo recapito, eventualmente la contatteremo” – lo ascoltavamo con una sorta di compatimento, perché non capiva nulla. A nessuno veniva mai in mente di mettersi in gioco, di considerare con razionalità e umiltà i propri pregi ma anche i propri limiti. Era sempre colpa degli altri, del sistema conformista e distratto.

foto di Mauro BaldratiE finalmente veniva il momento delle riprese. Io ero un fotografo poco invadente. Anzi, per nulla. Mi posizionavo la fotocamera davanti alla faccia e mi svuotavo da ogni idea, ogni volontà. Avevo unicamente l’immagine indistinta del fantasma che offuscava tutto, e mi mandava in una sorta di stato catatonico. Tutto era affidato a lei, la modella. Credo che, con una ragazza di scarse qualità espressive, non avrei realizzato immagini interessanti. Non sarei riuscito a guidarla. Lei sola era chiamata ad esprimersi, io mi limitavo a curare la grafica, sposta il braccio, sorridi, piega una gamba.
Era il fantasma a guidarmi, o meglio, a bloccarmi; ma era il fantasma della donna idealizzata che comunicava con la donna reale, e la spingeva verso di me.

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12 Commenti

  1. Però, con questo sistema, si cade nell’alienazione ‘artistica’ o presunta tale, che risulta dannosa per un fotografo chiamato a ritrarre la realtà esterna (la bellezza è fuori, nella modella, inutile cercare un’amima nello ‘sguardo’, nei ‘modi’) e non invece il proprio mondo interiore, falsificante.

  2. posto commenti inutili per colmare vuoti angosciosi di primavera. Ho letto questo post con curiosità, forse mi sfugge qualcosa perchè mi sembra monco. vale tibi

  3. Mario, in effetti la tua impressione coglie in parte nel segno, perché di questo abbiamo discusso Mauro ed io, prima di decidere di pubblicare.

  4. a parte le foto, che sono notevoli (e i soggetti!)= mi ha colpito questo passo:

    A nessuno veniva mai in mente di mettersi in gioco, di considerare con razionalità e umiltà i propri pregi ma anche i propri limiti.

    è vero, a nessuno viene mai in mente. questo discorso secondo me vale per varie situazioni della vita, per esempio gli scrittori rifiutati dagli editori. è sempre colpa loro. se lo dico è perchè sono coinvolto. saranno otto mesi che ho inviato un mio dattiloscritto a 4 editori e nessuno si è ancora degnato di rispondermi, a parte uno che mi ha spedito una letterina di due righe. ora, dentro di me penso che il mio libro è buono, che dico un sacco di cose interessanti, e sono loro i bastardi. ma sarà poi davvero così? insomma, la morale di questa parabola è: guardiamo di più in noi stessi, che non siamo tutti dei santi e degli eroi.

  5. ma a lei piace scrivere, no? Allora non ponga come limiti suoi i giudizi altrui non diretti, ma veda se le riesce di confrontarsi, fosse anche via web. Vede, a me scrivere piace così tanto che in queste giornate d’angoscia endogena finisco per scassare le balle a tutti, per esempio Raimo di due post più su. Me ne vergogno, sa? Che crede. Ma oggi sono in ambasce ed il fine giustifica i mezzi. Più off-topic di questo c’ è solo smadonnare.

  6. Belle foto, Mauro!
    Quanto a ciò che hai scritto, direi che hai colpito nel segno sopratutto su una cosa: quella era la Milano da bere, la Milano craxiana dove circolava più coca che Coca (-cola)…; dove molte e molti (troppe e troppi) wanted to be a model, o designer, dove tutto pareva possibile -purché fosse nel segno dell’edonismo. Ne ho conosciuti e conosciute parecchi/e. Modaioli/e, invidiose/i, sempre in cerca delle prime file nei codazzi dei papi di turno; sempre in cerca, nelle discoteche che sorgevano la sera per sparire a mai più il giorno dopo, di qualcuno che potesse offrire un kick (“Hey man, what’s your style?”). A ripensarci ora, era davvero un’aria stanca, non-finita quella che regnava. E mi va bene tu non abbia cercato di scrivere dei “perchè” o di affrontare analisi finto-sociologiche o ancora di fare del didascalismo: anche il tuo scritto è un’istantanea, affiorato da un flash nella camera obscura dei fantasmi e meno un ricordo che un nodo di sensazioni -mai chiarite forse (ma lo si deve poi fare sempre?).

  7. Piccolo backstage: inviai una prima versione di questo racconto a Jan, che di venerdì mi scrisse: secondo me è tronco. Pensaci, questo fine settimana. Ora, per tronco (o monco) di solito si intende che l’attacco, o il finale, o entrambi, non permettono un’entrata e/o un’uscita agevole da un testo. Io ci ho pensato un po’ più a lungo di un fine settimana, considerando il mio metabolismo da lumaca, poi ho inserito alcune espansioni lievi sull’attacco e sul finale, e un’espansione più importante verso i ¾, o ancora più in là, diciamo i 4/5, o i 5/6, propedeutica al finale vero e proprio. Ci ho pensato su ancora qualche giorno e ho spedito la versione corretta. A me così piace, perché lo voglio all’insegna della velocità, come erano veloci e frenetici gli anni e gli eventi di cui parlo; poi ho sempre avuto una passione per i testi entra in una stanza, guarda, fotografa, registra, come certi racconti di Carver, e poi esci come sei entrato, veloce, senza fare anticamera.
    Questo è quanto, però poi viene fuori Mario che dice come Jan, e allora anche se mi piace così ci penserò su di nuovo, perché come ha scritto merovingio non siamo tutti dei santi e degli eroi, non siamo sempre dei perfettini, ma talvolta ci impuntiamo su una qualità mentre ci sono delle crepe, delle zone poco nitide, perché diamo retta ai nostri fantasmi interiori, alle nostre immagini idealizzate che prendono il sopravvento su quelle reali, invece di stare in equilibrio.

    Per Christian Frascella: la tua osservazione può essere valida per l’artista, ma ho scritto che il fotografo commerciale non è tale, è un artigiano che deve fare i conti con le leggi della materia (avrei anche qualcosa da obiettare sull’uso artistico della fotografia in sé, ma è un discorso troppo lungo); in questo caso è proprio l’eccesso di attenzione verso la propria interiorità che scompiglia tutto.

    E poi grazie a tutti.

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