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La verificabile leggerezza del giogo

di Christian Raimo

Paola ha il volo fra tre ore, ha già raccolto tutta la sua roba, ha ritirato il passaporto alla reception e all’improvviso si è spogliata e si è buttata a peso morto sul letto e ha aspettato che anch’io facessi la stessa cosa. In questa stanza d’albergo che sa di colla da carta da parati e deodoranti d’ambiente e una specie di odore accumulato che sono le reliquie olfattive dei clienti che furono, respiriamo per minuti e minuti, stanchi della giornata e dei nostri occhi e di noi, e ognuno non vorrebbe più essere se stesso e neanche l’altro. I nostri corpi, cresciuti in età in cui non avevamo la minima di idea che cosa volesse dire stare al mondo, sono migliori di noi, più esperti, questa è la verità, e quando ce ne accorgiamo, piano, quasi casualmente, ci avviciniamo in un modo che è quello di due neonati handicappati. Non ho soltanto bisogno che lei mi tocchi, mi accarezzi, sfreghi la sua pelle contro la mia, ma avrei bisogno che mi scorticasse, che riuscisse a togliermi di dosso ogni traccia di buone intenzioni, di formalità, di gentilezza, di me.
“Non riesco a non provare risentimento”. Mi alzo sui gomiti per guardarla.
“Risentimento perché vado via?”
“Sì, perché già adesso mi manchi e incamero il nervosismo per poi… per come mi mancherai poi”: volevo dire qualcosa di gentile, ma le parole al contatto dell’aria si ossidano.
“Pensi sempre alle cose come un abbandono. Scusami. Quindici giorni di distanza ti sembrano una condanna”.
“Il fatto che ci sei, che sei qui, per me ha un valore enorme”.
“Scarichi su di me la colpa di questa cosa che non esiste”.
Ha preso il sole sul viso e le spalle, i polpacci, gli avambracci, e il candore esile delle zone coperte dai vestiti è quello di una pellicola in una macchina fotografica aperta per sbaglio. È crudele, talmente impietosa la nostra asimmetria che non faccio in tempo a percepire la consistenza violenta delle sue ossa – è così magra che ogni gesto di avvicinamento è uno scontro tra due solidità cave – che lei mi prende la faccia tra le sue mani e mi guarda a fondo, e a quel punto l’ipotesi che ognuno di noi due fa è che ci sia comprensione, un principio di comprensione, o di stupore almeno, e me la stringo addosso, le apro le gambe come a separare i due lembi di un sipario, e quando sono dentro di lei, sento che nessuno di noi due sa dove sta e perché è arrivato fin qui.

*

Questa notte, in un improbabile freddo, un freddo grossolano e immotivato, l’aeroporto non è un aeroporto. Paola ha appena passato il check-in, ho aspettato che mi salutasse, che mi lanciasse un gesto che poteva essere un bacio mimato o una presa in giro e andasse a imbarcarsi. Il taxi mi aspetta fuori, per accompagnarmi all’albergo dove ci ha preso. Ma prima di tornare al parcheggio, prendo tempo, rimango a indugiare. Un turista a tutti gli effetti, perennemente assonnato e distratto, e ho una temperatura corporea tremolante che mi sale al cervello come se mi fossi scordato di prendere una medicina. Sul tabellone non elettronico i voli, destinazione orario, cambiano con una lentezza che è il contrario dell’automazione, e dai bocchettoni in alto sembra venire fuori lo spurgo dell’aria condizionata diurna. Il tassista non era ansioso né irritabile, io gli ho promesso più soldi del prezzo normale. Basta mezza giornata di ambientamento e viene facilissimo a chiunque comprare gentilezza a buon mercato. Distrattamente come si conviene a un turista, cerco un distributore automatico per una bottiglietta d’acqua, strusciando i piedi sul pavimento screpolato, tutto chiazze di polvere in rilievo. C’è un vecchio davanti a me con una macchia marrone che gli copre metà viso, che fa su e giù per la hall, avanti e indietro, indossa una galabeyya lisa, sfrangiata, di un rosso scuro che sembra arrugginito. Tutti gli esseri umani che sono qui, sotto la luce limone dei neon, hanno una loro zona d’autonomia da fantasmi. Un altro uomo altissimo, che non ha la faccia di un egiziano ma di uno slavo, struscia anche lui i piedi e calcia i pacchetti vuoti di sigarette da un lato all’altro, poi si ferma e li mette vicini, li accoppia. C’è una puzza dolciastra, un odore stantio di detersivi dati male. I distributori sono funzionanti ma vuoti. Il vecchio con la galabeyya rossa gira a vuoto ma pare a suo agio, non va da nessuna parte, non attacca neanche bottone con nessuno, non bofonchia nemmeno. Di polizia, al contrario del resto della città che ne è invasa (“capisci, è una delle poche carriere che garantisce un minimo di sicurezza”), ce n’è poca, e quella poca che c’è ha assunto per osmosi tratti di insonnia, così da confondersi del tutto con le facce sciupate. È pieno di tassisti invece, baffuti, sorridenti, ciccioni, con giacchetti di pelle da motociclista che non ho visto indosso a nessuno durante il giorno: una specie di divisa notturna, che come ogni cosa qui è uno scarto di almeno quarant’anni fa. Un’altra vecchia, i capelli sfibrati come i fili fulminati nelle lampadine, circondata da una decina di buste stragonfie dei suoi oggetti, muove la testa a singhiozzo e ridacchia, si gira verso di me, mi fa cenno di avvicinarmi, e mi chiede ovviamente dei soldi ma lo fa più per automatismo e per noia: perché quando glieli do, venti lire egiziane che sarebbero tre euro (un giorno di stipendio per la maggior parte della gente qui), li intasca senza ringraziare e mi rimette la mano davanti, la fa tremare come si fingesse alcolizzata.

(La tristezza si genera e si trasforma. Il caldo diventa freddo. Il processo fisico dell’evaporazione delle persone.)

Ogni cosa in Egitto sembra provenire dalla pattumiera di un luogo e di un tempo distante – distante, non remoto. Niente revival, retrò: solo vecchio. Le Mazda e le Peugeot smarmittate, senza fari, con uno specchietto penzolante, le Fiat 131 con degli squarci come sfregi di violenza tribale sulle fiancate. Paola tra quattro ore e mezzo sarà a casa a Helsinki. Io ho l’aereo per Roma domani sera. Se avessimo prenotato prima, forse non avremmo avuto questi voli sfasati.
Tornerà in Italia, se non le propongono proroghe, a metà luglio, alla fine della formazione coi supermanager Nokia. Per allora, come lei mi dice, dovrei aver capito, nella mia testa, come immagino il nostro futuro. Quando fa di questi discorsi, a me viene solo da pensare: Perché non ha ancora capito che io sono felice semplicemente a vederla crescere?
Sto rimuovendo il sonno nefasto. E ho la bocca marcia. Da giorni bevo gassato e zuccherato. Ieri mi sono lavato i denti con la fanta. Il mio tassista si starà incazzando e dubiterà che lo stia truffando a non ritornare? Questi altri tassisti, uno dopo l’altro, da bambini, si avvicinano e mi chiedono qualcosa in una lingua che – se anch’io sono d’accordo – potrebbe essere inglese. Dico: No, thank you. Sui fogli all’edicola in esposizione per i turisti sono rimaste notizie vecchie di una settimana. Venerdì Santo hanno ucciso ad Alessandria un cristiano copto. Qualche anno fa un kamikaze si gettò da un ponte, centrando un battello di americani in T-shirt. Terrorismo è una parola che va bene per ogni conversazione con gente che non conosci, tipo surriscaldamento del pianeta. Negli hotel a cinque stelle aprono il bagagliaio dei taxi, e ogni volta rovistano con lo specchio sotto l’auto. Cercano delle bombe come se cercassero l’oro. Sul muro davanti all’ingresso del McDonald’s dell’aeroporto qualcuno ha fatto un disegno di un cuore spastico e disciolto e vicino una scritta, Call me soon.

*

In taxi mi siedo davanti ma butto la testa su una spalla e praticamente sono un pezzo di carne e dormo, mentre la città che vive nei finestrini attraversa la sua fase r.e.m. in cui i clacson eternamente sonanti producono soltanto dei singulti, fanno degli echi da pollo qualche chilometro più in là. Il tassista sta seduto con la schiena dritta, e guarda la strada come se non l’avesse mai percorsa. Va lento, ad uso turistico, oppure è la mia teoria della relatività ristretta che recita: quando sono senza Paola, quando lei è distante, è immaginata, le cose mutano consistenza e procedono tutte viscose. Le strade alla periferia inesauribile della città sono prive di segnaletica e così larghe e lunghe che alle volte non sono neanche strade ma piazze, distese, estuari. Come il Rio delle Amazzoni: largo in certi punti quaranta chilometri: un fiume che è identico al mare. Quando prende una buca, il tassista mi chiede, con una voce timorosa di sbagliare la pronuncia: “All good?”. Il taxi è casa sua, ha il dovere dell’ospitalità. Mi sorride e ha un sorriso latteo sotto baffi folti da islamico che ricordano quelli di un adulto italiano degli anni ’70. “It’s your wife?”, chiede, indicandomi il suo anulare.
“No”.
“It’s your girlfriend?”
“Yes”.
“Good girl”, dice, “beautiful”.
Il suo taxi, casa sua, è arredato con un tappetino celeste e dorato steso sul cruscotto, un grosso posacenere di porcellana senza cicche poggiato sopra. Intorno allo specchietto retrovisore sono appesi delle specie di campanelli di forma poliedrica tutti argentati che di giorno devono riempire la macchina di effetti di luce, riflessi, scomposizioni prismatiche a seconda dell’ora e del tempo, e un arbre magique al mango che trasforma – in mezzo alla debolezza percettiva del sonno – questa macchina in una piccola isola.
“Do you like women?”, dice.
“Yes”, rispondo. “And you?”.
“Yes, I like”.
Passiamo attraverso la Città dei morti, l’ex-cimitero monumentale in cui da almeno vent’anni la gente si è accasata tra le tombe, i cui loculi sventrati, legati dai fili per stendere i panni, e qualcuno illuminato con delle candele tipo citronella, ci passano accanto in serie, trasformandosi l’uno nell’altro, come i filari di viti nei viaggi attraverso le campagne italiane. Il tassista aspetta un chilometro, due, e poi, ancora senza guardarmi, mi chiede: “Do you like men?”
Rispondo: “Not much”. Oscilla la testa. Gli dico: “And you?”.
Ridiventa in un istante un ragazzo: “Eh…”, dice. “Not bad. Men are good. Not all men, but… Some men are good”.
Siamo entrati a Zamalek, si sente l’odore di acqua profonda, passiamo sopra il Nilo tre volte, per i senti vietati ed i ponti costruiti senza senso urbanistico. Ogni tanto, isolato come un avamposto, c’è un grande tabellone luminescente tipo Piccadilly Circus o Times Square. Ma l’amministrazione dell’energia elettrica fa acqua da tutte le parti e alle volte, di punto in bianco, capita un black-out improvviso di pochi minuti e ci si trova finalmente in un eclisse o in un grande museo.
“You are a good man”, mi dice, scandendo una frase che presa così fa l’effetto di un oracolo. C’è una fila di alberi che non saprei chiamare in altro modo che alberi: sono gelsi forse? La mia conoscenza della natura è il contrario di quella degli eschimesi che usano cinquanta parole per dire neve. Io ne uso una sola per dire natura.
“Can I see…”, indica e poi dice, “your dick?”. Guida guardando sempre davanti, ha un profilo sincero, ideologicamente sincero. Come uno come me si rappresenta la sincerità. Assomiglia – nel mio spettro volgare per cui gli arabi come gli alberi appartengono tutti alla stessa famiglia – a Ocalan. Apo Ocalan, per il cui asilo politico andavo a fare le notti con la tenda dieci anni fa, e oggi quando leggo sul giornale che è stato avvelenato alzo le spalle in segno di resa. I combattenti politici più resistenti, le balene più grandi… muoiono tutti. Il tassista è sempre più adolescente, una persona a cui non posso, senza ombra di dubbio, non volere bene. “How is… your dick?”, mi domanda con le mani. “Big?”, mi fa cenno di dire di sì.
Faccio passare qualche secondo prima di rispondere e l’unica maniera in cui mi viene da reagire è la sincerità: “Not much”.
Poi mi dà un pugnetto sulla spalla. Mi tocca in questo modo cameratesco e confidenziale che mi lascia senza reazione. Sono a casa sua. Non una gran casa, ma sono seduto al posto migliore. Mi ha chiesto della mia vita in una lingua che mastica appena. Mi ha chiesto dei miei affetti. Si è svegliato a mezzanotte per accompagnare me e la mia fidanzata all’aeroporto. Si è caricato le valigie. Mi ha aspettato più di mezz’ora in macchina che io la salutassi e che poi me ne stessi a rimuginare senza motivo nella hall dell’aeroporto. E adesso con un gesto che non vedevo da quando ero al liceo, piano, con una calma e una timidezza da ragazzino, senza guardare, mi poggia dolcemente una mano prima sulla gamba e poi si avvicina cercando la mia erezione. E io lo guardo fare. Con la testa chinata al finestrino, mentre ammiro questi esseri della natura che non so chiamare altro che alberi, e mi ricordo all’improvviso, senza alcuna relazione con le cose, quando da ragazzo, da quindicenne mi ero sentito eccitato e felice nel bel mezzo di un laboratorio teatrale a scuola la volta in cui l’insegnante di mimica ci aveva fatto fare un esercizio nel quale ognuno di noi doveva trasformarsi in un albero, prima le radici, poi il tronco, infine i rami.
E dopo questi secondi, spostandogli la mano, gli dico: “No, thank you”.

*

All’ingresso dell’Umm Khaltum mi sorridono come al solito eccessivamente, e un giorno, mi viene da pensare, quest’eccesso dovrà essere risarcito. Pago una bottiglietta d’acqua: l’acqua che non sa di niente, amara, più liquida della normale acqua. La scala mobile interna di notte non funziona. In stanza l’odore di moquette ha impregnato anche le lenzuola. Accendo l’aria condizionata, ho lasciato il computer acceso e lo collego al cavo del telefono, per scaricarmi la posta. Dal finestrone accanto al letto si vede la culla della civiltà, il Nilo. Alle volte penso di non avere altro sostrato emozionale che i ricordi di scuola. Come è fatto quel limo che si diceva fertilizzasse tutto l’Egitto? Il cielo nonostante sia notte ha comunque un che di oleoso. Leggo repubblica.it. A sovrastare le altre notizie c’è una striscia in rosso: un’agenzia della Reuters dice che sono stati rapiti due giornalisti inglesi e una interprete da non ben precisati terroristi nella zona della Turchia a duecento chilometri a nord di Ankara. Non si capisce cosa rivendichino lì. A lato, brilla, in una nuova grafica, il servizio Star Control. Sfilo la categoria Televisione dal primo al trentesimo posto: Fiorello stacca tutti di molto. Pippo Baudo. Simona Ventura. Via via tutti gli altri. Più sotto, tra le varie notizie ce n’è una nella rubrica Divertinews, la foto di un gruppo di ballerine di lap-dance che hanno perso un cane di nome Miki. Mi scarico il video. Parlano un italiano guasto, mezzo slavo, mezzo toscano, una di loro dice: “Sono costernata”. Come ricompensa a chi lo ritrova offrono un anno di ingressi gratuiti al locale in cui lavorano.
Un’altra notizia, in basso a destra, è che un gruppo di giornali americani, i più seri, il Washington Post, il New York Times, il San Francisco Chronicle, ha deciso di non pubblicare più niente che riguardi Paris Hilton. Appena sotto lampeggia un sondaggio di Repubblica che domanda: “Qual è la vip italiana che ha esaurito la nostra attenzione?”. Non partecipo al sondaggio ma guardo i risultati. C’è Valeria Marini con il 19%, Manuela Arcuri con il 13%, Simona Ventura con il 9%. Mi prendo una compressa di Profluss, sfilaccio il lenzuolo e le coperte e a quel punto vorrei che, come mi accadeva da bambino, lo spazio prospettico della mia testa si rimpicciolisse e diventasse tutto meravigliosamente nero.

*

Non c’è il sole. Paola mi chiama. È arrivata a casa. Si è fatta la doccia. È stanca. Non ci diciamo niente a parte buona giornata e a dopo. Credo sempre che qualcosa resti in sospeso, ma cosa? Seppure avessimo più tempo, anche molto più tempo da passare insieme, seppure riuscissimo a comunicarci senza le minime remore e i filtri le cose che ci stanno a cuore, quanto ancora rimarrebbe fuori? Che cos’è che non riesce a uscire mai? Che cos’è che non ci sembra importante, e finiamo col tacerci? I miei pensieri di stamattina. Il fatto che non mi sono lavato i denti per risentimento, per un meccanismo ridicolo di autodistruzione: come volessi morire di carie. Ho una giornata ben precisa in mente che le accenno appena. È stanca, e lontana.
Io ho preso appuntamento per le undici e mezzo con Padre Vladimiro perché mi faccia fare un giro all’interno di Moqqattam, il quartiere abitato dagli zabaleen, i raccoglitori d’immondizia. Ha un progetto lì con i bambini orfani, mi pare di aver capito. Il suo nome l’ho trovato anche questo su internet: c’è una montagna di articoli su Moqqattam in rete, roba degli ultimi cinque, sei anni. L’Espresso, Vanity Fair, il manifesto… sembra che a scadenza annuale qualcuno senta il bisogno di fotografare, e sottolineare quanto sia paradossale e estrema l’esistenza di un quartiere invaso dai rifiuti. Dopo aver visto le Piramidi, il quartiere copto, il Museo Egizio, l’Opera, le feluche sul Nilo, ciascuno sente il bisogno di rassicurarsi con un po’ di incivilità, così anch’io. Sapere quanto si può vivere male qui, avere idea della distanza. Mi arriva un messaggino di Paola: “Ho la febbre”, e io non so che risponderle. Non capisco se mi voglia dire che ha paura, di qualche infezione, di qualche malaria. O è soltanto la mia ipocondria da lontananza.
Il cielo, reso ancora più oscuro dal vetro spesso, è del colore della pioggia che arriverà fra poco. Sono le sette e mezza e devo lasciare l’albergo entro le nove e arrivare alla parrocchia di Padre Vladimiro dall’altra parte della città. Ho accettato di accompagnarlo alla messa. Non vado a una messa da due anni: dalla morte del padre di Paola, in cui durante la consacrazione ho alzato la mano per chiedere al prete se potevo intervenire su quello che aveva appena detto nella predica. Faccio in fretta la valigia, accatasto dentro libri con la copertina spiegazzata e mutande leggermente sporche di sperma – tutto ciò che certifica il fatto che sono in vita – e la lascio giù nella hall. Ho da pagare solo gli extra. Posso pagare in euro. Venticinque euro di bar. E duecentoventi di internet. Sono stato l’idiota pigro che per non chiedere si è collegato al provider italiano. Autodistruzione anche questa: fallire per spese distratte.

*

Nel taxi, lungo la strada, scatto le fotografie con la macchina fotografica che non ho per ricordarmi le cose che vedo da solo, e che nel momento in cui me ne accorgo – il fatto stesso di notarle – mi riporta in un istante di distrazione a farmi capire qual è l’inevitabile genesi della solitudine. Dovrei chiudere gli occhi per non sentirmi solo? Potrei mandare un sms a Paola con scritto soltanto: “Le antenne paraboliche sopra la moschea”, capirebbe? “Un cartellone di un film comico in cui i protagonisti sono uno vestito da militare alto, l’altro un barbone nano”. “Bombole del gas blu enormi davanti all’entrata di negozi che non vendono assolutamente niente”.
Un ragazzo mi ferma per strada e mi dice di seguirlo. Parla un inglese pieno di wow. Ha studiato in America, dice. Mi porta nel retro di un negozio. Mi chiede cosa può offrirmi. Mi parla dell’Egitto e dell’ospitalità. Arrivano altri due uomini. Galabeyye elegantissime e un sacco di anelli alle dita. Parliamo per mezz’ora, dell’Egitto e dell’ospitalità. Approfitto, nel giro di questa mezz’ora, di tutto quello che posso, senza timore di sembrare cafone. Dopo aver detto che odio sia le boccette dei profumi che i papiri decorati, li saluto, sorriso contro sorriso. Fermo un taxi, ci monto. Contratto. Lui dice dieci, io cinque. Lui non abbassa, io non alzo. Gli dico thank you, scendo. Ne fermo un altro. Gli dico dieci, accetta. Ributto la faccia al finestrino. Il tassista è un uomo grasso e muto. Che non sa l’inglese. Lo odio a pelle. Gli ripeto tre volte l’indirizzo. Il suo taxi fa schifo. Si sente puzza di benzina. Glielo dico, ma non capisce. Oil?, risponde, da ebete. “Una decina di bambini tutti in tuta acetata e ciabatte, più uno in mutande e con le scarpe della Nike”. Tamponiamo una macchina ma non ci fermiamo, facciamo il pelo a due asini. I clacson eterni sono il modo in cui gli egiziani dichiarano di essere al mondo: un’esplosione demografica di suono che a una certa età dello sviluppo sostituisce i vagiti. “In alto, ovunque, decorazioni da festa di quartiere divelte, pendono come salici”. A un semaforo una bambina, dal niente, mi vuole vendere seduta stante un viaggio tutto compreso al Sinai. Non capisco se è un segno. Il tassista si ferma tutto il tempo che serve alla bambina. “Un bue senza una zampa sopra un carro”. “Immense distese di tavolini di bar tutti decorate dalle tovagliette gialle e rosse del Tè Lipton”. “Dietro un’aiuola, addetti alla sicurezza e poliziotti disposti in due file e col capo chinato, a pregare”. “Le bambine con i maglioncini di cotone giallino, rosa, dentro i jeans a vita alta e con la cinta”.
Ci fermiamo di nuovo, accanto a una specie di ferramenta, ne esce un ragazzino claudicante (manca sempre qualcosa alle persone qui?) che mi chiede se voglio lucidarmi le scarpe, “five minutes, sir”. Non gli rivolgo parola, e faccio cenno al tassista di andare, ma lui mi esibisce un’espressione da uomo del deserto, e mi lascia con la faccia del ragazzino piagnucoloso davanti, finché sono io che reggo di più e finalmente riparte. Questo tassista affetto da mutismo e stronzo mi sta propinando giri inutilissimi escogitando tappe con tutti i suoi compari rabberciati, mentre è cominciato a piovere e gli funziona un solo tergicristallo. Gli imbruttisco, gli dico di fermarsi, e mi faccio lasciare distante, gli accartoccio i soldi in mano senza mancia.
…Gli egiziani sono un popolo di merda, mi ha detto porgendomi un fresh mango l’addetto dell’ambasciata italiana alla cena di rappresentanza il nostro primo giorno nella villa a tre piani a Zamalek, non vedo l’ora che mi trasferiscano, pure in Botswana… Sono pigri, falsi, corrotti, inetti a qualsiasi cosa, hanno fatto qualcosa di decente cinquemila anni fa e ci campano di rendita, le donne sono tutte dei mostri, grasse, represse, e baffute… se sei omosessuale ti può andare bene… tutti froci qua, col fatto delle donne che stanno in casa, ci faccia caso, guardi come si toccano tutti il pisello per strada…

*

L’aria vicino la Cittadella è uno stagno, volano delle cosine marroni, una manna che sembra polline marcio. Sta pioviccicando e appena scendo dal taxi mi accorgo che non ho il telefonino, mi tasto istintivamente la tasca dietro dove l’avevo infilato, e bestemmio, dev’essere scivolato probabilmente mentre scendevo o mentre qualcuno dei bebé questuanti mi tirava col braccio fuori dal finestrino, le dita piccole e rapinatrici dei ragazzini, annuso i pochi metri che ho appena fatto, fermo le macchine che mi verrebbero addosso, bestemmio gli dei che reggono il gioco qui, cialtroni e ladri anche loro, e mi ripeto Non impazzire, egiziani rottinculo non impazzire, non prendere un altro taxi per inseguire il ciccione muto che si è appena fregato il tuo cellulare, ragiona, chiama Paola, avvertila che te lo sei perso, e i cento euro di credito appena intaccati, fattene spedire uno di ultima generazione direttamente dalla fabbrica delle SIM finlandesi, e i cinquecento numeri di telefono fondamentali compreso quello di padre Vladimiro, una fortuna nella sfortuna che lei lavori alla Nokia, no?, e i messaggi di Paola, tutti gli sms che hanno dato alle volte un senso cuspidale, alle giornate fumose e astratte della sciatteria del mondo. Proprio qui lo dovevi perdere? In questa pattumiera di città? Bestemmio, mi frugo nelle tasche tutte, il biglietto dell’indirizzo di Padre Vladimiro, cerco senza alcun senso sul marciapiede mentre le persone si fermano a chiedere se va tutto bene… Tutti questi cazzo di migliaia di poliziotti, e invece adesso qui ci sono solo bambini, stiratori, venditori di carne e di frutta, vecchi che fumano, esseri inutili e impiccioni che mi chiedono dopo un secondo comunque soldi e soldi. Ho bisogno di un internet point, almeno ce l’avete un telefono, una cabina, un phone, un phone center? Cammino e penso alla mortalità infantile di questo posto, perché è così poca?, alla vita media delle persone di qui, cinquanta anni, trenta meno che in Italia, si godono la vita come le cicale, se ne fregano dell’inquinamento e dell’organizzazione e di quello che c’è appena fuori il loro uscio di casa, fanno la vita delle banane, aspettano di maturare per poi stendersi al sole sui banchi dei mercati, i terroristi sono l’eccezione qui, gente che almeno ha un minimo di spirito d’iniziativa… Vago per almeno due chilometri senza sapere neanche l’ora, tastandomi la tasca per rassicurarmi della presenza del passaporto, prima di trovare un posto che eccezionalmente non sembra uscito dal cesso della Storia, con una decina di cabine e qualche computer. “I’ve lost my mobile, can I make a call?”.

*

Gli stranieri nei phone-center fanno l’effetto dei signori grigi di Momo attaccati ai loro sigari d’ossigeno per respirare. L’impressione è sempre quella di un paesaggio alienato, ognuno ride nella sua lingua, ermeticamente chiuso nel mezzo metro quadro della cabina che è per il tempo della telefonata diventa una zona a giurisdizione del proprio paese. Senza che neanche io apra bocca, il negrone che gestisce questo posto, mi dice: “Italiano”. È alto più di due metri e sa l’italiano e come sono fatti gli italiani perché ha vissuto a Roma per sette anni.
“Invece di dove sei?”
“Nigeria”.
“Ok”.
“Meglio qui. Lavoravo per Wind in Italia, venuto qui per lavorare come interprete. Poi visto come lavoravano in Wind, e ho detto no, preferisco allora lavorare per conto mio”, mentre parlo mi ha spruzzato di deodorante alla fragola una cabina, e mi ha spazzato con la mano la polvere dalla sedia. “Prego”.
Digito il numero e contemporaneamente parlo col nigeriano – una delle poche abilità che ho sviluppato in quanto essere umano europeo d’inizio millennio: “E perché non te ne sei tornato in Nigeria? Non è un posto di merda questo?”
Ride (Il cellulare di Paola squilla a vuoto e a casa scatta la segreteria. Starà dormendo, le lascio un messaggio): “Per colpa di italiani”. Ride. “Tu conosci Delta del Niger?”.
Chiedo se posso usare internet.
“Come no”, mi sblocca un computer, e apre anche Google Earth su quello accanto al mio. (Mi scarico la posta, controllo se è in chat. Le scrivo una mail brevissima. Paola, ho perso, mi hanno fregato il cellulare. Solo quello. Spero che tu stai bene. Porca Nokia. Cancello Porca Nokia. Scrivo Vorrei picchiare qualcuno, lo cancello. Scrivo Ti amo. Invio senza pensarci.) “Guarda, questa è Delta del Niger. Questo è posto più ricco della Terra. La più alta concentrazione di petrolio del mondo. Ma non petrolio schifoso come quello di Arabia, di Iraq. Petrolio purissimo. Questo qui”, e zooma su una massa di case che sembra un’isola, “è Ogoni. Un quartiere, come dite?, un paese?… Ma ti sto facendo perdere tempo…”.
Gli dico no, controllo l’orologio, ho quaranta minuti di tempo per essere da Padre Vladimiro. Con metà cervello, mi scarico la posta.
“Qui ogni anno governo italiano fa più di mille miliardi di dollari. E nel delta del Niger non c’è elettricità. Capisci? E la gente fa un giorno di fila per fare benzina. Non esiste neanche una raffineria nigeriana in Nigeria. Vendiamo petrolio a tutto il mondo, e compriamo benzina. Nessuno parla di questo. Perché nessuno fa comodo. Qui governa Shell. Elf… Questa parte qui… questa zona, vedi…”, mi ingrandisce una specie di striscia di terra bianca, “questa l’ha comprata un italiano, un tuo amico”, ride. “Ha spazzato via tutti i villaggi. E ci ha fatto alberghi. Guarda qui dov’è bianco, questa è sabbia. Prima c’era una foresta. Adesso tutti alberghi per i petrolieri. Belli i petrolieri, eh? Tu devi andare a vedere, se no non ci credi. Sei mai stato in Nigeria?”
“È la mia prima volta in Africa”.
“Qui al Cairo? Allora vuole dire che resterai qui”, ride.
“Al Cairo?”
“Come me. Sai che vuol dire Cairo? Al… Quaira?… La sog-gio-ga-tri-ce. Ti mangia questa città…
Ma prima però devi vedere un po’ il mondo… Devi andare a mio paese… In Nigeria… Vedi qui…”, e mi apre su un’altra finestra un’altra pagina di Google Earth.
“Posso riprovare a telefonare?”
“Come no”.
(Sempre la segreteria, non le dico niente, attacco.) Mi ha ritagliato una foto dall’immagine dello zoom:

“…Questo è il quartiere di Shell dentro Port-Harcourt, dentro la fogna della città… Vedi… sopra i campi da golf… Sotto c’è un campo da rugby… una piscina… un campo da tennis… Tutto recintato… Vanno in giro con le scorte e stanno distruggendo uno dei posti più belli del mondo… uno dei posti più ricchi del mondo… Ma se tu provi a combattere in qualche modo… sei… morto”.

*

Fuori sono costretto a prendere un altro taxi, piove e si formano le pozze, che formano gli ingorghi, ma questo tassista, pagato decisamente più del normale, si inventa stradine e scorciatoie e mi porta rapidamente alla sede dei comboniani, che è un secondo piano di un palazzo coloniale, pieno di gente con il pennello in mano che ridipinge tutto. Padre Vladimiro è l’uomo italiano in canottiera che mischia la vernice e senza fermarsi mi dice: “Ti stavo aspettando, mi vado a vestire”.
È un cinquantenne robusto, e spiccio. Uno di quelli che presentandosi ti sottintende che non ha un momento da perdere. E lo dice come se ti avvertisse che se gli rubi del tempo a lui, lo stai automaticamente rubando a qualche bambino malaticcio di cui per colpa della tua invadenza non potrà prendersi cura. Scendiamo in garage. Entriamo in macchina, una vecchia Punto, mi fa mettere la cintura ma lui non se la mette. Fa manovra in un modo delinquenziale, sgommando, non da prete. Si fa passare da un ragazzo una busta con i paramenti e getta tutto sul sedile di dietro. Poi siamo di nuovo nel traffico del Cairo, in cui la pioggia fa uno strano rumore metallico che rimbomba contro i clacson delle macchine che ora si ingolfano come pezzi di un tetris impazzito.
“È cresciuta, in dieci anni, questa città è diventata un’altra cosa. Tu? Chi sei? Sei un giornalista?”
“No, non sono un giornalista. Ero curioso. Lei vive qui da quanto?”
“Al Cairo? Da dieci anni, prima ero in Sudan. Mi sono fatto un po’ di guerra civile. Una bella esperienza. Poi sono venuto qua… Questa…”, mi indica, “è una nuova moschea che stanno costruendo, la seconda, la terza più grande, della città”. C’è solo un immenso semicerchio, ponteggi e strutture in mezzo ad arbusti e macchinari della Daihatsu pieni di pietre e un cartello di Lavori in corso buttato per terra, che se Padre Vladimiro non mi avesse spiegato, avrei scambiato per qualcosa che non sta nascendo, ma sta andando in rovina. Paola, pronuncio a mente.
“Campiamo. Non si direbbe, ma campiamo. Facciamo quello che facciamo senza finanziamenti. Per avere una stanza in più dobbiamo faticare. Mentre il governo egiziano se vuoi costruire una moschea ti dà soldi gratis, non ti chiede un documento, ti lascia libero. Ogni volta che mettiamo su un qualcosa noi, una chiesetta, un’attività, ci fanno penare il sangue con i permessi, come si dice… non penare… sputare il sangue…, e tempo due mesi e spuntano le fondamenta di una moschea”.
Quando la strada principale finisce, saliamo con la Punto su un terrapieno scosceso, e siamo, attraverso un passaggio minuscolo tra due palazzi disabitati, all’interno di Moqqattam. “Qui”, mi dice Padre Vladimiro. “Ma non fare foto, la gente si arrabbia”
“Quante persone ci vivono?”. I muri delle case, fino al primo piano al secondo sono completamente coperti di immondizia. Sacchi colorati, arancioni, celesti, rossi, di plastica, gonfi, da cui fuoriescono tubi e sedie. Paola.
“Sessantamila… Centomila… Campano anche loro. Raccolgono i rifiuti, li caricano sugli asini, i carretti, sui camioncini, su quello che c’hanno e la portano all’interno del quartiere. La ammucchiano qua”. Tre ragazzini, dieci anni, giocano a carte dentro un cortile completamente pieno di mondezza. C’è un’aria ovviamente asfissiante: quella di una cosa che qualcuno ha dimenticato lì. Un cadavere insepolto, un cibo lasciato in frigo, un bambino piccolo non curato.
“Le donne e i vecchi, e soprattutto i bambini dividono i vari materiali. Li mettono in qui sacchi di iuta, di plastica, e vendono ai grossisti. Noi cerchiamo di fare andare i bambini a scuola, o al doposcuola. Prendiamo i ragazzi più grandi e gli facciamo fare scuola a quelli più piccoli. Campiamo”. Un macellaio che vende la carne per strada, tra piccoli cumuli di cartone legato con lo spago, ci saluta. Alcune bambine con dei lingotti di ferro in mano scappano dalle manovre scattose che Padre Vladimiro fa con la Punto.
Paola. Arriviamo alla Casa delle Piccole Sorelle di Madre Teresa. C’è una porta blindata alla bell’e meglio che ci viene aperta. Dentro è un luogo piuttosto piccolo, ricavato male dalle insenature tra gli altri palazzi: ma tutto pulito e con piantine di mentuccia e basilico ovunque che lasciano un odore di cucina.
“E qui?”
“Qui raccolgono i malati di mente. E i bambini orfani o handicappati che sono abbandonati dai genitori”.
Prende la busta con i paramenti dietro. Saluta una a una le sorelle, che hanno sul volto quella felicità che potresti prendere per ebetudine. Si parlano in arabo, non capisco niente.

*

Se avessi un desiderio al giorno da spendermi, oggi sarebbe questo. Di non dovermi vivere tutto questo da solo. Che Paola fosse qui: a considerare che cos’è quello che provo, e a verificare se potrebbe assomigliare in qualche modo a quello che prova lei.
Oltre le suore, una decina di donne in ciabatte e pigiama/tuta, si accomodano tra la sedie. Padre Vladimiro si fa il segno della croce in arabo. È l’unico gesto che compio con coscienza. Le distanze dopo essere diventate incolmabili, ecco, si azzerano. Ritorniamo i corpi che siamo. Non riesco a capire neanche il Vangelo di cosa parli. Padre Vladimiro fa una predica lunghissima. Guardo ogni parola che dice, e mi volto di continuo, nervosamente, verso tutte le donne che ascoltano. Quando si inginocchiano, non faccio in tempo a farlo anch’io che sono già di nuovo in piedi. Ogni tanto mi accodo e dico amen. Poi prendono la comunione, bevono anche il vino dal calice. Alla fine della messa fanno un applauso a Padre Vladimiro, che va a cambiarsi immediatamente. E viene da me. “C’abbiamo cinque minuti”, mi dice. “Fatti accompagnare da questa ragazza”. ‘Questa ragazza’ è una bambina di otto, nove anni. Indossa una tuta rossa con una faccia di Topolino cucita sopra. Mi porta sul retro. C’è un cortile interno, e un prefabbricato.
Mi fa entrare in questa stanza, dove per terra, sulla moquette, ci sono una quindicina di bambini molto piccoli. Che sembrano, come dire, poggiati per terra. Sono tutti deformi, ce n’è uno con una testa che sembra scoppiare e gli occhi come due pietre, un altro piccolissimo, con un tronchetto di gamba, uno con una specie di girello per reggersi in piedi. Hanno lo sguardo sperso e un paio sorridono con delle espressioni stranissime che sono ghigni da adulti, e ogni tanto si avvicinano tra di loro, per giocare o toccarsi. La ragazzina che mi accompagna, quando si rovesciano e piangono, li rimette in una posizione comoda. Ma dopo un po’ gattonano e si rovesciano di nuovo.
Resto lì neanche dieci minuti. E, se questo desiderio al giorno si avverasse, vorrei dire a Paola che non c’è altro luogo della Terra dove andare. Prima che Padre Vladimiro venga a chiamarmi e mi dica: “Hop, stiamo facendo tardi”.
E quello è il momento in cui deglutisco la mia stessa saliva, guardo tutto e dico: “Ciao”.

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13 Commenti

  1. La lettura mi ha preso in modo totale, mi sono ritrovata immersa nel racconto come da tempo non mi capitava.
    Complimentissimi !

  2. Molto bello, anche se quegli enormi cumuli d’immondizia da qui non sono poi così lontani. :-(
    ..pensavo, però, che da un lato quelli egiziani dell’antichità fecero la loro fortuna perché è da lì che provengono quasi tutti i papiri conservati, da quei mucchi enormi, cresciuti ad altezza tale da essere immuni, data la siccità, da inondazioni-irrigazioni …domani chissà, forse sopravviverà solo la plastica…

    comunque, vabbè, cambiando argomento – cito passi da un art sulla Guerra del Delta:
    “Il delta del Niger comprende 9 stati nigeriani, 185 amministrazioni locali e una popolazione di 27 milioni di abitanti. conta 40 gruppi etnici, che paarlano 250 dialetti, disseminati in 6.000 comunità e copre un’area di 70.000Km quadrati. e’ una delle zone a più alta densità abitativa del mondo, con una crescita annuale demografica del 3%. Circa 1500 di queste comunità sono coinvolte nelle attività delle compagnie petrolifere. Migliaia di Km di oleodotti attraversano le insenature coperte di mangrovie, interrotte di tanto in tanto da un’esplosione di gas…
    Moderne strutture con aria condizionata, protette da recinzioni di filo spinato e guardie armate, sorgono accanto a primitivi villaggi di pescatori, sono gli ingredienti tipici di un disastro.
    Il problema è in sintesi che da 50 anni le compagnie petrolifere straniere conducono sofisticate operazioni di prospezione ed estrazione, usando apparecchiature ultramoderne che valgono milioni di dollari in un ambiente desolato, rimasto all’età della pietra.
    Finora le multinazionali hanno estratto centinaia di milioni di barili di greggio, rivenduti sul mercato internazionale ricavando centinaia di miliardi di dollari, ma agli abitanti del Delta del Niger neppure le briciole…molti abitanti vivono ancora in capanne di fango e paglia…e la sua popolazione non ha né elettricità né acqua corrente pulita. Per raggiungere un medico bisogna viaggiare in barca per ore tra le insenature.
    Ogni tanto ci sono perdite dagli oleodotti e la vita delle comunità dei pescatori è stata sconvolta: costretti a trasferirsi o coinvolti in conflitti per i risarcimenti. Quando hanno cercato di protestare, gli abitanti del Delta sono stati messi a tacere con i soldi, istigati gli uni contro gli altri oppure presi a fucilate.
    Forse da un punto di vista strettamente tecnico, la criminalità dilagante, l’illegalità e la violenza giovanile si possono definire disordini invece di guerra, quella che finisce in apertura dei telegiornali…ma è una distinzione accademica…
    gli abitanti della regione sono stretti tra le guardie assoldate dalle multinazionali per proteggere oleodotti e piattaforme, le milizie etniche decise a contrastare le loro operazioni e i soldati e le unità speciali della polizia nigeriana…

    …nel gennaio 2005…migliaia di persone furibonde perché la Shell e la Chevron non avevano mantenuto le promesse fatte – avevano occupato le piattaforme petrolifere bloccando la produzione di 120mila barili di greggio al giorno. Gli autori della protesta si erano rifiutati di andarsene prima della firma di un nuovo memorandum d’intesa con chiare garanzie di risarcimento e progetti infrastrutturali per la comunità.
    Negli anni i memorandum d’intesa sono diventati una prassi normale per le multinazionali e le comunità locali…documenti informali che indicano solo un accordo su principi generali, offrendo appena una manciata di promesse -come costruzione di pozzi o ambulatori -…quando le comunità locali pensano che le imprese stiano dimenticando le promesse occupano le piattaforme e danneggiano l’estrazione per richiamare l’attenzione…

    gran parte del territorio non è raggiungibile a piedi…
    da secoli la sopravvivenza delle comunità dipende dalla pesca e dalle maree. La loro vita è costantemente segnata dalla precarietà, in capanne che sembrano fluttuare sull’acqua. Una mareggiata può spazzare via un villaggio nel giro di qualche ora.
    …ci sono le recinzioni e le barriere delle multinazionali, circondate da segnali arrugginiti ma sempre minacciosi che vietano l’accesso, poi ci sono le piccole baracche di legno presidiate da giovani che vendono il carburante in bottiglie di vetro, proprio sotto il naso delle compagnie petrolifere. ..
    …è seguito il solito elenco di accuse: 43 anni e cosa vediamo? La gente muore di fame, malnutrizione e malattie. i dirigenti e i funzionari mandati dalle compagnie per tenere i contatti con la comunità vogliono solo rubare il nostro risarcimento. quando c’è una perdita di petrolio ci danno 35 naira(20 centesimi) per ogni rete da pesca rovinata.
    Nessun abitante di Kula lavora per la Shell. Qui ci sono persone che hanno un master, un dottorato di ricerca, alcune andate all’estero. Ma nessuno lavora per la Shell…la clinica senza il medico, la scuola senza insegnanti, il centro per le donne senza finanziamenti…risposte di facciata date ai problemi del Delta…sofferenza, frustrazione, protesta, rivolta organizzata, repressione violenta, memorandum d’intesa, progetto di sviluppo simbolico, mazzette, ritorno alla sofferenza…
    poi alla fine degli anni 90 la gente ha cominciato a diventare creativa…dai 7 casi di vandalismo ai danni degli oleodotti registrati ufficialmente nel93 ai 600 del 2000.
    Improvvisamente le multinazionali hanno dovuto affrontare una minaccia…il bunkeraggio illegale che consiste nel manomettere un oleodotto, riempire di greggio dfelle taniche di plastica e portarle in motoscafo fino alle chiatte che le vendono alle grandi petroliere oceaniche, queste rivendono il petrolio alle raffinerie dei paesi vicini come la Costa d’Avorio, con un grosso margine di profitto.
    Non è lavoro da dilettanti…dall’inizio alla fine è un processo ben oliato con complicità ufficiali e piccole mazzette…il bunkeraggio illegale non è più opera di giovani in cerca di soldi facili, ma un’industria gestita da organizzazioni mafiose…ma era ancora un gioco da ricchi.
    Nella primavera del 2004 si è cominciato a parlare di un’attività più diffusa e più pericolosa, il bunkeraggio locale… La comunità di Oluasiri aveva abbandonato il greggio per occuparsi di un frutto meno pregiato: il metano…gasdotto della Shell che attraversa il fiume OLuasiri, avevano assunto squadre di sommozzatori per praticare dei fori in diversi punti del gasdotto e applicarci di tubi…il prodotto che esce dalle valvole non è greggio e neppure cherosene, ma qualcosa di intermedio che contiene ancora molto gas. La sostanza viene fatta riposare per un paio di giorni finché diventa Cherosene e può essere venduta agli abitanti che la usano per cucinare. questo combustibile di contrabbando non è puro come quello venduto legalmente e quando lo si mette nelle stufe può esplodere, però costa molto meno….hanno cominciato a venderlo ai trafficanti del mercato nero, che lo portano nelle città più grandi…adesso sono tutti coinvolti: il personale della Shell, gli agenti di sicurezza, tutti.
    La cosa inquietante è il modo in cui vengono spesi i soldi che ne ricavano:per comprare Ak-47 e lanciagranate: un armamentario grossolano al servizo di un separatismo etnico violento. I ragazzi senza lavoro, senza accesso allo studio, e quasi sicuramente senza un futuro sono stati organizzati in bande e milizie che inevitabilmente si scontrano con le autorità e tra di loro.
    Durante le campagne elettorali molte sono state ingaggiate da politici statali e locali per intimidire le comunità e condizionare il voto…
    per decenni la Nigeria è stata governata da leader militari, arrivati al potere con un colpo di stato, che spesso hanno considerato i contratti dello stato nigeriano con le multinazionali come una licenza per stampare soldi per se stessi e le famiglie. Le compagnie straniere hanno fatto di tutto per non turbare lo status quo ingraziandosi i dittatori corrotti e chiedendo la brutale protezione dei militari ogni volta che qualcuno minacciava l’attività…
    Nel gennaio del 2006 il gruppo Mend (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger)…ha conquistato le rpime pagine dei giornali con il rapimento dei 4 dipendenti della Shell, prigionieri per 19 giorni prima di rilasciarli per “motivi umanitari”.
    A Febbraio 9 operai sono stati sequestrati e un oleodotto è saltato in aria. A Maggio sequestrati e rilasciati altri 8 ostaggi, statunitensi, britannici, canadesi seguiti da 5 sudcoreani. A metà del 2006 gli operai presi in ostaggio erano più di 60…
    e tutto questo in un paese che un tempo aveva tante speranze, dove il petrolio avrebbe dovuto portare una ricchezza al di là dei sogni più folli, le cose non dovevano finire così.
    Ma gli economisti vi diranno che quello che è successo in Nigeria è il risultato di quell’intreccio inestricabile di cambiamenti strutturali che accompagna lo sfruttamento delle risorse in un paese del terzo mondo.”

    John Ghazvinian, (giornalista freelance)
    The Virginia Quarterly Review,
    USA

  3. ho letto senza staccare gli occhi nemmeno un attimo, poi mi sono accorta che nel mentre ha suonato il telefono. ogni tanto quello che scrivi mi tocca così tanto che mi leva il respiro, ed ho bisogno di fare alcune cose stupide, tipo gesti quotidiani per rientrare nella normalità. i sentimenti di cui parli in modo così intenso e viscerale sono così reali che quando ti leggo li provo anche io, esatti, lucidi, e spesso sento lo sgomento puro, mi sembra quasi di smarrirmi. dio quanto mi mancava leggere una cosa così. e poi hai citato momo, mi hai ricordato che è stato uno dei libri che ho adorato leggere nella mia infanzia…
    non smettere di scrivere, mai, ti prego, non cambiare lavoro che ne so, fallo sempre perchè è troppo bello leggere una cosa così

  4. E cosa c’è da aggiungere? Bellissimo. E anche il cut up di Maria. Un tempo si sarebbe detto che la realtà parla. Oggi possiamo ben dire che urla addirittura.

  5. @La croce
    Come sarebbero gli elogi difficili ?:o)
    Dobbiamo scriverli in modo incomprensibile ed argomentare in modo circostanziato il gradimento ?
    Ma mica siamo tutti dei critici, ahò !
    Oppure dobbiamo astenerci dall’elogiare?
    Probabilmente la seconda che ho detto, ma non ne vedo proprio il motivo.
    C’è chi commenta elogiando e chi commenta criticando.
    E allora ?
    Non siete mai contenti, eh ?:o)

  6. Cosa c’è da aggiungere?
    questo:

    Diapositive di un viaggio
    da un taxi in corsa per le strade del Cairo,
    le cui immagini si impiantano, nitide, nella coscienza.

    I dialoghi scorrono, a sprazzi, a volte ironici, a volte cinici.

    – Se avessi un desiderio al giorno da spendermi, oggi sarebbe questo. Di non dovermi vivere tutto questo da solo.-

    Bel pezzo Raimo!

  7. Bravo’, alla francese (non so perché ma l’ho trovato di taglio francese).
    L’ho anche consigliato a un’amica che al Cairo c’è vissuta. Ohibo’!

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