I passeurs dell’Atelier

di Massimo Rizzante
atelier

Il piacere del logos

Tra la primavera del 1996 e l’autunno del 1997 uscirono nella rivista «L’Atelier du roman» di Parigi quattro saggi di Yves Hersant, Philippe Roger, Thomas Pavel e Lakis Proguidis sul rapporto tra romanzo e romanzesco. I testi, che si richiamavano l’uno con l’altro, formavano un dialogo. Tuttavia questa antica forma di vivente circolazione del pensiero – forma che era sopravvissuta, clandestinamente, per quasi tutto il XX secolo – si era inabissata come un vascello fantasma nell’oblio.
In Francia, dove pure briciole di società letteraria si potevano ancora raccogliere sotto i tavolini di alcuni bistrot di Montparnasse o di rue des Écoles e dove l’arte della conversazione era stata, all’epoca di Voltaire e Diderot, un regno più potente di quello – imperituro – delle portinaie, nessuna casa editrice aveva accolto con favore gli inviti che venivano dai collaboratori della rivista.
Le difficoltà (e il fallimento) dell’impresa editoriale francese (che ha preceduto le molte difficoltà di quella italiana) mi ha fatto pensare non solo al deficit di ascolto che ormai impregnava l’ex-vita letteraria parigina, ma, in generale, al virus che aveva colpito coloro che i francesi avrebbero chiamato in tempi non troppo lontani passeurs: scrittori, critici letterari, direttori di riviste capaci di trasmettere le idee, le opere, le intuizioni da una celletta all’altra dell’alveare culturale europeo e mondiale. Dei giocatori in grado di far filotto con bocce per bambini (e di giocare a bocce con i crani di qualsiasi vedette mondiale!); dei segugi, capaci di scovare talenti perfino nella spazzatura del noir o nelle biografie di ex-carcerati; dei mediatori capaci di catalizzare le energie più originali del presente e di offrirle su un piatto d’argento agli amici, siano essi uomini d’affari, attori o poeti. Molti collaboratori dell’«Atelier du roman» rappresentano forse alcuni fra gli ultimi esemplari di questa specie. E come tanti piccoli Atlanti si portano sulle spalle il peso di un mondo che ha disertato il piacere del logos: del legare, del legarsi e del leggersi, un piacere a cui dei discendenti della civiltà greca non possono rinunciare. La morìa dei passeurs resterà nella Storia della fine del XX secolo come il segno indelebile dell’entrata dell’arte in una fase nuova, dominata da una civiltà che ha rinunciato al piacere dell’opera. E al piacere di leggersi attraverso l’opera.

E la critica letteraria?

Secondo la doxa degli inizi degli anni novanta non abitava più la casa della rivista letteraria. Così come la rivista letteraria non abitava più la polis delle lettere. Questo sembrava un fatto compiuto. Di più: la rivista letteraria aveva perduto anche il suo charme di agente clandestino, la sua aura di esule in contumacia. In altre parole, aveva perduto la sua funzione originaria: sobillare a distanza gli organismi intellettuali sufficientemente sensibili alle novità estetiche.
«L’Atelier du roman» era forse nato (1993) con la pretesa di rianimare il cadavere della critica letteraria? Non proprio. E allora per quali ragioni una rivista letteraria nasceva nel preciso momento in cui il suo de profundis era stato intonato dalla rosa planetaria dei beati internauti?
Primo: si trattava, a mio avviso, di constatare le cause del decesso. Si doveva compiere un sopralluogo: aprire gli occhi ai vivi; chiuderli ai morti. Da un bel po’ la critica letteraria aveva distolto lo sguardo dall’opera. Si era rivolta alle scienze umane; alla filosofia; alle minoranze etniche; alla politica; al sesso. Eravamo alla celebre sostituzione del testo in pretesto. Tuttavia, per quanto cercasse altrove, o proprio perché cercava altrove, la critica si rivolgeva sempre di più verso l’interno: la critica trovava in se stessa il proprio alimento. E la propria dannazione. Il contrappasso della schiera dei critici era di facile interpretazione anche per i non filologi dell’Eterna Commedia: così come non riuscivano più a trovare nutrimento e a trarre godimento dal corpo artistico delle opere, allo stesso modo erano costretti a fagocitare e a godere del proprio corpo critico (teorico, filosofico, antropologico, etnico, politico). Fino a scarnificarne le zone più ossute. Fino a vedere penzolare le proprie carcasse dai ganci delle aule universitarie o delle case editrici. Non c’era altro che il commento tecnologico o il resoconto pubblicitario. A seconda delle mode, della cucina. In questa situazione l’opera d’arte veniva a trovarsi ipso facto ai margini della critica. Così come ai margini della critica venivano a trovarsi gli autori.
Il sopralluogo era stato rivelatore: l’arte era sopraffatta dal presunto sapere sull’arte e gli artisti, nel gran archivio della produzione testuale indefessa e incalcolabile, erano ridotti a décor. Ma soprattutto: questo fenomeno non era una trappola, una perversione, ma un dato incancellabile della realtà. E da questo dato incancellabile si doveva partire. Alla decostruzione dell’opera letteraria, si doveva rispondere con una paziente decostruzione delle teorie e delle ideologie che avevano cinto d’assedio l’opera letteraria (senza incorrere in un pericolo sempre in agguato in questo genere di operazioni: quello di ripiombare nell’assenza di teoria e nell’assenza di passione per la forma).
Secondo: grazie ai seminari di Milan Kundera (che durarono fino al 1996, e ai quali risale la stessa nascita dell’«Atelier du roman»), era possibile dispensare il tremendum a orecchi corrotti da almeno tre decenni di sofisticazioni teoriche: il romanzo è un’arte (L’arte del romanzo di Milan Kundera era uscito in Francia e in francese nel 1986), con un suo luogo di nascita e una sua storia. A ciò si dovevano apportare solo alcune precisazioni: attenzione per la pratica romanzesca, per il savoir-faire del romanziere; studio minuzioso dell’architettura dell’opera; ricerca dei problemi esistenziali presenti nel romanzo; comparazione diretta tra le opere, senza passare obbligatoriamente per la teoria; capacità di porsi delle domande, sapendo che il romanziere stesso concepisce la sua opera come una domanda; apertura storica verso il passato e il presente che la faceva finita una buona volta sia con le ineffabili tassonomie (romanzo psicologico, romanzo realista, romanzo storico, romanzo fantastico, ecc.) sia con una concezione fin troppo dottrinaria del romanzo per cui Joyce è sempre più moderno di Cervantes e Tolstoj sempre meno moderno di Robbe-Grillet; allargamento della nozione di romanzo: quest’ultimo si rivelava essere un luogo capace di dare unità a tutte le forme e a tutti i registri (da Rabelais a Oe); respiro davvero europeo e mondiale, grazie al quale il valore estetico della singola opera è più importante della sua appartenenza a un dato contesto nazionale (ai gender studies e alla retorica sull’origine etnica o sessuale della letteratura che agli inizi degli anni novanta si diffondevano attraverso la tratta semestrale dei «borsofagi» dai dipartimenti universitari americani in Europa, si rispondeva con le seguenti parole di Danilo Kis: «Ciò che detestiamo di più è la letteratura che si vuole minoritaria, di qualsiasi minoranza si parli: politica, etnica, sessuale. La letteratura è una e indivisibile»); un’umile indifferenza nei confronti degli apostati dell’intraducibilità: cosa che regolava l’obiettivo non più sulla lingua del romanziere, ma sulla composizione del romanzo (a coloro che proclamavano che la «lingua è la patria dello scrittore», si rispondeva con le parole di Ernesto Sabato: «Il romanzo è la patria dell’uomo»).
Terzo: si cercava di aprire una nuova via allo studio del romanzo come luogo di apprendimento e conoscenza originale dell’individuo. Ciò significava (e ancora significa) combattere contro diverse posizioni.
Essenzialmente:
– contro il modernismo reduce e semper virens dell’avanguardia degli anni sessanta e settanta (erede di una parte dell’avanguardia storica i cui anatemi, dissepolti, camminarono come Lazzari sulle rovine del romanzo cosiddetto «tradizionale») che avendo dichiarato in varie lingue la morte del romanzo vi era giunta poi per via «sperimentale», ovvero attraverso la negazione del personaggio, dell’intreccio, delle idee, della sintassi, della psicologia, delle idee, e tutto ciò a favore di quello che allora venne chiamato senza alcuna vergogna «antiromanzo»;
– contro il modernismo delle università che a partire dalla stessa epoca (la nouvelle critique, un certo Barthes, una certa Kristeva, tutta la fallimentare ricezione narratologica del formalismo russo e dello strutturalismo praghese da parte della cultura francese) aveva fatto dell’antiromanzo la sua bandiera, dell’écriture il suo passepartout e dell’intertestualità il suo piede di porco con cui scardinare le menti di almeno due generazioni di studenti, privati per sempre della possibilità di concepire l’arte come uno strumento specifico per la conoscenza del mondo;
– contro il postmodern, che a partire dagli anni ottanta, attraverso quella pratica antica che va sotto il nome di «riscrittura», ha trasformato il romanzo in narrazione pedagogica e enciclopedica o in una sorta di patchwork;
– contro la facilità pop della narrativa degli anni novanta, figlia legittima delle scuole di scrittura di tutto il mondo, del loro siero immunizzante chiamato «creatività», inoculato in calde dosi nelle vene degli aspiranti scrittori (la «creatività», naturalmente, non ha niente a che fare con la «creazione», così come per un cristiano i miracoli di Simon Mago non possono essere comparati a quelli di Gesù Cristo) e del kit audiovisivo (cinema, musica, fumetto) lasciato in dote da una cultura media e mediamente democratica a ciascun cittadino del pianeta desideroso di vincere ogni resistenza di genere, canone, caratteristica storica o geografica a favore di un world text. In un world text lo shock della coesistenza di forme apparentemente incompatibili che contrassegnava le opere d’arte dell’epoca moderna è sostituito dall’assenza palpabile di ogni forma.
E perfino di ogni piacere per la forma.

Che cosa unisce Cervantes e Kakfa?

Fedele a qualcosa che si potrebbe chiamare «riso romanzesco» e di cui ancora nessuno, neppure l’impareggiabile Bachtin, ha scritto tutta la storia, aperta al mondo, per nulla nostalgica, non proprio in trincea, ma figlia di polemos, polemica, «L’Atelier du roman» lotta lucidamente contro i figli dell’eterno presente: coloro che hanno smesso di percorrere la via mediana che ci permette di incrociare continuamente il passato e, così facendo, di non avvertirlo come un fardello insopportabile. Contro coloro che annunciando costantemente il nuovo si credono gli ultimi, essa cerca di suscitare il dialogo, questa antica forma di vivente circolazione del pensiero. La sua ragion d’essere è la ricerca di uno specificum del romanzo: un nocciolo grazie al quale continuare a seminare nel solco di una tradizione. Anzi, grazie al quale la stessa nozione di tradizione del romanzo moderno possa non andar perduta.
Che cosa unisce Boccaccio e Laclos, Rabelais e Dostoevskij, Cervantes e Kafka, Sterne e Svevo? E perché romanzieri di oggi come Rushdie, Fuentes, Chamoiseau, Bolaño dicono di rifarsi a quegli autori? Perché a Rabelais e non a Petrarca? Perché a Cervantes e non a Calderón de la Barca? Tutti costoro sono romanzieri, cioè praticano qualcosa di essenzialmente diverso da coloro che si rifanno a Petrarca e a Calderón de la Barca. Se le origini del romanzo possono essere romanzesche, indistinte, affondare nell’antropologia, esse non possono essere confuse con la sua nascita. Non importa stabilirne esattamente la data e il luogo, quanto piuttosto essere in grado di comprendere la novità radicale che con il romanzo moderno si annuncia: qualcosa che non ha a che vedere solo con la forma, ma anche con lo sguardo gettato sull’esistenza umana e sul mondo.

Il mito di Narciso

Gli antichi Greci – leggo in un libro di un amico – non utilizzavano lo specchio per riconoscersi. Lasciavano che il loro volto si riflettesse nel volto degli altri. Ho finalmente compreso il mito di Narciso.
Narciso, allontanandosi dagli altri, nega il confronto, nega il dialogo. E quindi si nega. Così facendo, sarà condannato a non riconoscersi quando si rifletterà nella propria immagine. Ma è ovvio! Non ci si riconosce che riflettendosi nel volto degli altri, non riflettendosi nel proprio.
Questa è la versione del mito che mi auguro si insinui presto nei sogni dei figli dell’eterno presente.

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8 Commenti

  1. Rileggo e scelgo.

    «Il romanzo è la patria dell’uomo» (Sabato)

    “Contro i figli dell’eterno presente: coloro che hanno smesso di percorrere la via mediana che ci permette di incrociare continuamente il passato e, così facendo, di non avvertirlo come un fardello insopportabile. Contro coloro che annunciando costantemente il nuovo si credono gli ultimi, essa cerca di suscitare il dialogo, questa antica forma di vivente circolazione del pensiero. La sua ragion d’essere è la ricerca di uno specificum del romanzo: un nocciolo grazie al quale continuare a seminare nel solco di una tradizione.” (Rizzante)

    Si.Si.Si.

  2. Vorrei chiedere a Massimo Rizzante dove si trova il punto di incrocio fra scrittori, quel punto che porta a dire: “E’ necessario”. Perché non dobbiamo dimenticare che le capacità non bastano, non una penna, non una voce, un microfono in mano, per fare il salto sul palco o sull’antipalco.
    Buona giornata.

  3. non so se ho capito bene tutto, ma quel che ho capito mi trova molto consenziente. Chiederei a Max se pensa qualcosa di Hermann Broch e della sua idea così complessiva di romanzo come specchio e insieme modellatore di tutti gli aspetti di un’epoca, e anche della sua visionaria idea che “”Omero sta sulla soglia dove il mito entra nella poesia, e Tolstoj sulla soglia dove la poesia ritorna nel mito””. Domanda fuori tema, forse, però…?

  4. @ Antonio Sparzani
    Hermann Broch, sia il romanziere che il saggista (ma anche l’infinito mittente di lettere amoroso-conoscitive a destinatarie consenzienti – Broch era un seduttore epistolare), è stato un autore letto e riletto durante i seminari di Kundera (d’altra parte Kundera è il più diretto discendente di Broch). L’epigrafe del mio prossimo libro sul romanzo, “L’albero”, è tratta dal Broch de “L’immagine del mondo nel romanzo”: “Il mondo come tale è uguale per tutti sicché affermando che un albero è per un commerciante soltanto un valore di vendita, per un militare soltanto un punto strategico e per lo scienziato soltanto una struttura biologica percorsa da linfe vitali, non si esaurisce affatto il problema”.
    In quel saggio Broch si domanda qual è il compito del romanzo nell’epoca della “disgregazione dei valori” (epoca nella quale il mondo sembra essere uguale per tutti, salvo che il commerciante, il militare, lo scienziato ne hanno ciascuno un’immagine diversa…). Alla fine si risponde che il compito del romanzo è quello di essere lo “specchio di tutte le altre immagini del mondo” (visto che né la religione, né la filosofia, né la scienza sono in grado di assolvere questo compito – che in passato del resto hanno assunto). Ebbene io la penso ancora come Broch: l’aspirazione alla totalità nell’uomo non è sopprimibile e il luogo di questa “immagine” della totalità è il romanzo (che Broch chiama “polistorico”, ovvero non soltanto “polifonico”, ma composto di forme diverse – ne “Gli irresponsabili” Broch utilizza la poesia alternandola al racconto). Ieri e ancor più oggi…
    Quanto a Omero e Tolstoj, la soglia tra mito, poesia e romanzo si fa nel percorso di Broch sempre più labile. Da una parte tutti e tre concorrono all’obiettivo infinito – infinito perché tendente all’assoluto – di fornire un’immagine globale della conoscenza. Dall’altro Broch concepirà nel suo saggio – per me personalmente più decisivo – “Lo stile dell’età mitica” la possibilità di superare la tecnica del romanzo realista grazie allo “stile dell’esenziale” o “stile della vecchiaia” che può essere riassunto con queste parole: “Los copo dell’artista non è più quello di riprodurre il sorriso della Signora X, ma quello di sforzrasi di cogliere l’essenza del suo sorriso”. Rendere astratta l’arte del romanzo. Joyce, Th. Mann, Kafka, ognuno a suo modo, secondo Broch ha compiuto questo passo verso il “mito”, verso “lo stile dell’essenziale” o “stile della vecchiaia”.

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