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Temo che si tratti di un altro pezzo sulla critica letteraria

di Christian Raimo

Il discorso sulla malasorte, la decadenza, se non l’agonia, la putrefazione della critica letteraria è diventato un genere a sé. I critici italiani (gli intellettuali, i teorici, i professori universitari…) lo praticano sempre più spesso, e – va riconosciuto – con grande maestria. Le grida di allarmi, i tentativi di risvegliare il cadavere si susseguono. Carla Benedetti qualche anno fa parlava di tradimento dei critici; Mario Lavagetto di eutanasia della critica; Gabriele Pedullà un paio di mesi fa sulle pagine di Alias inaugurava – con un articolo intitolato “Se la critica muore” – quello che è stato un dibattito che è proseguito sul manifesto, si è seminato sulle terze pagine degli altri giornali, sui siti letterari in rete, tra i convegni di coloro che con lo studio della letteratura ci campano; ah, e da ultimo è uscito in questi giorni da Meltemi L’altra critica di Raul Mordenti. Così un lettore forte, un individuo critico con l’industria culturale del proprio tempo e del proprio paese, non può fingere di non sapere quale sia il pessimo stato di salute della critica letteraria oggi in Italia. Dove per “critica letteraria” si deve intendere un’importante sineddoche della militanza culturale, dell’impegno politico che ognuno deve mettere nell’agire lo spazio pubblico.
Diagnosticato il male però, la questione senza soluzioni di contrasto incisive si ripropone identica, o peggiore. La critica muore, si può vegliarla. Amen. Nessuno però dei critici che abbiamo sopra citato è un apocalittico, anzi. Da una parte: ognuno cerca di analizzare il fenomeno a partire da alcune trasformazioni strutturali del campo della cultura in italia. Il berlusconismo in primis, si è concordi, il berlusconismo in tutte le sue forme (comprese le versioni più suadenti della sinistra) ha finito col devastare – antropologicamente – una nazioncina già debilitata da decenni di abusi di potere, fascismi striscianti, ideologie del consumo invasive. Mordenti si rifà a Steiner e ne conia quasi una formula: dove c’era la critica oggi c’è la pubblicità. Ma la stessa dinamica di malpensiero la denuncia chi addita D’Orrico, piazzista di libri sul Corriere Magazine, o chi – come Pedullà – fa notare che l’atteggiamento di stizza rispetto a un contradditorio è lo stesso per Berlusconi, quando lascia sdegnato lo studio dell’Annunziata, e per Baricco, quando si lamenta in prima pagina su Repubblica del malanimo dei recensori nei suoi confronti.
E appunto, dall’altra parte, però: ognuno non si lascia affascinare dal proprio cahiér de doleance, ma abbozza soluzioni. Bibliodiversità, creazione di aree di autonomia dell’esercizio della critica fuori dalle macchine editoriali, boicottaggio, riqualificazione di quegli agenti culturali ormai resi cadaveri anche loro: la scuola, l’università, l’editoria indipendente.
Non ci sarebbe nulla da aggiungere. Se non che: l’impressione che rimane è quella di un’ultima battaglia tipo Termopili. Piccoli atti di resistenza contro un’avanzata micidiale e incontrastabile. Ma è veramente così?
Facciamo un passo altrove. Nel 1901 Bertrand Russell formulava uno dei paradossi più celebri della storia del pensiero. Il paradosso del barbiere. Un villaggio ha tra i suoi abitanti uno ed un solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull’insegna del suo negozio è scritto Il barbiere rade tutti – e unicamente – coloro che non si radono da soli. La domanda a questo punto è: chi rade il barbiere? La risposta che uno è naturalmente portato a dare è “il barbiere si rade da solo”. Ma in questo modo viola una premessa: il barbiere rasandosi non raderebbe unicamente coloro che non si radono da soli. Allora viene spontaneo il pensare che il barbiere sarà raso da qualcun altro, ma ancora una volta si viola una premessa: che il barbiere rade tutti coloro che non si radono da soli (per dirla in altre parole, il barbiere se si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si rade da solo dovrebbe radersi). Eppure il barbiere è ben sbarbato… Il paradosso all’inizio del Novecento ebbe un effetto domino su tutta la disciplina della logica formale. E Russell lo riscrisse per la teoria degli insiemi così: un insieme può essere o meno elemento di se stesso?
Ora, questa è la formula che mi viene in mente da applicare quando mi trovo di fronte a un discorso sulle difficoltà della critica pronunciato da un critico. Può un critico, con gli strumenti linguistici, concettuali che si è formato nel pieno del Novecento, nel momento in cui l’esistenza, il valore della critica non faceva problema, riuscire a sbrogliare questo paradosso mortale in cui lui stesso è avvinto?
Ma facciamo un passo indietro, perché a questo deficit se ne aggiunge un altro, collegato. Di fronte a un incontestabile declino del ruolo dell’intellettuale, di fronte al suo deprimente discredito, il nemico che si indica, la causa del male è il dominio della comunicazione televisiva e del marketing. Questa calamità ogni volta è invocata come se si trattasse di un mostro proteiforme e incarpibile. Perché? Perché i critici della cultura non studiano forme e modi di indagine dell’universo televisivo e di quello pubblicitario in modo da non lanciarsi semplicemente in invettive liquidatorie sulla decadenza intellettuale dell’italiano medio? Perché non è stato scritto in Italia un libro come quello di Steven Johnson, “Tutto quello che ti fa male ti fa bene” (Mondadori, 2006), che segnala l’evoluzione incredibile che le forme della narrazione hanno avuto negli ultimi trent’anni grazie ai telefilm e ai videogiochi, e la conseguente trasformazione delle competenze cognitive delle giovani generazioni? La televisione è veramente questa creatura orribile che plasma in modo ottundente le menti, rendendole semplici recettrici di messaggi promozionali? Capito il punto? È veramente tutto perduto o sta lì lì per esalare l’ultimo respiro?
Cosa deve fare allora un critico? Non avere paura. Non temere lo strapotere del mercato. Rinnovare il proprio bagaglio novecentesco composto di “avanguardia”, “tradizione”, “sperimentazione linguistica”, etc… Staccarsi dalla bombola dell’ossigeno del proprio rinoscimento accademico (ma qualcuno di voi legge mai le riviste dei contemporaneisti delle università italiane? Sembrano che vivano isolati dal nostro pianeta surriscaldato, dentro in una specie di bolla, tra le pagine di Fahrenheit 451). Rendersi conto di essere impigliato nel modo più stretto al paradosso di Russell e agire come Alessandro di fronte al nodo di Gordio. Spezzare. Liberarsi. La critica sta morendo per una infame gestione delle risorse culturali in Italia? Invece di lasciarsi andare a geremiadi, denunciare. Ma prima di tutto, se stessi. Esporsi. Dichiarare i propri piccoli eccessi di potere. Non cercare una scialuppa, ma lottare modello Achab contro la balena del disastro universitario (orrenda metafora, ok). Mostrare quei compromessi che in ogni ambiente dove si esercita una professione culturale si è costretti ad accettare, ma soprattutto a riproporre: il berlusconismo che è in noi. Ammettere il proprio ritardo di comprensione, ribilanciare la propria esibizione di disinteresse rispetto a quegli agenti formativi come la fiction televisiva, il mondo della pubblicità, i best-seller, la televisione generalista-e-non che hanno trovato, a scapito certo anche dei dibattiti culturali e dell’elitarismo delle terze pagine, la propria legittimazione. Rendersi credibili. Cercare famelicamente la vivacità di nuove discipline: il “decennio d’oro” – come lo chiama Mordenti -, quello tra il 1962 e il 1972 fu un periodo d’oro dal punto di vista intellettuale in Italia perché finalmente si creavano prospettive multidisciplinari, il discorso filosofico si intrecciava con quello semiotico, con la psicanalisi, con l’antropologia. E oggi: quali sono i campi di studio che ci servono per tracciare nuovi paradigmi, nuovi dispositivi interpretativi?

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127 Commenti

  1. Uff…

    Non trovo differenze di sostanza tra questo pezzo e quello di Pedullà apparso sabato scorso su “Alias”, e al limite neanche tra questi e molti altri apparsi nel medesimo dibattito dello stesso settimanale: come siete tutti compiaciuti nel vostro intellettualismo, ben foderato dalla coscienza mai ammessa della vostra ineluttabile epigonalità! E angustamente provinciali, italianucci che non siete altro! Esiste tutto un mondo fuori dai vostri confini – o continuerete a ignorarlo, eccezion fatta per i vostri vati nord-americani? Et sempiter deficitari, poi, o come altrimenti si può giudicare una definizione come questa:

    per “critica letteraria” si deve intendere un’importante sineddoche della militanza culturale, dell’impegno politico che ognuno deve mettere nell’agire lo spazio pubblico.

    Eccola qui, la solita solfa dell’impegno e basta, ma in un remix dogmatizzato (“si deve intendere“) e gergalizzato (un transitivo alla moda ma di per sé insensato come “agire lo spazio pubblico”) secondo il peggior costume intellettualoide dei nostri giorni.
    Dov’è mai, in tutto questo, il senso del valore letterario dei testi? Dove la coscienza che solo attraverso questo e la sua mediazione da parte della critica è possibile una ricaduta politica della letteratura? Mentre in questo stesso blog avete di tanto in tanto un esempio di grande critica letteraria internazionale, affrancata dal vostro provincialismo e dai vostri asfittici pavoneggiamenti, com’è quello di Massimo Rizzante – o siete anche ciechi? O sordi? O peggio, invidiosi dei vostri stessi compagni di strada? Altrimenti perché nessuno ne parla come di un esempio di critica viva? Altroché agonia…

  2. Bene Raimo, il discorso fila.
    e in effetti i rischi di autoreferenzialità di tutti questi dibattiti intermittenti degli ultimi anni li eviti secondo me anche solo con il titolo del post. perchè, a voler essere cinici e spietati, cioè realisti e lucidi, quanti sono, quanti siamo quelli che vivono di libri e di scritture e che fanno poi, in qualche modo, dell’attività critica, non (solo) creativa, non (solo) bellettristica ? (sempre, ben inteso, partendo dai testi e, se ci si riesce, guardando per bene in casa nostra e dopo, solo dopo, o durante, guardare anche lì fuori, caro mons. amedeo grab).

    quanti davvero riescono seriamente a integrare nel proprio lavoro quotidiano la sfera degli interesse letterari e quella del ‘mondo di fuori’, il peso plurale, polimorfo delle questioni del reale?
    con tutti i compromessi del caso, dici bene: chi galleggia, chi s’incardina inopinatamente all’università (e fa, si fa per dire, il ‘contemporaneista’); chi appartiene alle consorterie o a ben agguerrite scuderie editoriali-critiche-culturali (le ‘comunità’, i gruppi di potere, simpatici o antipatici, più o meno ‘mafiosi’, di cui si parlava su ‘alias’); chi è un cane senza guinzaglio o invisibile o semplicemente pigro. chi ci crede davvero, al lavoro critico che sia lavoro intellettuale, cioè politico; chi ipocritamente (e come in una inoffensiva schizofrenia) è intellettuale o intellettualino ‘contro’, ma poi non mette in pratica nè nello studio, nè nell’umanità dei comportamenti, nemmeno in ciò che produce come scrittura, il portato politico del proprio lavoro di cui invece si riempie la bocca.

    e quindi, concludendo, a parte gli interessanti aspetti della questione tutta corporativa (quella dello stato di salute e delle prospettive di una ‘nuova’ critica, se davvero si volesse partire da qui per andare un po’ più lontano), resta il nodo dei ‘poteri’, del nostro rapporto, caso per caso, con i ricatti, le invidie, i sospetti, le scorciatoie, le diffidenze, le posture, le dinamiche dei poteri.
    per fare di una comunità critica la palestra o il laboratorio di un’idea e di una pratica autenticamente diverse di società, il punto d’inizio sarebbe proprio questo. iniziare a praticare (non solo teorizzare) dinamiche di incontro e di collaborazione realmente alternative. che ne dici tu, c. raimo? (vale per un giornale, una rivista, un dipartimento, un corridoio d’università, un blog, un salotto).

  3. Caro Raimo, Mr Russel è anche colui che mette su i Principia Mathematica pensando di aver posto la parola fine ai problemucci della teoria degli insiemi e robaccia logica varia. E venne Kurt Goedel.
    Quel che non ho capito e se: KG = silvio B., ma non penso che Kurt si meriti queste offese oppure se auspichi un KG che tronchi definitivamente il sistema che regge il paradosso del critico. Probabilmente la seconda. Però, ecco, ultimamente, i grandi scossoni, quelli che fanno davvero male (Nietzsche, Wittgenstein) arrivano da gente che non è propriamente del campo che verrà divelto… Ma allora, diamine!, ci serve davvero Goedel! :)

  4. In “casa nostra”, Torraca? Da qui proviene il solo esempio che ho fatto: Rizzante appunto. Ne vuole un altro? Lo faccia lei, che ha l’aria di intendersene più di me. E un terzo poi venga da altri, e così via – sempre che ve ne siano, s’intende.
    Nel frattempo, all’ultima, ragionevole domanda del dott. Raimo propongo la seguente risposta interrogativa: la biologia? Le neuroscienze? Di qui alcune ipotesi per una nuova ermeneutica letteraria:

    Biologia del romanzo.

    Le narrazioni specchio.

    La licenza creative commons però poi la voglio io, eh?

  5. (E poi scusi tanto, dott. Raimo, ma postare un testo del genere appena due post dopo il ben nutrito n° 3 di “Per una critica futura”..:-/

  6. Raimo avrà scritto il suo pezzo autonomamente da quelli che sono poi comparsi qui, come puo’ accaddere spesso in un blog, che non è una rivista preparata “assieme” dai redattori. Quindi non ci vedo un intento di ignorare, ma semmai di mettere in comunicazione la sua riflessione, con pezzi come quello di Rizzante e come la mia segnalazione di “Per una critica futura”.

    In ogni caso, un paio di cose le vorrei dire: l'”Atelier du roman”, pur non essendo una rivista italiana, ha mostrato senz’altro che c’è una via feconda, sempre viva, di praticare la critica. L’amico Massimo Rizzante riassume questa via parlando della “critica degli autori”. Ed è certo una buona sintesi. L’esempio, molto più modesto, e appena nato, di “Per una critica futura” va in questa direzione. Ossia mostra che, nell’ambito della poesia, gli autori continuano a loro modo a fare critica. E hanno esigenza e voglia di farla. “Per una critica futura” per altro, pur avendo una propria prospettiva determinata, non fa che raccogliere quello che si crea in contesti diversi (blog, dialoghi via mail, ecc.).

    Se il lamento della morte dela critica, è un genere, lo è come quello sulla morte del romanzo, della poesia, della famiglia, delle stagioni, ecc. Solo che i lamenti vanno alternati, senno’ ci si annoia. E forse sarebbe più utile parlare di metamorfosi della critica, del romanzo, ecc.

    Quanto a Steven Johnson, già a fine dicembre Wu Ming lo citava come riferimento fondamentale; e il discorso era un po’, “vecchi parrucconi rincoglioniti nelle accademie, tenetevi Adorno, che noi navighiamo con Johnson”.
    Io l’ho pure acquistato questo Johnson e me lo voglio proprio leggere. Ma con il bisturi. Prima di buttare via Adorno, voglio sapere cosa mi metto sotto i denti.

  7. adorno insieme a questo johnson, non al posto di (è rizzante, mi pare, che parla del passato e della tradizione non come ingombro da scacciare, ma come risorsa sempre viva, da ravvivare). complimenti, inglese, per l’editoriale del nuovo numero.

  8. La lapide di Steiner dice bene. Credo che la stagione in cui critica e mercato dell’arte potevano sostenersi a vicenda sia finita. Il mercato promuove attraverso la spettacolarizzazione dei temi o dell’autore come personaggio, e fa a meno di una chiosa che rappresenta un livello superiore di lettura, rispetto al consumo puro e semplice. Il potere promozionale o stroncante della critica ha valore solo per chi ne riconosce l’autorità, quindi per un pubblico colto o addirittura di addetti ai lavori, che non è quello capace di orientare le scelte editoriali. Rimarrebbe la capacità ermeneutica, di svelare livelli di lettura e significati dell’opera, e questo non è certo esercizio sterile, ma il suo luogo appropriato è quello dell’approfondimento: parla allo studioso, non al lettore.
    Più che di un malaugurato divorzio, parlerei della fine di un equivoco, nato ai tempi dell’educazione letteraria della borghesia, e destinato a sciogliersi nel momento in cui la persuasione e la retorica hanno perso il loro fascino rispetto alla pura ostentazione del desiderio e del potere.

  9. Maldestramente, mi concentro su un solo punto.
    “Dove per “critica letteraria” si deve intendere un’importante sineddoche della militanza culturale, dell’impegno politico che ognuno deve mettere nell’agire lo spazio pubblico.”
    Questa affermazione andrebbe dipanata, “spacchettata” come si usa dire.
    Il concetto di critica (di qualsiasi disciplina si tratti) mi sembra il centro del problema.
    Quindi occorrerebbe una certa precisione, almeno quanta Raimo ne ha messa nell’esposizione del paradosso di Russell (senza poi spiegare bene come ne intende l’applicazione alla situazione attuale).
    Il concetto di “critica militante” non è recente e non è ovvio.
    Militanza significa anche appartenenza: di chi? a cosa? per cosa?
    L’attività critica sembra abbia a che fare molto da vicino col concetto di valore, punta alla costruzione di un sistema di valori condivisibili e alla sua affermazione nella società, letteraria e non.
    La critica militante riferisce l’esercizio della lettura critica ad un sistema pre-costituito, all’idea (funzionale, artistica, ma anche ideologica, politica) metti di letteratura, di architettura, di cinema, eccetera, che ritiene si debba perseguire e sulla base della quale stabilisce il valore dell’opera in esame.
    Si pensi al dibattito post bellico tutto interno all’arte italiana (e in questo senso provinciale) tra i sostenitori di una funzione della pittura “presso le masse” e i nuovi adepti dell’informale: lì era in questione il valore dell’arte intesa come veicolo di qualcos’altro oppure no.
    Nella definizione di critica data da Raimo potrebbe annidarsi una concezione simile?
    In caso affermativo occorrerebbe conoscere quale funzione Raimo pensa oggi di affidare all’arte della parola scritta, o all’arte tout court.

  10. “L’attività critica sembra abbia a che fare molto da vicino col concetto di valore, punta alla costruzione di un sistema di valori condivisibili e alla sua affermazione nella società, letteraria e non”.
    Concordo, ma dopo aver fatto la precisazione che segue: questa attività è in primis dell’uomo non di genere, quindi dello scrittore o dell’architetto o del pittore ecc. ecc. In mancanza di essa, e chiedo pure a Raimo, quale nesso e prosecuzione, o meglio fondazione?

  11. Ci si sta chiedendo se la critica paraletteraria abbia ancora valore di scambio e valore d’uso? La risposta? No.

  12. La sineddoche non la vedo (nonostante il suggerimento esplicito di Raimo).

    Non condivido troppo questo pensiero: “Può un critico, con gli strumenti linguistici, concettuali che si è formato nel pieno del Novecento, nel momento in cui l’esistenza, il valore della critica non faceva problema, riuscire a sbrogliare questo paradosso mortale in cui lui stesso è avvinto”

    Mi pare, a dir la verità, che “facesse problema eccome”, nel corso del Novecento (a partire dal confronto con diversi paradigmi, come quello crociano, ad esempio).

    A me non sembra che la critica si tiri fuori dal mondo che “critica”, semmai che l’oggetto criticato non sia mai troppo chiaro, se non quando si drizza l’indice contro l’ideologia-caricatura di un mercato antropomorfo (ma Berlusconi o chi per lui è un bersaglio facile, e nella grazia generica con cui incarna decine di luoghi comuni è persino troppo vago…come bersaglio). Giusto ma sterile.

    (ci sono naturalemente delle eccezioni, ma non sembra che qui si parli delle eccezioni)

  13. Ciao, Carla. Sì, si può dire che siamo d’accordo.
    Tu sei Artemisia? Finalmente ho trovato la mia fatina! Verde.

  14. @carla bariffi
    “purché abbia le palle!”
    se ci pensi, ti viene in mente un modo diverso, cioè con parole diverse da quelle che hai usato, di esprimere il concetto di cui sopra?
    non trovi che quando si parla di degradazione televisiva del linguaggio si intende anche l’uso generalizzato di espressioni come “avere le palle”?
    non trovi che sia anche questo “il berlusconi che è in noi”?

  15. Tash, buongiorno!
    ma che “berlusconi che è in noi” !

    era per rendere meglio il concetto no!
    il critico, per essere tale, deve essere in grado di assumersi tutta la responsabilità di quello che dice, la critica deve essere sincera, e per essere sinceri ci vogliono le palle.

    au revoire

  16. tre cose.
    1) le termopili non sono state affatto “un’ultima battaglia”.
    2) non capisco proprio l’analogia col paradosso delle classi di russell. non vorrei facesse parte della mania di far paragoni con la logica matematica, in un tentativo di “chiarificazione” che invece porta all’opposto.
    3) mi sembra tutto “okay, ma in modo ovvio”, come disse una volta bill burroughs parlando di clellon holmes. insomma, banale.

  17. Più ovaie e meno palle!

    Il pezzo di Raimo più che banale è naïf e scrive un sacco di palle. Istituzionalizzate. Ma aspetto uno stimolo per eventualmente argomentare. Dipende dallo stimolo.

  18. Caro Morgillo, io credo che non la critica letteraria o para, o l’autore abbia valore di scambio o d’uso. Mi chiedo, confortato dai commenti di questo colonnetto, quale valore abbiate voi, così pingui di livore, così snob, così assenti, così fatti nulla. E così sia.

  19. Uffa.
    La critica è morta.
    La letteratura è morta.
    Tutto è morto.
    Tutti sono morti.
    Ma allora perché tutti scrivono di roba morta?

    Ve lo dico: siamo tutti dei necrofili.
    Ma c’era bisogno di tutto questo pezzo per dire che in fondo in fondo D’Orrico e buono e chi gli dà contro invece no?

    Vedremo quando morirà la morte e quando in necroflili dichiarati e latenti.

  20. Evidentemente scrivo male, mi spiego male, perché le intenzioni del mio discorso non arrivano. le pagine sulla crisi/morte della critica, dicevo, sono sempre di più. a parte il vezzo o il senso di responsabilità di porre in termini enfatici il problema, il problema c’è. ed è un problema evidente per chi lavora nell’ambito della cultura. e il problema è questo: università, redazioni culturali dei giornali, case editrici – a parte rari casi – sono posti in cui si assiste a una grave crisi economica, che è lo specchio (o la causa) di una crisi di autorevolezza. la soluzione sarebbe semplice in alcuni casi: se il governo desse più fondi alla ricerca o sgravi alle case editrici di ricerca, io dottorando senza borsa o dottorato che torna a vivere da mamma perché non c’è uno straccio di assegno di ricerca possibile, io correttore di bozze part-time a 200 euro al mese, invece di andare all’estero o fare lo stagista al Grande Fratello, metterei a frutto le mie competenze qui. Questo non succede. Chi riesce a fare il proprio lavoro bene, con risultati e con riconoscimento, in ambito culturale in Italia è un privilegiato. In genere le competenze vengono molto svalutate. La reazione a tutto questo è spesso un arroccamento – è un atteggiamento comprensibile -, ma visto che è generalizzato, mette tristezza. I professori universitari si rifugiano nella propria oasi di legittimazione. I redattori delle case editrici inventano progetti poco più che clandestini. In generale si respira un’aria carbonara e di nostalgia – anche questa comprensibile – per l’autorevolezza del lavoro culturale di venti trent’anni fa. Spesso i protagonisti culturali di allora guardano con un’espressione di pena (più o meno sincera) i trentenni che ora dovrebbero essere le menti intraprendenti, le avanguardie diciamo così: non hanno molto da offrirgli. Non sol dell’avvenire, non mangifiche sorti e progressive, ma neanche un minimo sindacale con contributi.

    Poi: ho letto il post di Rizzante e anche il numero di Per una critica futura. E ho riscontrato lo stesso senso di ricerca di comunità. Che mi sembra speculare a un senso di accerchiamento. Mi spiego. Il pezzo di Rizzante, magnifico, va a ribadire il valore dire etico dell’appartenenza al mondo del romanzo, il grande mondo internazionale della letteratura. Si vive male qui, ma c’è un arcipelago, formato dalle grandi narrazioni che continuano a prodursi che vale la pena di abitare. Sono d’accordo: soltanto nell’ultima settimana in libreria sono usciti romanzi-mondo come quello di Marosia Castoldi, quello di Vikram Chandra, quello di Rick Moody, quello di Vincenzo Rabito, quello di Lobo Antunes. Tutto questo, far presente questo è un gran contributo. Ma il mondo della letteratura non può essere anche in questo caso un’oasi, un Mondo 3 popperiano.

    Rispetto a Inglese, Giovenale, Mesa in Per una critica futura, mi verrebbe da replicare: perché ora – come direzione di lavoro adesso – andare ad approfondire il senso dell’armamentario linguistico e concettuale che abbiamo ricevuto in eredità dal Novecento? Che senso ha – ma non è una domanda retorica – ripubblicare un testo come Biografia della poesia di Marzio Pieri (notevole, figuriamoci) se non un’impressione di catecumenismo, di timore nei confronti dell’orribile nuovo che avanza?

  21. @ Andrea Inglese: ma l’adorno da buttare è in particolare quello delle Note per la letteratura o qualcos’altro? E poi, colpa sua se è morto prima dell’ascesa di Silvio e del Grande Fratello? Comunque, ecco, sento un bisogno di Johnson…

  22. Quando Raimo parla di letteratura si riferisce forse al bugiardino che contiene posologia, caratteristiche e indicazioni terapeutiche del farmaco cui è annesso?

  23. @raimo
    Sembra che il discorso dei poteri non interessi. è ingenuo, o posto in maniera ingenua, certo. ma riguarda se vedi bene tutta la rete di parole e di concetti che anche tu avanzi: comunità, senso del lavoro critico, società, accerchiamento, autoreclusione. è un tema se vuoi di sociologia della letteratura o dei processi culturali legati alla lettura e all’attività intellettuale (investe in primo luogo, per esempio, il posto che ci ospita adesso), ma sono parolacce, con il vento che tira, e che tu sembri invece adulare.
    Guarda che il bersaglio secondo me è sbagliato (oltre che ovvio e pleonastico): tra i più seri, non c’è paura o diffidenza a-priori verso il ‘nuovo’ (tv e mutamenti della percezione del reale e compagnia bella), nè nostalgie epigonali verso l’altro ieri.”Guardiamo al passato, e scopriremo il futuro”. Lo diceva giuseppe verdi.
    Il punto è lo scollamento generalizzato, nonostante arcipelaghi o penisole più o meno agguerrite e organizzate, individualità generose e illuminate (il post di rizzante, come il pezzo di inglese, sono veramente notevoli); è la mancanza di una ‘stagione’ nella quale fare battaglie, spostare o impostare l’agenda politica e culturale del paese (non solo per le comunità critiche disperse o logorroiche, ma per la società tutta), per quanto è possibile.
    le stagioni, chiamiamole così, si possono provare a sollecitarle se si riuscisse a ridurre i margini di ambiguità (per esempio nel rapporto di ciascuno con i ‘sistemi’: editoriale, politico, personale e narcissico, eccetera). se si avesse qualche fottuta linea da mettere sul tavolo, come un cerchio di gesso, che accomuni nel metodo e nella ricerca, senza delimitarne il raggio d’azione e di esplorazione.
    e poi, per finire: hai questa fissazione (di vago stampo wuminghiano), almeno qui, per i ‘romanzi-mondo’: ben vengano. ma anche quel trevisan che non ti va giù, a mio parere, fa un lavoro interessante, da seguire (da valorizzare, da sollecitare, da ‘amplificare’ in modo disinteressato: è questo, mi pare, un ufficio possibile di ciò che resta dell’attività critica). per tanti motivi che riguardano la sua scrittura, il rapporto che essa intrattiene con certa tradizione (ma con uno sguardo che violentemente aggredisce e decostruisce questo mondo di oggi), la sua presenza e il suo lavoro tra codici diversi (teatro, cinema, scrittura). ma è antipatico, con quella cadenza veneta di cui non si vergogna, l’ho risentito per radio, mica altri affabulatori che conosciamo (anche se, magari, con la erre moscia). tu, infatti, da critico letterario, l’hai liquidato. questi sono i problemi, altro che la paura del nuovo.

  24. @Torraca
    Matteo Garrone e Vitaliano Trevisan sono ancora amici dopo l’imbarazzante loro Primo amore?

  25. Che bello sarebbe, se il paradosso del barbiere c’entrasse qualcosa.
    Se, questo brutto mondo “in cui il governo non caga i soldi”, fosse un paradosso.

    Russell ha fatto molto di più che ispirare questo post: ha introdotto un problema, serio.
    Che la logica matematica (quello del barbiere è un paradoso del tipo logico/matematico, appunto) non basta; che è necessario determinare un sistema in cui le cose sono cose e le non cose sono non cose – leggere l’arcinoto “Pragmatica della ragione umana” per non sbagliare quando se ne parla.

    Perché Russel l’ha risolto il paradosso, non l’ha creato.

    In sostanza, lamentarsi, vale quel che vale: creare infinitamente di più.

    Vs Anonimo.

  26. io pregherei colui che si firma dott. g.carotenoide di firmarsi col suo vero nome, trattandosi chiaramente di un nickname ispirato al mio nome. grazie a lei e a tutti.

    prof. dr. gerardo carotenuto – specialista in psichiatria.

  27. nella maniera più assoluta, caro dottore. praticamente tutti dovrebbero andare in analisi. a lei consiglio – ovviamente dietro prescrizione medica – un ciclo di cadaverilene malmostato 0,50 mg 3 compresse al dia. oppure può scrivermi carotene@hotmail.it e le darò un appuntamento nel mio studio di perugia. vari scrittori, tra cui il dottor francesco forlani, il dottor andrea raos, il dottor gianni biondillo e il dottor francesco marotta si sono rivolti a me avendone grande giovamento.

  28. Quando i trentenni la smetteranno di sentirsi giovani avanguardisti forse avremo risolto il problema.

  29. @ The O.C.
    quanti anni bisogna avere per sentirsi giovani avanguardisti?
    che poi sia antistorico fare gli avanguardisti del secolo scorso per sentirsi “contemporanei” potrei essere d’accordo, però, ecco, chi può ambire a essere “avanguardista-oggi”?
    p.s: se hai un termine meglio di “avanguardista-oggi” o “contemporaneo” o “critico-vivente-non-grandefratellizzante” ben venga, questi non piacciono neanche a me… dobbiamo essere degli “Iperione capovolti”?

  30. Ma che c’entra Russell in tutto questo per dire che D’Orrico è un buono in fondo in fondo?

    Mi devo ripetere.
    Fate conto che sia un mantra.

    Siamo tutti dei necrofili.
    Ma c’era bisogno di tutto questo pezzo per dire che in fondo in fondo D’Orrico è buono e chi gli dà contro invece no?

    Russell continuo a non capire cosa c’entri in tutta questa tirata per la morte.

    Amen.

    Tutti insieme: A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n A-m-e-n

  31. Io Marx l’ho letto poco e male, ma mi sembra che, semplificando e forse fraintendendo, Raimo affronti più che altro un problema di “struttura”, di rapporti economici e di potere, il quale non è affatto in contraddizione con le questioni di “sovrastruttura”, già culturali insomma, e nella fattispecie estetiche e letterarie, che Rizzante da un lato e i poeti di “Per una critica futura” dall’altro mostrano di saper di nuovo elevare al di sopra della necrofilia e della decadenza di certi dibattiti odierni. Solo che appunto il testo di Raimo, in questo senso, sembra ancora infrattato in quella decadenza. Il dato di fatto, tuttavia, è che la presenza del problema strutturale non impedisce l’eccellente trattazione delle questioni critiche. Voglio dire che, malgrado il loro scarso potere, il riconoscimento magari insufficiente da parte dei geronti che reggono le fila della cultura d’establishment italiana e il precariato perfino economico in cui alcuni di loro ancora sono costretti, la loro critica, quella di un Rizzante, di un Inglese, di un Mesa, esiste, si fa – che è come dire: in Italia esiste eccome una critica letteraria di qualità, solo che viene praticata lontano dalla grande massa dei lettori – come del resto è sempre stato, fino a prima che s’inventassero le collane economiche. O mi sbaglio? E se non mi sbaglio, dov’è il problema? Nella non-esistenza di una nuova critica letteraria di valore o piuttosto nel mal celato rimpianto perché questa critica non ottiene il potere, il riconoscimento e l’autorevolezza a cui forse ambisce?

  32. non capisco perché tutti quanti continuano
    insistentemente a chiamarmi Letteratura
    (coro) Letteratura è uscita e a casa non c’è
    è scoppiata sparita non sta più con me

    non capisco perché tutti quanti continuano
    stramaledettamente a chiamarmi Letteratura…
    (coro) Letteratura era una non cercarla quaggiù
    se c’è stata è cascata spappolata nel blu

    Let-te-ra-tu-ra

  33. Christian, sono d’accordo con te sul fatto che i llavoro intellettuale non sia gratificato. Sul fatto che questo vada risolto con un intervento statale, LOL! Si tratterebbe solo di aggiungere mafietta a mafietta. I finanziamenti al cinema italiano – e alle logiche della ricerca universitaria umanistica – lo dimostrano ampiamente. Purtroppo, siamo un paese mal educato negli ultimi trent’anni almeno, e finché il nodo civile e politico dell’educazione non verrà affrontato in un modo serio e non “di parrocchia”, la possibilità dei nostri talenti (ammesso che ve ne siano) di venir riconosciuti dagli italiani o almeno da una buona maggioranza sarà infima. Faccio un controesempio: nel mondo del teatro, dove i finanziamenti comunque scarseggiano, negli ultimi anni sono riusciti a emergere anche con un discreto successo televisivo Ascanio Celestini e Marco Paolini, narratori di prim’ordine di questo paese e delle sue vicende. Perché hanno saputo costruirsi contemporaneamente una voce e un pubblico, con forza e lentezza, senza volersi a tutti i costi imporre come “fenomeni”. Sono, secondo me, la via italiana al great american novel (A proposito, l’Italia ha un premio Nobel per la letteratura che diffida dalla parola scritta. Quantomeno indicativo). Forse sono loro i passeurs capaci di giocare a bocce sopravvissuti alla desertificazione dell’editoria e dell’università di cui parla Rizzante, e che riescono a rompere il doppio accerchiamento di cui parli tu?

  34. Egregio dott. Carotenuto, non tema. Sono un Carotenoide, di razza diversa. Ma la stimo ugualmente.
    Per quato riguarda ciò che dice Raimo, invece, penso che debba tener presente quanto scrive Torraca: “le stagioni, chiamiamole così, si possono provare a sollecitarle se si riuscissero a ridurre i margini di ambiguità (per esempio nel rapporto di ciascuno con i ’sistemi’: editoriale, politico, personale e narcissico, eccetera). se si avesse qualche linea da mettere sul tavolo”.
    Raimo parla di ripiegamento sul passato, di mitografie. Io mi chiedo quanto lui stesso si sia dovuto allargare per entrare.Ovverossia quanto contino al di là del valore e quanta importanza abbiano i referenti. Certo che le comunità sono spappolate. Si cerca la visibilità, il palco, si lavora da primedonne, umiltà inesistente. una volta che lo scrittore viene spettacolarizzato, quali linee, quali valori cercare, se non quelli dell’intrattenimento?

  35. Nella discussione, diverse questioni importanti si sono intrecciate. Una è questa, segnalata da Raimo:
    “il problema è questo: università, redazioni culturali dei giornali, case editrici – a parte rari casi – sono posti in cui si assiste a una grave crisi economica, che è lo specchio (o la causa) di una crisi di autorevolezza. la soluzione sarebbe semplice in alcuni casi: se il governo desse più fondi alla ricerca o sgravi alle case editrici di ricerca”

    Mi fermo qui. Il punto non è secondario. In Francia, e prima o poi io, Raos o qualcun altro dovrebbe scrivere di questo, esiste uno spazio editoriale autorevole per un certo tipo di scrittura che in Italia non puo’ neppure esistere per questioni fondamentalmente economiche. Le sovvenzioni statali permettono a certe forme di scrittura non immediatamente redditizie sul piano delle vendite di continuare ad esistere, quindi di essere praticate. Un esempio lampante di questo è il catalogo della prestigiosa casa editrice P.O.L. Naturalmente la crisi sta toccando anche il funzionamento francese.

    Ora non bisogna equivocare questo discorso. Non sto dicendo che senza sostegno istituzionale non si possa fare nulla. E un esempio, in piccolo, è una rivista on line come “Per una critica futura” e più in generale molto di quanto circola nei migliori blog letterari.
    Infatti ei fu scrive:
    “in Italia esiste eccome una critica letteraria di qualità, solo che viene praticata lontano dalla grande massa dei lettori – come del resto è sempre stato, fino a prima che s’inventassero le collane economiche. O mi sbaglio? E se non mi sbaglio, dov’è il problema?”
    Ora un problema rimane. E in questo convengo con Raimo: un buon lavoro di critica letteraria potrebbe essere riconosciuto negli ambiti istituzionali, universitari ad esempio, andando a forare quella “bolla” in cui sono spesso arroccati i titolari del discorso e dei saperi sulla letteratura. Con una ricaduta su tutti coloro che frequentano l’università e cercano, sempre più difficilmente, di mettere in contatto le loro esperienze ordinarie e quotidiane con una sapere monumentale e impagliato.

  36. il punto cruciale è che dietro tutto questo c’è una letteratura fresca e nuova che sta crescendo e che se ne impippa dei critici, degli editor e del commercio all’ingrosso. La rivoluzione è appena cominciata, per cui tutto questo discorso…

  37. @ andrea inglese
    Scrivi che un certo tipo di scrittura in Italia non può esistere per problemi di bilancio. Palle. In Italia un certo tipo di scrittura non deve esistere per questioni ideologiche. Fantasmi.

  38. …una letteratura che non guarda la proprie parole dall’alto finendo con lo sguardo sulle scarpe di gucci. Una letteratura che sta sotto le proprie parole e che guardando in su vede il cielo. Maramao.

  39. a raimo
    “perché ora – come direzione di lavoro adesso – andare ad approfondire il senso dell’armamentario linguistico e concettuale che abbiamo ricevuto in eredità dal Novecento? Che senso ha – ma non è una domanda retorica – ripubblicare un testo come Biografia della poesia di Marzio Pieri (notevole, figuriamoci) se non un’impressione di catecumenismo, di timore nei confronti dell’orribile nuovo che avanza?”

    Non parlo del libro di Pieri, perché lo conosco poco. A me interessava il discorso che Mesa fa, presentando quel libro. Quanto al resto, posso dire questo: c’è chi ancora, superstiziosamente, crede che l’essere scrittore, poeta o romanziere, implichi una specie di cieco istinto, che impedisca qualsiasi riflessione sul proprio o l’altrui lavoro. Questa riflessione si chiama “critica degli autori”, ed ha accompagnato sistematicamente l’invenzione letteraria del Novecento fino a noi.
    Quindi il nostro riflettere su un certo armamentario concettuale novecentesco nasce dal nostro fare, oggi, in quanto poeti. In Francia, una delle più interessanti riviste di poesia apparse recentemente, Java, ha fatto questo stesso lavoro di revisione critica dell’avanguardia intorno agli anni Novanta. E in concomitanza con una forte stagione creativa, che vedeva nuovi autori e nuove scritture emergere.

    Ma il problema non è trovare rifugio di fronte “all’orribile nuovo che avanza”. Anche perché, magari per presuonzione, io mi sento parte di questo nuovo. A meno che tu non dica apertamente, quello che molti illustri opinionisti letterari (critici o giornalisti o quello che volete voi) non dicono: ossia “la poesia” è roba morta, la poesia non c’entra più con la letteratura, la poesia NON ne parliamo per presupposto. E allora va bene: ma diteci perché. Spiegateci perché siamo morti, noi che invece abbiamo l’impressione di respirare.

    E seconda cosa: perché dovremmo trovarci vergini, del tutto privi di categorie e criteri, di fronte al nuovo? E dover pensare che le neuroscienze di Johnson automaticamente rendono obsolete categorie sociologiche e antropologiche o di quello che una volta si definiva pensiero critico? (Ma non mi pronuncio su Johnson. Sarà utile “anche” lui.)
    Io penso che sia del tutto naturale vedere quanto dell’armamentario concettuale del Novecento ci è ancora utile. Il che implica una verifica dei saperi molto critica, e per nulla conservatrice o difensiva.

  40. La crisi economica, per un’azienda, c’è se un prodotto non vende. Se non vende, vuol dire che non interessa e non viene comperato. Quindi, perché un prodotto non ha (non va incontro al suo/non crea il suo) pubblico. E la competenza merantile dell’editore, sotto sotto, non guasta mica, anzi. Altro esempio extraletterario: pur con alti e bassi, Dylan Dog riesce a sviluppare una sua poetica E a creare un pubblico, mentre gli scrittori-sul-palco no, dobbiamo per forza parlare di crisi della letteratura in generale o di un’incapacità degli scrittori di usare il medium che eleggono in modo davvero innovativo ed efficace?

  41. @ andrea inglese

    Se c’è il problema che dici tu: che ci si batta dunque, solidalmente, affinché queste nuove voci critiche vengano pubblicate (xes. qualcosa di Rizzante, che io sappia, è in corso di stampa, mentre degli altri buoni “militanti” saprete meglio voi), foss’anche presso case editrici minori, e a quel punto le si diffonda facendo fronte compatto, anche qui su NI, anche nelle aule universitarie in cui magari si ha accesso solo come contrattisti o dottorandi, portandoli in mano e presentandoli come esempi, modelli, riferimenti: li si legga e si passi parola! Il resto, allora, forse, pian piano verrà… Ma ripeto, secondo me solo facendo fronte compatto in nome di alcuni testi-chiave, e reprimendo in questo processo di “divulgazione” i piccoli arrivismi personali, le competizioni interne, le vanità più deleterie di ciascuno, e tutto questo in nome del futuro reale della letteratura e della critica – solo così, secondo me, si può fare breccia e raggiungere prima o poi i “lettori forti”, i soli che possono dare davvero ascolto a un simile appello. (Credo del resto che anche questo tipo di dinamiche siano sempre state così, prima delle collane economiche. O no?)

  42. Non solo Dylan Dog, ma anche Yves Saint Laurent by Stefano Pilati riesce a sviluppare una sua poetica. Sulle scarpe di Gucci storcerei il naso, se su certi soggetti non facessero la loro porca figura!

  43. Paolo S scrive:
    “La crisi economica, per un’azienda, c’è se un prodotto non vende. Se non vende, vuol dire che non interessa e non viene comperato. Quindi, perché un prodotto non ha (non va incontro al suo/non crea il suo) pubblico.” (Anche il resto andrebbe riportato.)

    Senza volerne a Paolo: questa stessa frase, quasi parola per parola, è ormai legge, vangelo, pensiero unico, dogma culturale, a cui tranne pochi pazzi rinunciano. Ogni volta che si parla di queste cose su NI, almeno tre o quattro diversi commentatori la riformulano con piccole variazioni. Essendo un dogma, non puo’ essere aggredito in poche battute.

    Ma non posso impedirmi di essere blasfemo, seppure di sfuggita.
    Questa sola frase “La crisi economica, per un’azienda, c’è se un prodotto non vende. Se non vende, vuol dire che non interessa e non viene comperato.” Si puo falsificare in vari modi. Oppure dovrebbe essere riformulata in questo modo: “La crisi economica, per un’azienda, c’è se un prodotto VENDE POCO. Se VENDE POCO, vuol dire che interessa A POCHI e lo comprano IN POCHI.” Già a partire da questa corretta riformulazione, ci sarebbe da riflettere.

    Ma sotto sotto il vero dogma è ancora un altro: solo quello che vende SUBITO TANTO VALE, e solo quello che VALE in questo senso ha diritto di esistere.

  44. Andrea, d’accordissimo con la tua versione riformulata, e soprattutto con l’ultimo dogma. Mi rammarico per aver PENSATO oltre che scritto in aziendalese… però insisto sull’incapacità di tante iniziative di raggiungere il pubblico che si meritano. Poche, forse nessuna, sono le opere in grado di raggiungere tutti indistintamente e subito. Quando dico raggiungere il pubblico che si meritano penso a “strategie culturali” (devo proprio citare Wu Ming?) che non siano semplice marketing, che oltretutto, in questi settori lasciano spesso il tempo che trovano.
    Oggi bisogna riuscire a fare opere capaci di “prendere la spiaggia” tra le ondate settimanali delle novità in libreria, che superino lo scoglio dei primi rifornienti e si impongano su enormi magazzini robotizzati. Come si possa fare, nauralmente non lo so…

  45. La critica letteraria, come qualsiasi forma di giudizio di valore – stilistico e contenutistico – ha bisogno di una piattaforma valoriale. Poi degli strumenti per manifestarla al mondo.
    Non è quindi frutto di militanza, Raimo… è frutto di personalità, sensibilità e cultura.
    Tre attributi che nell’Italia degli ultimi 30 anni sono andati precipitosamente svanendo.
    Insieme alla qualità delle nostre scuole, alla meritocrazia nel mondo intellettuale, come in qualsiasi altra sfera. Ed alla libertà di pensiero ed espressione, che nel 2007 significa soprattutto possibilità di accesso ai media, non solo assenza di censura.
    Berlusconi non c’entra una sega. O comunque non più di quanto c’entri Prodi. Due figli degeneri di uno madre degenere, l’Italia, e di un padre ipocrita, il Vaticano. Cugini degli attuali critici, parenti dei traduttori, affini di Moccia e Brizzi.

  46. La critica letteraria, come qualsiasi forma di giudizio di valore – stilistico e contenutistico – ha bisogno di una piattaforma valoriale. Poi degli strumenti per manifestarla adeguatamente al mondo.
    Non è quindi frutto di militanza, Raimo… è frutto di personalità, sensibilità e cultura.
    Tre attributi che nell’Italia degli ultimi 30 anni sono andati precipitosamente svanendo.
    Insieme alla qualità delle nostre scuole, alla meritocrazia nel mondo intellettuale, come in qualsiasi altra sfera. Ed alla libertà di pensiero ed espressione, che nel 2007 significa soprattutto possibilità di accesso ai media, non solo assenza di censura.
    Berlusconi non c’entra una sega. O comunque non più di quanto c’entri Prodi. Due figli degeneri di uno madre degenere, l’Italia, e di un padre ipocrita, il Vaticano. Cugini degli attuali critici, parenti dei traduttori, affini di Moccia e Brizzi.

  47. La critica letteraria, come qualsiasi forma di giudizio di valore – stilistico e contenutistico – ha bisogno di una piattaforma valoriale. Poi degli strumenti per manifestarla adeguatamente al mondo.
    Non è quindi frutto di militanza, Raimo… è frutto di personalità, sensibilità e cultura.
    Tre attributi che nell’Italia degli ultimi 30 anni sono andati precipitosamente svanendo.
    Insieme alla qualità delle nostre scuole, alla meritocrazia nel mondo intellettuale, come in qualsiasi altra sfera. Ed alla libertà di pensiero ed espressione, che nel 2007 significa soprattutto possibilità di accesso ai media, non solo assenza di censura.
    Berlusconi non c’entra una sega. O comunque non più di quanto c’entri Prodi. Due figli degeneri di una madre degenere, l’Italia, e di un padre ipocrita, il Vaticano. Cugini degli attuali critici, parenti dei traduttori, affini di Moccia e Brizzi.

  48. Abateditheleme: mica un uomo, una Trinità.
    Tanto per dimostrare l’emancipazione dal vaticano.
    Rasati, dai.

  49. Vorrei sentire ogni tanto qualcuno (oltre a me) che ammettesse: è colpa nostra. Quando in quel decennio maledetto (sapete quale) abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca, cioè l’autorevolezza della cultura insieme all’autoritarismo del potere. E ancora adesso, quando si idolatra la democrazia come se fosse un valore etico mentre è solo un metodo decisionale in assenza di meglio, e la si spalma sopra ogni questione, anche sulla dimensione artistica che invece è frutto di impegno, valore spirituale e grazia.
    Se volete i critici veri prima bisogna volere vere scuole, se volete finanziamenti statali di merito prima bisogna finirla col sindacalismo degli spiccioli a pioggia per tutti. Se volete il trionfo del valore artistico prima bisogna riconoscerne il carattere non ideologico, cioè sostituire al concetto di impegno (partigiano) il concetto di qualità intrinseca, premiando la quale nessuno debba sentirsi politicamente schierato.
    Ve la sentite, intellettuali progressisti?

  50. caro il mio Binaghi, ‘il sindacalismo degli spiccioli a pioggia per tutti’ è una conquista di classe, un autentico valore fondante, un discrimine assoluto. Lei ha un po’ le movenze del crumiro, se lo lasci dire.

  51. OT a questo articolo, con i commenti, io sono arrivata solo attraverso vibrisse, ché su google la pagina di NI mi si apre sempre a una settimana fa. Scusate, scusa raimo, se lo scrivo qui.

  52. @ Walter Binaghi

    Esatto. Proprio così.

    @ Barbiere

    Mi rasi lei, così facciamo contento Raimo.

    @ Per tutti

    Non so se capita anche a voi, ma mi viene impedito di lasciare commenti su “Vibrisse”, da cui provenivo, sotto le mentite spoglie di Lufock Holmes, (uno e bino, Barbiere) :)
    Me ne sono accorto ora, mentre postavo questo commento, in merito alla chiusura improvvisa del medesimo sito… ma mi sa che per me è finito anche prima :
    ______________________________________________________

    @ Iannozzi
    Grazie per l’invito, fammi sapere dove, come, quando e perchè.

    @ Minotti
    Ripeto che le uniche migliorie apportabili sono di carattere erotico ed antiproibizionistico. Per il resto va tutto bene. Anche il Sasso nello stagno .)

    @ Sasso Non conosci Mozzi come uomo??? E in che veste lo conosci??? Non è che vibrisse chiude per schiudere a Pacs o Dico? :))

    Sopperiamo infine alle carenze cognitive su Mozzi in quanto uomo. Nato a Caltanissetta, Alto più di due metri, tipicamente ariano, capelli biondissimi e ricci, magrissimo, sempre elegantissimo (famosi i suoi doppiopetto Caraceni e le cravatta Hermes, con logo GM disegnato per lui dalla nota maison). Pare sia poligamo e superdotato…forse chiedendo a Sasso ogni incertezza in merito sarà risolta. Vale et ego.

  53. E pensare che avevo appena postato : ” Svaniti insieme […] alla libertà di pensiero ed espressione, che nel 2007 significa soprattutto possibilità di accesso ai media, non solo assenza di censura.”

    Un secondo dopo, Zac, censurato! Che tempismo. Che Italia.

  54. si pubblica tanta narrativa, di più, come non mai.
    perché?
    non lo so. ma si pubblica. eccome se si pubblica.

    allora il critico potrebbe aiutare il lettore curioso a orientarsi.
    quindi oggi più che mai il critico potrebbe
    fare un lavoro utile.

    forse deve semplicemente completare la
    sua conversione al web.

    è lì che chi vuole leggere sempre più spesso cerca le critiche
    o almeno un parere.

    il critico che continua a darsi un tono con la carta invece
    putroppo è moribondo.

  55. “‘il sindacalismo degli spiccioli a pioggia per tutti’ è una conquista di classe, un autentico valore fondante”. Eccoli, i fondamenti della nullafacenza.

  56. Dalle mie parti quando si tocca il culo alla gallina è per vedere se c’è l’uovo, questa discussione invece pare già finita e tutti sono contenti. Solo per toccare il culo alla gallina, era, la discussione, e dell’uomo non importa. Allora ditelo che la vostra reazione è solo perché tutto rimanga come prima. Ditelo che fate discussione per reazione al nuovo Movimento di Letteratura Popolare. Che state a criticatere per finta. Allora ditelo che fate reazione al nuovo che avanza. Ciò che arriverà sarà bellissimo. Lo sapete.

  57. O kristian, mente proletaria, la terza volta che mi chiami crumiro (ma un dizionario dei sinonimi lo possiedi, o anche il dizionario è di destra?) metti pure nome e indirizzo, così ci prendiamo meglio.

  58. @Binaghi: sei tanto pieno di spirito e te la prendi per un motto (anche se la frase che ho virgolettato, per quel che riguarda la mia esperienza lavorativa quasi ventennale, è vergognosa). dai, vieni a casa mia, biscotto! (quello della Bistefani).

  59. prima di tutto il berlusconismo che è in tutti noi è frase che le contesto, secondo io mi faccio i peli da sola e mai poi mai andrei a fare i peli degli altri, a meno che non me lo chiedono di fargli il pelo e se uno non sa o vuole farsi il pelo può significare diverse cose:
    sei focomelico
    non hai imparato ma se ti rado io non imparerai mai
    sei “timido”
    non ti è mai cresciuta la barba
    ti piace tenerti la tua barba
    dei barbieri me ne scampi iddio
    ………………..
    a scelta.
    io sono autarchica
    per il resto, chissenefrega.
    sono per la comunicazione gestuale visto che la parola, queste parole, non hanno funzionato, mai.
    un bacio senza peli (sulla lingua, intendo)
    la funambola

  60. Avete visto in giro mio cugino, il barbiere di NI?
    Mi ha detto che c’è un lavoro d’inferno qui….

  61. Forse voleva dire che sono cotto due volte.
    Anche tu, tash, che cazzo fai in giro alle 5 del mattino?
    Non abbiamo più l’età….

  62. …La ruvidità della superficie e la struttura porosa, fanno sì che i Krumiri della Colazione superino brillantemente la prova inzuppatura: assorbono la giusta quantità di latte senza sfaldarsi, per un connubio unico di sapori…

  63. Ed è subito letteratura. Assieme al bugiardino dei farmaci, le informazioni al consumatore sono l’unica letteratura oggi in circolazione.

  64. @carla

    qua sì, ma non ho niente da dire, salvo che se la funambola crede nella comunicazione gestuale potrebbe mettere un video.

    Anzi no, vorrei dire questo, discorsi generali come un altro pezzo sulla critica letteraria ormai sanno di stantio, ma qualche discorso critico e articolato su un singolo autore lo vedo sempre bene.

  65. @kristian
    in effetti avevo messo un commento al post su renudo, ma vedo che non è rimasto. Ricordavo l’esproprio proletario dei polli nel festival del ’77, cui ho vergognosamente partecipato, e ti dicevo, insomma “volemosebbene”.
    Nessuno ce l’ha col sindacato: la sindacalizzazione della cultura è altra cosa.

  66. @ Binaghi

    A quanto mi raccontano i protagonisti, Renudo è stato un grande momento di libertà, almeno fino ad un certo punto.

    @ Per tutti:

    Ma non ve ne frega una sega che sui siti dove scrivete una persona possa essere censurata senza uno straccio di motivazione?
    Ripeto che da ieri non posso più scrivere su “Vibrissebollettino”, mi da il messaggio : “You are not allowed to”.
    Non vorrei distrarre le vostre graziose menti intente ai funambolismi letterari più prestigiosi, ma a me pare una cosa grave.
    Fossimo su di un sito inglese ci sarebbe già bagarre e voi non vi cagate il mio post???
    Anche perchè non ho detto nulla di trascendentale nè di offensivo per nessuno, come potreste costatare facilmente.

    Ero appena arrivato ed a me frega punto o nulla di scriverci due commentini su…però è la scelta censorio, da tipico media italiano, che spiace ritrovare anche su pagine dedicate alla letteratura.
    Ora domando a voi se non sia il caso, in pirmo luogo, di abbandonare l’atteggiamento, da racconto di Buzzati, per cui mentre la nave affonda ci si domanda se qualcuno ha lavato il ponte e si guarda con occhi stralunati chi cala le scialuppe.
    In secondo luogo di chiedere ragione su quel sito di un fatto così fuori luogo come la censura, visto che io non posso più farlo.

    Intanto domando a Mozzi, da qui, se si tratta invece di un errore. Se è invece una scelta deliberata, abbia almeno la decenza di giustificarla.

    Infine chiedo scusa a Raimo per l’indebito uso di questo spazio, conscio però del fatto che, alla fin fine, il mio problema non sia poi tanto lontano dal topic del suo pezzo.

  67. @ Holmes
    Conoscendo Mozzi, penserei a un errore più che a censura.
    Guarda che qualche volta su Vibrisse anch’io ho avuto problemi tecnici di accesso. Il problema è che Giulio probabilmente è in viaggio e non sa di questa cosa.

  68. @ Binaghi

    Ok, stoppo subito la polemica, allora. Diamo tempo al tempo. Vorrei proprio fosse un errore, onestamente.
    Ho un pò la sindrome da censura perchè sui giornali capita spesso, apertamente od occultamente.
    Grazie per la risposta pronta.
    Tornando alla discussione impostata da Raimo, credo che in effetti il problema della critica non sia altro che una delle facce del prisma un pò illusorio in cui viviamo.
    In un precedente intervento parlavo di valori estetici e contenutistici, di personalità e sensibilità, etc .
    Alla fine, viste le cose come stanno, forse potremmo anche accontentarci di un minimo di onestà intellettuale. E quindi comunque non di D’Orrico .)

  69. Sul grande D’Orrico, l’Anna Wintour della pubblicistica nostrana

    In Italia basta ancora così poco per avere potere? Una rubrica settimanale su un inserto che tutti sfogliano ma nessuno legge? Il dramma è che Alias, il supplemento del Manifesto, così colorato, somiglia sempre di più al giornale della Coop. Lo trovo periodicamente nella buca delle lettere. Gratis. Mi scrive anche il prezzo delle alette di pollo.

  70. Ma no, forse Binaghi è un crumino perché continua a inviare segnali di fumo a Nazione Indiana, mentre i suoi compagni invece sono in sciopero.

  71. I miei compagni, cioè quelli con cui mi accompagnavo ai tempi in cui chiamarsi l’un l’altro compagni era un sacramento, sono morti.

  72. “Qualcuno è andato per età, qualcuno perchè già dottore
    e insegue una maturità, si è sposato fa carriera
    ed è una morte un po’ peggiore”
    (Guccini – Stanze di vita quotidiana)

  73. @ Holmes

    Sembra strano anche a me che su Vibrisse ti abbiano censurato: nel qual caso, però, visto ciò che ne pensi, secondo me ne andresti fiero…

    Sulla critica letteraria la penso un po’ come te.
    I critici spesso non sono liberi (politicamente e sono asserviti ai Poteri di vario genere) e utilizzano la Letteratura come un ring su cui dibattere, evidenziare, altre questioni: dai loro precostituiti (e preconfezionati) punti di vista.
    Dimenticando che la Letteratura istituisce e fonda un’ipotesi di realtà/mondo che quando è ottima scrittura si autogiustifica.
    Per cui meglio diffidare dei militanti, di qualsiasi ascendenza politica, perché prostituiscono la Letteratura, piegandola a ragioni di parte.

  74. @ gianluca minotti

    Il testo come pretesto li rende solo gente pretestuosa!

    Ne voglio i diritti d’autore!

  75. A meno che non abbiano censurato Holmes (parente anche di John?), ma il suo alter ego.

    Vs Anonimo

  76. Milan Kundera ad esempio è un ottimo critico letterario.
    Soltanto che non è italiano…

    Chi è il nostro Milan Kundera?

  77. Non credo che l’Italia abbia un Milan Kundera: di quella generazione sono tutti o morti o rincoglioniti, mi pare.
    Tra i più giovani, a me per esempio piaceva molto il primo Magris, quello di “L’anello di Clarisse” e “Itaca e oltre”. E Berardinelli, senza dubbio.
    Tra i quarantenni o giù di lì, non posso che essere d’accordo con mons. Grab, che ha aperto il thread: tra i migliori e più liberi oggi vi sono senz’altro membri di NI come Rizzante o Inglese, o loro compagni di strada dei tempi di “Baldus” come Mesa o Cepollaro; ma forse anche Scurati non è da buttare. Oder?
    In ogni caso, tutti quelli che ho nominato mi sembrano almeno una spanna sopra altri come Belpoliti, Cortellessa o Benedetti. I quali, peraltro, non sono autori-critici, ma critici senza alcuna autorialità. Autorevolezza – fate voi.

  78. Il paradosso di Russel ai tempi del Magazine del Corriere

    Nessuno si può recensire da solo.
    Tutti si devono far recensire da D’Orrico.
    D’Orrico scrive un libro.
    Chi recensisce D’Orrico?

  79. Per esempio (anche se premetto che non so quanto c’entri con questa discussione):
    Stavo giusto vedendo “Otto e mezzo” di Ferrara.
    Ospite Ermanno Olmi con il suo ultimo film, uscito nelle sale oggi, “Centochiodi”.
    Bene, me lo sentivo dall’inizio: tutta la discussione che ne è nata, con cattolici ferventi e praticanti, soltanto in parte riguarda il lungometraggio.
    Il film diventa un pretesto per parlare del cristianesimo oggi, della dottrina cattolica, della chiesa.
    Mi chiedo perché il buon vecchio Olmi si presti a queste pagliacciate: pubblicità?
    Ma perché a parlare di un film non sono mai chiamati i critici cinematografici (esistono ancora)?
    Perché allo stesso modo quando si parla di un libro non si dice mai nulla sullo stile, sulla forma, sulla scrittura.
    Perché ovunque c’è questa “critica” che bada esclusivamente ai “contenuti” perdendo di vista il testo (letterario e/o filmico)?
    Anche questa è democrazia? tutti parlano di tutto non avendone la benché minima facoltà?

  80. Oggi la scrittura non deve fare testo. Deve offrire un pretesto. Ad esempio alle discussioni senza effettivi argomenti di Giuliano Ferrara. Olmi era molto accorato a Otto e Mezzo, ma non si capiva bene di cosa stesse discettando. Forse di botanica. O di fiori di campo. Non mi ricordo degli altri ospiti in studio.

  81. però alessandro morgillo, io mi chiedo: se sono profondamente convinta che, in questo caso, giulano ferrara( é un uomo?) non può “dirmi” nulla, perchè dargli udienza ?
    penso che non siamo in grado di valutare la portata delle nostre scelte,anche le più stupide, quale quella di accendere o spegnere un semplice interruttore che mi apre le porte sul “mondo”
    un mondo virtuale, perchè il nostro mondo è quel piccollissimo microcosmo che ci portiamo appresso anche se ci spostiamo,
    non siamo capaci di valutare, neppure noi, che ci consideriamo più consapevoli, la portata di un semplice gesto che avvallerà e legittimerà ciò che “sentiamo” illegittimo, perchè superfluo, di più, perchè vuoto di ogni “necessità”.
    e questa non necessità diventa necessità di parlarne.
    non ne usciremo mai.
    cioè, perchè ci facciamo del male, siamo masochisti? abbiamo paura di non stare al passo? ma al passo di cosa?
    non so se mi sono capita ma sento che con te posso permettermi di non capirmi tanto bene perchè mi sembri sveglio, ragazzo :)
    bacio
    la funambola

    …poi mi viene da pensare che la scrittura non farà mai testo, come mai l’ha fatto, perchè non avremmo bisogno di scrivere ,se fossimo in grado, di “vivere”

  82. @ Binaghi

    Ore 11.27 .31 Marzo

    Sono ancora impossibilitato a scrivere su vibrisse. Il messaggio “you are not allowed to” continua ad apparire.
    Giulio Mozzi sembra intervenire sul suo sito, non so se sia davvero in viaggio come tu dicevi…
    Potresti domandare, poichè dici di conoscerlo bene, se è stata una scelta deliberata quella di impedirmi la possibilità di intervenire su vibrisse?
    Ripeto, a me interessa relativamente postare, son vissuto senza per anni… al limite potrei farlo da postazione esterna, non credo che riconoscerebbe il mio odore… :) ;
    mi interessa invece includere un altro eventuale atteggiamento censorio nel mio già zeppo breviario di free lance e scrittore peninsulare, un altro eventuale uso arbitrario del potere mediatico. E questo poi dovrebbe interessare a tutti.
    Grazie per la pazienza e perdonatemi il disturbo… credo che però valga la pena di saper qualcosa in merito.
    Vale et ego.

  83. per Lufock: forse potresti provare a firmare, per una volta, con il nome e il cognome autentici (come sto facendo io…). ma poi basta, c’è l’associazione consumatori cui rivolgersi.
    comunque è un giusto epilogo del post, un po’ lasciato andare soprattutto dall’autore, raimo, a meno che i suoi interventi non siano quelli firmati c. r. (va bene che si è occupato per radio dei Monty Python, ma il troppo cazzeggio storpia). eppure, di domande e stimoli ne sono stati rivolti al nostro giovane intellettuale italiano.

  84. Non sono Raimo. Mi vergogno a firmare per esteso perché non ho cultura specifica. Sono uno dei fondatori del nuovo Movimento di Liberazione della Letteratura Popolare.

  85. @Lufock Holmes
    Ho mandato una Mail a Mozzi è mi è arrivata la risposta automatica: è in viaggio. Riprovo domani.

  86. [Fuori tema] Se la persona che si firma “Lufock Holmes” mi avesse scritto direttamente (cosa che non mi risulta abbia fatto, benché il mio indirizzo sia pubblicato in vibrissebollettino e sia comunque di facilissimo reperimento) o mi avesse telefonato (tutti i miei numeri di telefono sono pubblicati in vibrissebollettino) anziché farneticare qui di censure, il problema sarebbe stato risolto prima.
    L’editor di vibrissebollettino ha degli automatismi che servono a contenere lo spam. Di tanto in tanto questi automatismi bloccano l’IP di qualche persona reale.
    Chiedo alla persona che qui si firma “Lufock Holmes” di ritirare qui, pubblicamente, le accuse di comportamento censorio che mi ha scagliate addosso.
    Io mi scuso con lui per quanto avvenuto. Se non sono intervenuto più tempestivamente a sanare l’errore è perché [a] lui non me l’ha segnalato (ha provveduto Valter Binaghi, che ringrazio) [b] sono in viaggio da giorni e giorni e non ho la possibilità di seguire minutamente vibrissebollettino.
    Mi spiace che un problema concenente il sito che curo sia finito qui, dove si parlava di tutt’altro.

  87. LUFOCK HOLMES RITIRA OGNI ACCUSA DI COMPORTAMENTO CENSORIO, O MEGLIO SI SCUSA CON GIULIO MOZZI DI AVER AVANZATO DEI SOSPETTI IN MERITO.
    POICHE’ NON ANCORA PARANOICO DICHIARATO, FA PRESENTE CHE SE TALI SOSPETTI HA AVANZATO NON FU PER ALCUNA PREVENZIONE NEI CONFRONTI DEL MOZZI, MA SOLO PER PREGRESSA CONOSCENZA DIRETTA DI DINAMICHE ILLIBERALI RADICATE NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE ITALIANA.
    INFINE CHIEDO VENIA SIA A NAZIONE INDIANA CHE A RAIMO PER L’USO INAPPROPRIATO DI QUESTO SPAZIO.AUGURANDOMI CON CIO’ DI AVER DATO PIENA ED INTEGRALE SODDISFAZIONE.
    BUONE PALME A TUTTI.

  88. @ Giulio Mozzi

    Il sospetto non era dei più graziosi, ho inteso riparare al meglio.

    @

    Eh si, gli abati maiuscolano eccome… soprattutto se archimandriti come me. :)

  89. Tesoro mio, l’accento sulla E in cahier de doléances, come vedi, non va sulla E di cahier (che già suona poiché è legata alla R) ma sulla prima E di doléances [che peraltro ha una S finale del plurale = taccuino dei dolori, giornale delle sofferenze (poiché da sé quella E non potrebbe suonare legata com’è alla L che la precede con cui forma sillaba)].
    Quanto alla vivacità cadaverica della critica mi permetto di replicare due cose: 1. c’è stata una stagione dei professorini che dura tuttora benché in forma meno vibrante: cosa abbiamo capito, osservando ora the aftermath [(come direbbe a questo punto il nostro magnifico fratellone Ian McEwan), cioè ciò che ne è conseguito]?- che per i professorini la recensione era un mezzo, utile a conquistare posizioni (UnoMattina, Cult, eccetera);
    2. riferisco le parole testuali di Antonio Pascale, che dice di aver rinunciato ad avere i critici nelle presentazioni dei suoi libri, e di preferire la lettura e poi la converszione con i lettori, col pubblico, perché i lettori sono avanti rispetto ai critici di almeno vent’anni, nella capacità di sintonizzarsi con testi e autori; nella spasmodica ricerca in libreria (per chi ha fortuna d’arrivarci) di testi di autori nuovi, rari, interessanti; nella comprensione profonda delle opere e nel saper intercettare i percorsi degli autori (e non ci stiamo riferendo a Moccia).
    Qualche critico che stimo c’è, però l’apparato, IL PALAZZO della critica, è un epifenomeno avvilente e ridicolo – ed è patetico notarne l’arrembaggio alla recensione tutti degli stessi libri, dei percorsi degli stessi autori, e la sostanziale mancanza di ricerca. Praticamente un organismo elefantiaco bloccato dalla sua stessa stazza, e prossimo alla fine di cui noi siamo rassegnati a constate quanto prima l’evento.
    Un abbarccio.

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