La morte silenziosa di un clandestino

di Marco Rovelli 

Era un rumeno, e dunque non più clandestino, ma la clandestinità è una condizione esistenziale che ti rimane appiccicata addosso. Feodor è morto a 39 anni, sotto gli ulivi, schiacciato da un trattore nelle campagne intorno a Cerignola, in contrada Racucci Secondo per la precisione, lungo la provinciale 95. La moglie gli stava a pochi metri, zappando. Il trattore si è ribaltato, e Feodor è caduto nel canale che costeggiava il terreno. E’ come se Feodor fosse morto di due morti: schiacciato e affogato. Feodor non era più clandestino, ma continuava a fare quello che faceva da quattro anni, da quando era arrivato in Italia. Lavorava in nero nelle campagne foggiane, a prezzi stracciati. Lunedì stava lavorando per tre euro e mezzo all’ora, e già gli andava di lusso. Ché molto più comune, da quelle parti, è prendere due euro e mezzo all’ora. Così assolutamente comune è lavorare in nero. Essere in regola è un privilegio di pochi. Nel caso di Feodor, a quanto si dice, non era assicurato neppure il trattore. Nessuna garanzia, per Feodor, 39 anni, per sua moglie di 36, e per la loro bambina di 12 anni che è rimasta in Romania.

Le campagne del Tavoliere, così come la piana di Gioia Tauro in Calabria e i campi di patate del siracusano, sono quasi zone extraterritoriali. Zone dove sopravvivono i clandestini più clandestini. Quelli “senza rete”: senza le connessioni che li portino via da quel circuito, facendogli intravedere una possibilità alternativa. Quelli come Feodor sono come conficcati, laggiù. Ci sono persone spesso non più giovani, di quaranta, cinquanta anni. Anche alcuni subsahariani di settanta. Loro abitano in queste campagne tutto l’anno, anche dopo la fine della raccolta dei pomodori. Restano per i broccoli e i carciofi, prima, poi per l’uva, e poi per curare le vigne (ed è qui che ci sono le paghe più basse: cinquanta euro da dividersi per sei persone per curare un ettaro di vigna). L’inverno, insomma, si sopravvive, e ci si incontra a fine giornata al bar. Esteuropei (rumeni e bulgari, qualche polacco residuo), subsahriani (soprattutto ghanesi e nigeriani), maghrebini (tunisini e marocchini).

In estate, invece, nei campi vicini alla masseria Tre Titoli, e dalle parti di Stornara e Stornarella, si affollano migliaia di persone, per la maggior parte subsahariane, accampate in tende di fortuna e baracche di cartone, o ammassate in case, decine e decine di persone per ogni vecchia casa colonica abbandonata e ora riadattata per i nuovi braccianti. Sei ore per quindici euro, questo il salario normale. Meno della metà rispetto a ciò che prevederebbe la legge. Quando va bene, venticinque euro. Da agosto a ottobre, nel pieno della raccolta del pomodoro, si lavora dalle quattro, cinque di mattina a mezzanotte. Ma, anche ai pochi in regola, vengono pagate solo trenta euro.

Poi ci sono i caporali, che lavorano soprattutto con gli esteuropei. Si prendono quaranta euro dal proprietario (o dall’affittuario) del terreno e a quelli della squadra che hanno reclutato ne danno venti. Il proprietario, di solito, li mette ad alloggiare in una casa, e loro non devono muoversi. Glielo fa capire gridando, ché anche se loro non capiscono la lingua, però sono almeno capaci di spaventarsi. Non sono sequestrati, questo no, l’offerta di braccia è tanta, se vogliono possono andarsene. Ma se non stanno alle condizioni, niente paga. Poi capita che la paga non ci sia anche stando alle condizioni, ma anche in quel caso bisogna star zitti. A chi può rivolgersi uno che non conosce nessuno, che è arrivato direttamente nel deserto di queste campagne, che non conosce la lingua?

Anche a M. (che chiameremo Moulay) è successo di non essere pagato. Moulay, tunisino, è uno dei pochi privilegiati col permesso di soggiorno. Lui potrebbe andarsene da tempo, da lì. Ma finora non ne ha avuto la forza. Anche se sconta la concorrenza degli esteuropei, negli ultimi anni, e lavora sempre di meno: loro si accontentano di 2,50 all’ora, mentre lui non ne vuole meno di cinque.

E’ stato Moulay a far uscire dal foggiano la notizia della morte di Feodor. Ci eravamo scambiati i numeri a capodanno, quando ero andato giù nella sua campagna, al bar di Tre Titoli, gestito da una donna ivoriana. Mi ero seduto al tavolo e mi avevano detto, Un italiano che si siede con noi, non era mai successo! Poi avevo conosciuto Moulay, e avevamo parlato a lungo. Ieri mi ha chiamato dicendo, Hai visto, è morto un ragazzo, era mio amico, lavoravamo insieme. Lui abitava vicino a me, a Borgo Libertà.

Ho cercato su Google. Nulla. Solo la notizia sul sito di una tv privata foggiana. Sui circuiti nazionali, nulla di nulla. A confermare che questi sono i clandestini più clandestini. Ho telefonato alla caserma dei carabinieri, per sapere se il proprietario del terreno fosse stato arrestato, nulla neppure lì.

Questa morte è stata decisiva per Moulay, che in Tunisia era un bravo saldatore, montava capannoni, faceva porte di ferro. Moulay ha deciso di lasciare quelle campagne di miseria e di morte. Mi ha chiesto di aiutarlo, di trovargli una possibilità per il lavoro che sa fare bene, e che gli piace fare. Ora che ne ho scritto sul manifesto, chissà che una possibilità non si trovi davvero. (Nel caso, scrivete a alderano@libero.it)

(Pubblicato su il manifesto, 26/4/2007)

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14 Commenti

  1. mai dimenticare chi vive ogni giorno la sopravvivenza.
    il tuo gesto di avvicinamento è da ammirare.

  2. Non-persone, per dirla con Dal Lago. Di clandestini e di immigrati si parli solo nel quadro dell'”emergenza criminalità” e dell’”emergenza sicurezza”.
    Puah!

  3. @ cappuccetto rosso
    Uh, la mia visione delle cose sarebbe molto limitata. Parliamone.
    Dunque se dico (all’ingrosso) che i mezzi di comunicazione di massa percepiscono gli immigrati come non-persone, tirandoli in ballo esclusivamente su questioni legate alle cosiddette emergenze sicurezza e criminalità (alimentando xenofobia e tristi stereotipi), pecco di limitatezza.
    Mah… Ripeto: parliamone. Dispostissimo a mettermi in discussione, ma dovresti essere più chiara e farmi capire meglio cosa non ti convince del mio punto di vista.

  4. ma sa che forse ho interpretato male il tuo commento,
    senza forse, scusami.
    si fa così in fretta a giudicare quelle persone, in realtà sono così soli, lontani dalla loro terra, veri e propri emarginati, e tanta gente si approfitta di loro.

  5. Eh, ahimé, lo so, “parlare” è verbo un po’ fuori luogo rispetto alle possibilità di socializzazione date dall’ambiente più o meno virtuale in cui ci troviamo.
    Scusami tu, comunque. Avevo scritto quel commento di getto, rabbiosamente, subito dopo aver letto il pezzo di Rovelli, e a rileggerlo adesso mi rendo che poteva prestarsi a letture equivoche. Colpa mia!

  6. mi rendo conto di questo grigiore reale in cui sprofondiamo, ogni giorno di più…
    vorrei capire
    dove finisce quel maledetto confine.

  7. @Livermore
    Vorrei parlare con te ma ora devo uscire
    spero di avere altre occasioni
    le avro?
    magari riesco a dirti qualcosa di più su questo argomento….

    Buona serata.
    :-)

  8. Uhi, eccomi!
    Dopo il chiarimento, ritenevo concluso il mio contributo a questo topic, e mi sono sfuggiti gli interventi successivi.

    No, non credo che ci conosciamo, Cappuccetto Rosso. A meno che… a meno che… Uhm…

    No, è impossibile, lo escludo, per un attimo ho pensato che…
    Ma in termini di probabilità sarebbe come una sorta di vincita al superenalotto! :-D

    Certo che ci saranno altre occasioni; me lo auguro anch’io…
    :-)

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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