Biondo 901

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di Merisi
 

Mettiti comodo e schiaccia il tasto play. Lo schermo è nero, per diversi secondi, poi dalle casse arriva qualcosa.  Un rumore basso, cadenzato, che aumenta d’intensità, ti colpisce in pieno. E’ qualcuno che ansima forte.  Nessuna immagine e solo questo respiro che inquieta.  Finalmente la prima inquadratura, la scena vista dall’alto.  Mi sono sempre piaciute le scene dall’alto. Una striscia lunga e profonda di litorale, il bianco delle onde che si rompono sulla spiaggia, la luce della luna, due punti che si muovono sulla stessa linea, uno dietro l’altro, ad una certa distanza.  L’audio si alza ancora, il respiro è affannoso, ora dà quasi noia. L’inquadratura si abbassa velocemente.  Ora li vedi bene, sono due uomini. Due uomini che corrono affannati.  Ecco, quello davanti sono io, e quello dietro è uno stronzo.  Non stiamo giocando, non è una gara a chi arriva primo: io sto scappando per salvarmi la vita.  Non mi giro per vedere quanto spazio ci divide, spingo forte sulle gambe che affondano nella sabbia, sudando copiosamente nonostante il freddo d’inverno e la brezza di mare ghiacciato. Non so dove sono diretto.  So solo che devo correre.  L’inquadratura ora stringe in un primo piano mosso.  Quella che vedi è la mia faccia e il respiro che senti è il mio, ed è quasi insopportabile. Sì, non devo essere un granché sotto sforzo e ti assicuro che mi sto sforzando parecchio, non correvo da una vita. Dovrebbe essere l’ultima cosa che faccio, per il tipo qua dietro, ma non posso fermarmi a discuterne, non servirebbe a niente.  Giro veloce la testa, devo sapere se lui… due passi smozzicati e mi fermo anch’io, piegato in due. Prendo più aria possibile mentre i polmoni bruciano e la milza mi tira un dolore furioso, ma non stacco gli occhi dalla sua figura male illuminata. Cinquanta metri, forse meno.  Se non ci fosse il frastuono delle onde sentirei il suo affanno, se fosse giorno vedrei la cattiveria dei suoi occhi.  Il cuore mi batte violento in bocca.  Decido, ora devo tagliare verso la strada, verso la salvezza, se esiste ancora.  Ma devo stare attento al suo compare che certamente ci avrà seguito lungo la strada che costeggia la spiaggia. Muovo due passi, la sua figura rimane ferma, gli rubo ancora qualche metro.  La mia motivazione, per ora, è più forte della sua.   Quella voce aspra, finirete sotto la sabbia, mi riempie le orecchie, più forte del rumore assordante delle onde. E qui di sabbia ce n’è un mare.  L’inquadratura si stacca dalla mia faccia, gira veloce e si allarga sulla sinistra, lato strada.  Insegna del Bagno Marcellino  Staccionata di legno  Fila di cabine  Serie di pattìni L’idea è di lasciare la spiaggia, gettarmi in mezzo alla strada, fermare una macchina, cercare gente, cercare aiuto. Ma forse non basterà, perché scopriranno chi sono, cosa faccio e dove abito. Dovrò scappare all’estero, nascondermi tutta la vita. E forse mi troveranno comunque. Ho poco tempo per decidere e solo due scelte da fare. Morire qui, adesso, oppure da un’altra parte chissà quando.

Piano americano della mia faccia stravolta.  Fermo immobile nel punto più buio che ho trovato, le orecchie fischiano, il cuore martella dovunque, impazzito, le gambe indurite di colpo, occhi sgranati. Cerco di scorgere movimenti nello scuro attorno, ma non sento il rumore del mio inseguitore. M’infilo dentro la larga siepe che delimita il vialetto pedonale, a dieci metri dalla strada, metto fuori la testa.  Il deserto illuminato da lampioni altissimi.  Macchie di verde spelacchiato  Autovetture abbandonate in colonna  Un semaforo che lampeggia solo per me  Tutta questa calma apparente non mi rilassa per niente e, preso dalla frenesia, mi butto fuori dalla siepe. La costeggio rimanendo piegato sul busto, basso. Un urlo mi fa voltare.  Il finto biondo, ad una trentina di metri.  L’adrenalina esplode e ricomincio a correre con un movimento aritmico di gambe e braccia, in una danza per niente fluida. Velocità e resistenza, metro dopo metro, velocità e resistenza, metro dopo metro.  Non mi giro a controllare ma li immagino, adesso, tutt’e due che mi corrono dietro.  La disperazione mi blocca le lacrime dentro agli occhi, annebbiandoli.
 
Un intenso primo piano drammatico. Bianco cadaverico, sulla bocca secca una smorfia storta, narici dilatate all’inverosimile, nessuna luce negli occhi. Sconfitto.  La paura non riesce più a far funzionare le gambe, cedo di schianto. Respiro male, una serie di passi sgraziati poi crollo in ginocchio; con difficoltà torco il collo all’indietro e vedo due diavoli che divorano il buio. Mi appoggio sulle braccia, sfinito.  Sbocco un conato acido di terrore.

Campo lungo, ultimi lampi di vita. Sputati dal buio, i diavoli arrancano sgraziati nella luce di un lampione. Una macchina corre vicina e scappa fuori inquadratura.  I fari carezzano le siepi e rimbalzano sui vetri di auto in sosta.  Mi lascio scivolare sulla schiena, il cielo in faccia, aggredito da pensieri sconnessi. Rimango a terra, liquido. E penso proprio che adesso morirò.
 
Okay, ora stoppa il film. Non sono messo bene, vero? No, direi di no, è veramente una brutta situazione. Non è facile ficcarsi in situazioni del genere, soprattutto non è da me, io non sono un criminale e la violenza mi spaventa. Come cristo ho fatto a trovarmi qui?  Bella domanda. Se vuoi, prima del finale, ti racconto come è successo.
 
Mi chiamo Giordano, faccio il parrucchiere e fino a poco tempo fa ero un uomo felice. Non avevo proprio niente di cui lamentarmi, il conto in banca non destava preoccupazioni, avevo brindato da poco all’estinzione del mutuo della casa, il secondo salone stava rendendo quasi come il primo e mi sentivo un fiore. Merito anche di certe clienti.  Certe clienti sanno come fare per farti stare bene. Insomma, la mia vita stava scorrendo in discesa, una di quelle lunghe, infinite, dolci discese che tutti sognano dopo vent’anni di sciampi, tagli e messe in pieghe, e credevo di essermela meritata. Già, ma non avevo fatto bene i conti. Per fare bene i conti bisogna considerare sempre la variabile.  Cosa cazzo è una variabile?  E’ la solita domanda ingenua che avrei fatto io.  La variabile è importantissima, credimi. Immagina un uomo che sgobba tutta la vita per il bene della sua famiglia, per garantire un futuro sicuro. Non cede ai vizi e non si concede lussi, ma mette via con fatica i suoi soldini al sicuro, nel conticino in banca. Insomma, tira avanti una vita di merda piena di privazioni per il bene futuro di quei suoi due figli che non si arrischierebbero mai di capire perché il padre fa una vita così del cazzo e li priva delle tante cose che i loro amici, invece, si godono. Un bel giorno, i due fratellini, decidono di dare una svolta alla loro esistenza: perché aspettare per godere di tutti quei soldi in banca, in fin dei conti un giorno spetterebbero a loro comunque. Per operare la svolta devono togliersi dai coglioni quello spilorcio del padre, quindi lo uccidono e, già che ci sono, fanno fuori anche la mamma, che tanto era d’accordo con lui su tutta la linea.  Ora immagina cosa può aver provato quell’uomo mentre i fratellini infierivano sul suo corpo, mentre il primogenito lo teneva fermo e il figlio minore lo accoltellava con furore: quell’uomo avrà cercato fino all’ultimo momento di capire il perché, e si sarà scervellato per dare un senso a quello che gli stava capitando, e sarà rimasto inerme sotto i colpi, confuso, spaventato, con quella semplice domanda che gli avrà mandato in pappa il cervello. Poi, prima dell’ultimo respiro, quando anima e pensiero confluiscono insieme e subentra la consapevolezza cosmica del tutto, si sarà posto la domanda giusta, quella che doveva porsi subito, l’unica domanda che si porta dietro anche la risposta.  Domanda: in cosa ho sbagliato? Risposta: ho sbagliato a fare i conti, non ho tenuto conto dell’ingordigia dei due fratellini.  Ecco, quella è la variabile della vita di quell’uomo. No, non ci sono metodi per calcolare la variabile. Sì, questa è una cosa brutta, può mettere una certa angoscia. Prendi un quotidiano a caso e leggi la cronaca, vedrai un sacco di variabili. Sì, c’è da farsi venire i sudori freddi e vivere male. E già.  L’elenco delle variabili è infinito, dalle più ordinarie come il cancro o il frontale in auto, alle più infide come l’infarto durante la partitella di calcio tra amici o l’occlusione della trachea mentre rumini pop corn al cinema. Leggi, commenti e ti fai la domanda, quale cazzo può essere la mia. Le percentuali non te le sto a sciorinare, odio quelli che riportano delle cifre a sostegno di una tesi, e le tesi sono fatte per essere disattese. Ti dico solo che la percentuale delle morti per liti in famiglia si è alzata del trenta percento in questi ultimi anni, quella per mano del coniuge addirittura del trentanove. Sono uscito di casa giovanissimo e vivo da solo, e senza saperlo ho ridotto di un minimo la mia variabile.  Messa così, la vita si converte in un gioco per assicuratori in giacca cravatta e calcolatrice: moltiplicare la lunghezza di vita media per il coefficiente di pericolosità di vita che conduci e dividere per il coefficiente di rischio di ogni variabile applicabile. E cosa ottieni? Ottieni il costo di una merdosissima oretta di felicità, ecco cosa ottieni, ed è la cifra più alta che ti possa venire in mente. Comunque hai capito, mai fare i conti e pensare di aver calcolato tutto, quello lo puoi fare a scuola mentre risolvi un problema oppure sul lavoro mentre conteggi le ore per le buste paga dei collaboratori. Ed io ero proprio al lavoro che controllavo Cinzia, l’ultima assunta, pettinava un rosso 8/45, testa piccola e peli radi, una delle clienti migliori: sessant’anni, due appuntamenti fissi la settimana, martedì e sabato sciampo e messa in piega, colore e taglio una volta al mese.  Qualcosa come trecento euro mensili, mance escluse.  Cinzia cotonava con perizia quel rosso 8/45 proprio come averi fatto io, e la cliente mi guardava soddisfatta, e pensavo che avrei potuto fare la mia vacanza senza patemi perché ormai le lavoranti erano tutte professionali e i negozi potevano andare avanti anche senza di me.   Io in discesa che sorrido, capelli al vento, moscerini spiaccicati sui denti. Non l’ho vista entrare. Me la sono trovata alle spalle all’improvviso, riflessa nello specchio. Biondo naturale 901, splendido. Un viso di porcellana. Una fila di denti bianchi da pubblicità. Una voce da straniera. Mi posso fermare, ha chiesto in un italiano stentato.  Cosa deve fare.  Forse taliare. Le clienti indecise si mettono nelle tue mani e tu non puoi deluderle. Sono le più difficili ma anche le più stimolanti. Il bello del mio lavoro. Avrei dato il massimo. Prego, si accomodi al lavaggio. Le ho dato un’occhiata intensa mentre sfilava la giacca arancione, le ho guardato bene le gambe e le caviglie, ho immaginato il sedere, le tette le avevo già sbirciate prima. Nel complesso una vera bellezza, ed ero sicuro che sarebbe diventata una fedele cliente e tutto quel che ne consegue.  Vedi, stavo già facendo dei conti. All’epoca non sapevo un cazzo sulle variabili.   Sono sempre stato un tipo molto scrupoloso e inquadrato, e questo mi ha aiutato nel raggiungimento dei miei scopi. Senza una linea di condotta si disperdono le energie e si perdono gli obiettivi.  Regole, quindi, poche e chiare.  La prima: mai provarci con le clienti.  E’ semplice ma è la più stronza che puoi immaginare. Sei spacciato se non la rispetti. Immagina un parrucchiere che vuole farsi una cliente qualsiasi. L’addolcisce con le parole e gli ammiccamenti, giusto?, ma se lei non ci sta e a lui gli sale la fregola c’è poco da fare, quella diventa un chiodo fisso che anche fottendo tutto il resto del salone non riesce a levarsi. Allora fa la cazzata: dai, questa volta non ti faccio pagare dice, e magari le strizza anche l’occhio, e se lei non ha ben capito, la prossima volta gli regala uno sciampo, di quelli testati su salcazzocosa che costano un patrimonio. Ecco, il parrucchiere ha innescato una concatenazione di eventi che rispondono a regole imprevedibili, generando un effetto valanga inarrestabile. In fondo alla valle, seppellito dagli eventi, nell’ordine: Lavoro  Guadagno  Futuro. Ma andiamo avanti e senti cosa succede. Ipotesi A: la cliente cede alle lusinghe perché fa i suoi conti, e la variabile qui non c’entra un tubo. Si fa fottere e in cambio non pagherà più le sue costose sedute di bellezza, gli sciampi e tutto il resto mance comprese, e poi inizia con le pretese tipo moglie del titolare. Appuntamento alle sette di sera per taglio e colore, e torni a casa alle dieci. Veloce pettinata gratuita mentre passa carinamente a salutarti ogni giorno.  Le mani in testa devono essere solo quelle del proprietario, no lavoranti. Pettinata giornaliera senza appuntamento quando il salone è gremito, che vuol dire passare davanti alle altre persone, che vuol dire generare astio e malumore, che vuol dire perdere clienti e guadagni eccetera eccetera. Ipotesi B: la cliente, dopo innumerevoli tentativi di corruzione, ultimo dei quali l’esenzione dal pagamento di colore e colpi di luce, che al saldo sono duecentoventi euro, si sfinisce e non viene più nel tuo salone, così, oltre alla fica, ti perdi un bell’incasso mensile che si aggira su… no, basta conti, credo che tu abbia capito, la validità della prima regola è indiscutibile. La seconda regola: aspettare che la cliente faccia il primo passo. E deve essere un passo netto e inequivocabile. Non dico che te lo devono prendere in mano, che è successo ma sono casi rari, ma certe clienti, pur di farti e smorzare la voglia che le sta rodendo sotto, te lo dicono sparato sul muso, senza vergogna. Ecco, a quel punto puoi accettare di fornicare, ma prima di pucciare il biscotto devi mettere tutto in chiaro: sconti non ne faccio, il lavoro è una cosa, scopare un’altra.  Se accetta, ti puoi divertire senza rischiare. Tutto questo per dirti…? Ah già, il biondo 901. Si chiama Letvania, viene da Russia, ventioto ani, vive Italia uno ano, vive di Viaregio, bela Italia, belo italiani, lei no sposata, lei singola. Riflesso condizionato da italiano medio.  Dici siciliani e pensi mafiosi.  Dici genovesi e pensi tirchi. Dici giovane russa e allora lei puttana che lavora strada. Anzi no, lavora night perché lei figa, vera figa russa. Comunque tieni a mente la storia delle regole, perché anche se Letvania è tutto quello e molto di più, la prima regola è la prima regola. Proprio come nel Fight Club. Il primo incontro è andato bene, ho sfoderato un taglio a caschetto sfilato ideale per i suoi lineamenti, nessun trattamento specifico ai capelli sanissimi e per niente sfibrati, segno che il lavoro che faceva non la stressava per un cazzo. Sembrava molto contenta. Poi ha salutato incespicando deliziosamente su un ciao che sembrava un miao, ed ha portato via il suo biondo 901 con una grazia da infarto.  Letvania veniva in salone con una frequenza di due volte a settimana, preferibilmente il martedì e il venerdì. E’ palese che fossi io a servirla. C’era un certo brusio tra le ragazze e le clienti, sia quando entrava che quando usciva, e ce n’erano tutti i motivi. Che sono aumentati quando Letvania ha cominciato a fissarmi in maniera troppo insistente con quegli occhi freddi e caldi allo stesso tempo. Quegli occhioni mi trasmettevano qualcosa di più della carnalità, qualcosa tipo dolcezza e malinconia, solitudine anche.  Il pensiero di lei lontana dalla sua terra, sola, che balla nuda attaccata ad un palo da lap dance dentro uno squallido night, mi ha angustiato i parecchi smanettamenti che mi sono inflitto a casa.  Godevo e un po’ mi veniva da piangere.   Dove mangi quando finire lavoro. L’ha detto mentre mi pagava, davanti alla cassa, il quinto venerdì.  Due tranci di pizza scotta che ho fatto durare un’eternità.  Letvania ha raccontato di Russia e di povertà che ha lasciato, di fratello che lavora in Italia da tanti anni, di mamma e papa e due fratelli in Russia, che familia importante, che sentire mancanza e telefonare tutti giorni.  Bocca perfetta. Denti bianchi. Sorriso da bambina. Pensavo quanto potesse costare quel sorriso. Della sua vita strettamente privata non ha detto niente, non voleva dirmi niente. Ha solo detto con orgoglio che io balerina, io danza di Bolscioi, ed ha allungato una gamba e ha fatto una punta naturale, mostrandomi certi muscoletti che hanno aumentato rischiosamente la mia salivazione. Il resto della giornata: io al lavoro, in testa lei che frulla la morte del cigno in volteggi aggraziati, nuda.

Puttana o no, non mi importava. E quel martedì non mi importava neppure della regola numero uno. Lo abbiamo fatto durante la pausa pranzo, dentro allo spogliatoio delle lavoranti, negozio chiuso a doppia mandata e chiave nella toppa. Credimi, ho sbavato mentre si spogliava, perfetta. La Venere del Botticelli che sorgeva tra scope e scatoloni.  La pelle elastica è stata la cosa che mi ha sconvolto di più. Sono certo di aver avuto una crisi epilettica, perché scuotevo il corpo senza controllo, non riuscivo a fermare le mani e sbavavo in maniera affatto elegante.  Non solo andavo in discesa, avevo preso una notevole velocità.

I primi tempi l’abbiamo fatto sempre in negozio nella pausa pranzo. Infrangevo costantemente la prima regola ma il lavoro non ne risentiva. Io non le ho mai regalato neppure uno sciampo e lei non ha mai chiesto agevolazioni. Si comportava da cliente qualunque, aspettava il suo turno e pagava regolare. Quella era certamente un’eccezione, ho pensato. Poi ho capito che Letvania era come me, scrupolosa e inquadrata, ed anche lei aveva delle regole. Anche le sue poche ma fondamentali.  Potere vedere me tuti giorni ma non potere dormire insieme. Non chiedere numero telefonino, io telefonare. Non cercare me di Viaregio. Il suo italiano scorretto aveva un suono delizioso. Tutta Letvania suonava in maniera deliziosa, qualunque cosa facesse.  Più il tempo passava e più mi abbandonavo a quella musica. Non fare la carogna, non pensare neppure un attimo che fosse solo musica da camera. Facevamo altro, facevamo quello che fanno due persone che si piacciono, quello che banalmente riempie i giorni di una coppia normale, come guardare un film noleggiato o stare sdraiati e pensare in silenzio, o ascoltare musica. A volte uscivamo, andavamo per negozi, facevamo passeggiate, pranzavamo al ristorante, ma tutto questo lontano da Viareggio, perché anche quella era una regola.  Comunque non pensavo più a lei come una puttana. Se pensavo a lei pensavo a Letvania e basta, e a tutte le cose che facevamo assieme.  Il resto, quello che faceva quando non era con me, non mi importava.  Se vuoi proseguo con gli esempi musicali e ti dico che il nostro stava diventando un concerto bello e buono, con gli archi e i fiati e gli ottoni lucidati e il timpano e tutto l’occorrente. Ed io me lo godevo in prima fila, e lei ogni tanto faceva la sua punta naturale e accennava due passi di danza.  Tutto  Una  Meraviglia. Non ho detto tutto una favola perché mi sembrava di esserci, dentro una favola. Verso le otto di sera Cenerentola doveva correre via, prima che la macchina si trasformasse in una zucca, e sgommava verso la Versilia.  Non ha mai sgarrato una volta. Ho cominciato ad odiare la notte.  No domanda di me di Viaregio, prego. No fidanzata. Quando le ho chiesto ancora se aveva un uomo ha ripetuto no con veemenza, lei non sa cosa vuol dire ma è quello ha fatto, ha negato con forza. Ma quello che sentivo non lo leggevo negli occhi, e questo mi spingeva a dover infrangere le regole. Perché volevo sapere tutto.  Perché stavo per farle una domanda impegnativa. Vuoi venire a vivere con me?  Si è ritratta guardandomi spaventata, come l’avessi colpita. Ha sibilato parole incomprensibili che il suo sguardo traduceva in paura allo stato puro. Non ha voluto sentire ragioni e se ne è andata. Fine del concerto.

Elenco di pensieri. Russa Bellissima Puttana Night Bordello Soldi Tanti Soldi Schiava Minacciata Paura Pericolo. Leggo i giornali, sono informato. La tratta delle schiave esiste eccome, e quella è gente temibile, non ha nessuno scrupolo. Leggi donne picchiate. Leggi donne torturate. Leggi donne picchiate torturate e uccise. Ho letto di donne che sono reclutate tenendo in ostaggio la famiglia nel paese d’origine e fatte lavorare per raggiungere una cifra spropositata per poter riscattare i familiari. Sono sfruttate per quattro cinque anni, che è la vita media di una ragazza sulla strada. Dopo non sono buone neppure per il brodo, se ancora vive. Non so se quelle che lavorano nei night hanno una garanzia più lunga. Il mio amore contrastato per un’immigrata, magari clandestina, magari puttana, magari con la famiglia in ostaggio della mafia russa.  Io che entro nel night. Io che sparo all’impazzata. Io che stringo Letvania al petto e soffio sulla canna fumante della pistola. Tutto  Molto  Romantico. La cosa buffa è che su Letvania non ho mai avuto nessun dubbio.  Non poteva che essere così. Una straniera così bella cosa altro poteva fare in Italia?  Letvania non è venuta il martedì, il venerdì ci speravo ma non si è vista. E così per i giorni a venire. Cenerentola aveva abbandonato il principe azzurro. Le clienti si sono accorte subito che qualcosa non andava. Svogliato  Disperato  La rima è obbligata Innamorato. Ho iniziato a perdere colpi e a rendere poco. E questo, alle clienti, non va a genio. Che sia una casalinga sessantenne o una manager trentenne non importa, l’acconciatura da tenere tre o quattro giorni oppure una settimana è la loro, è loro quella testa che guardano gli uomini per strada o la vicina della porta accanto o la collega in ufficio, e non vogliono neppure immaginare che puoi sbagliare il taglio o la messa in piega o il colore perché stai male per la mamma all’ospedale o perché hai preso una sbandata per una puttana russa.  E’ per quello che mi hanno coccolato tutte. Qualcuna ha fatto di più, visto la confidenza, ma non è servito a niente. Anzi, hanno accentuato il mio malessere.  Chiodo scaccia chiodo. Morto un papa se ne fa un altro. Per una porta che si chiude c’è un portone che si apre. Non mi fregava niente di chiodi portoni e papi. Quello che dovevo fare, secondo loro, era dimenticare. E quello che ho pensato di fare io, invece, era di ritrovare il mio biondo 901.   Fabio B., muratore, trentenne, single, puttaniere incallito. Gli piace pagarle, gli piace scegliere, adora cambiare. Insegnamenti di suo zio, dice. Fabio B. conosce ogni troia che batte sulla strada da Marinella di Sarzana a Viareggio, conosce ogni bordello della Versilia e frequenta tutti i night. Gira tutte le macellerie. Fabio B. è una certezza. Letvania non è difficile da descrivere, ma ho insistito molto sul colore, quel biondo 901 è unico, come lei.  Fabio B. ha detto che non esisteva una figa così come la descrivo io, ma se la incontrava prima la provava e poi mi diceva dov’era. Poi si è messo a ridere. Così ho scoperto che anche lui ha delle regole. Prima regola: non innamorarsi mai di una puttana. Glielo ha detto suo zio, e lo zio sa il fatto suo. Tanti anni prima si era preso una fissa con una gran bella rossa, una che batteva in un appartamento poco fuori Viareggio, e lei era anche simpatica e magari lui le piaceva anche un po’. E’ nata un’amicizia e si frequentavano alla fine dell’orario di lavoro: lui faceva l’ultimo cliente, tirava giù la saracinesca e si fermava a dormire. Si sono lasciati prendere la mano, gli incassi della rossa devono essere calati vistosamente e la cosa non deve essere piaciuta al pappa, che una notte è entrato nell’appartamento, ha preso lo zio e l’ha scaraventato giù dalla finestra. Un mese di ospedale a piano. Era il terzo piano, lo zio lo ricorda bene.  Hai notato?  Anche in questo caso c’era una regola, anche in questo caso è stata ignorata, e guarda cosa è successo. Tutto risponde a regole esatte, anche la teoria del caos. Variazione infinitesimale della condizione di partenza.  Amplificazione degli eventi successivi.  Mutamenti macroscopici incalcolabili dell’esistenza. La vita ridotta a pura geometria analitica.

Lascia perdere la russa, ha gracchiato nella segreteria del telefono Fabio B. Lascia perdere quella cazzo di russa e dimenticala. Click. L’ho trovato a casa sua ma non ha voluto farmi entrare, non si parla di queste cose in casa, vive ancora con la madre. E’ venuto fuori, scuro in volto, mi ha puntato addosso il suo grosso indice scorticato come una carota, e lo ha ripetuto. Lascia perdere la russa. Allora mi sono fatto raccontare. L’ha trovata fuori Viareggio in un posto che non conosceva, ce lo ha portato un suo amico di Carrara che gioca forte a poker. E’ un locale nuovo sul lungomare, un incrocio tra night, sala scommesse e bisca clandestina. Caschetto sfilato, biondo 901, bellissima, occhi indefinibili, ha confermato. Voleva provarla, cazzo se lo voleva. Aveva subito tirato fuori la mazzetta per impressionarla e scioglierla al punto giusto.  Lo fa sempre, ha precisato, una mossa preso a prestito dallo zio.  Lei non ha fatto una piega davanti ai soldi, l’ha guardato storto e si è girata dall’altra parte. Allora mi ha detto che l’ha chiamata per nome.  Letvania le ha detto, non fare la difficile, sono un amico di Giordano.  Lei ha guardato in giro e sembrava spaventata, ha cercato di allontanarsi e lui ha provato a trattenerla per un braccio.  Ho provato, ha ripetuto con occhi impauriti. Si sono materializzati due animali che lo hanno preso senza complimenti sotto le ascelle e lo hanno portato fuori dall’uscita di sicurezza, gli hanno dato due calci in pancia e lo hanno lasciato a rantolare sulla spiaggia.  Non hanno detto una parola. Non hanno dato una spiegazione. Fabio B. mi è parso realmente spaventato. Lascia perdere la russa.

Io che faccio un colore. Io che faccio dei colpi di luce. Io nel mio appartamento. Io che verso contanti sul mio conto in banca. Io che faccio un taglio.  Io alla guida della mia macchina. Io che faccio delle meches. Io in discoteca con gli amici. Io che scopo una cliente. Io che faccio una messa in piega. Io al cinema. Tutto uguale a prima ma tutto così diverso. Quello non ero io. Cioè, ero io ma non ero felice. Senza la mia russa balerina di Bolscioi ogni cosa aveva perso il suo senso. Ne sentivo la mancanza e avvertivo la necessità. Mancanza e necessità sono una miscela esplosiva. Non ho sentito il botto ma dentro mi si è incasinato tutto, ormoni, chakra e anima compresa.

Ho intensificato le mie uscite in Versilia, perché avevo la netta sensazione di dover dare una spinta al destino.
Sono d’accordo, quasi tre ore fuori da quel locale sono più di una spinta, ma se non facevo così rischiavo di mandare in rovina la mia esistenza. Nella notte umida della Versilia l’ho vista scendere da una macchina nera.  Bellissima, lei e la macchina. Quella Porsche non ha fatto suonare campanelli d’allarme. Lei mi ha subito visto ed ha sorriso velocemente. Ha fatto un tragitto singolare per incrociarmi. Passandomi accanto ha rallentato ma non si è fermata. Non entrare, ti prego. Vediamo qui a due di notte. Non mi sono mosso di lì per altre due ore.  Letvania è stata puntuale. Si è infilata nella mia auto e si è accucciata giù. Vai, dico io dove. Senza parlare abbiamo tagliato in due Viareggio.  Di qua. Mi ha portato in una zona che non conoscevo.  Gira qui. Strada sterrata, pioppi altissimi, luna accesa. Ho fermato la macchina alla fine del percorso, il muso contro un casolare diroccato. Non le ho fatto neppure una domanda perché aveva una gran voglia di parlare. Mi ha spiegato tutto e mentre parlava non sentivo la solita musica, sentivo un requiem. Un requiem suonato forte solo per me. Ho guardato spaventato dal lunotto posteriore molte volte, temendo di vedere fanali criminali segnare la strada polverosa. Il mio stomaco che si gira e si attorciglia su se stesso. Letvania non era affatto una puttana russa, era la moglie di Raffaele Cimaduomo. Chi è, le ho chiesto. E’ un trafficante di droga, un trafficante di armi. E’ un uomo pericoloso. Ho fatto una fatica mostruosa per non sciogliermi, ed ho guardato ancora dal lunotto posteriore.  Sì ci credo, le ho detto. Potevi anche dirmelo subito, ho aggiunto con un filo di voce.  Poi non ho più parlato.  Lei invece ha continuato.  Ha detto che Cimaduomo lavora con suo fratello più grande, quello che sta da anni in Italia, che è diventato ricco e manda i soldi in Russia e fa stare ricchi anche quelli a casa. Non glielo ho chiesto, te l’ho detto che sono rimasto zitto, ma lei ha spiegato che ha dovuto sposare Cimaduomo perché così ha voluto suo fratello, che non ricordo neppure come si chiama. Lui le ha detto che così avevano una familia anche qui, che in Italia familia è importante come in Russia, e che non si può fregare uno di familia. Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate, i rapporti tra suo fratello e Cimaduomo si sono deteriorati, questo l’ho tradotto io, lei non lo sa dire, litigano sempre e minacciano di sciogliere la società. Così Letvania ha pensato che se sciolgono la società lei poteva sciogliere la sua familia.  E’ per quello che ha iniziato a frequentarmi.  E’ per quello che lo faceva con quelle regole, perché era pericoloso. Aspettava che tutte le cose andassero a posto e me lo avrebbe detto al momento giusto. Io vestito da sposo. Io che bevo vodka e mangio caviale. Io con mio cognato, lui spara in aria con un Kalashnikov. Poi Letvania ha detto che suo fratello sapeva di noi, che era stata lei a dirglielo, perché suo fratello ha detto che la società con Cimaduomo la scioglieva di sicuro e così anche la sua nuova familia.  Ha detto anche che suo fratello è contento che io sono paruchiere. Poi Letvania ha detto ti amo, ma io non ho detto niente. Ho fatto manovra e siamo tornati indietro.

Avevo il cervello impantanato in immagini violente, devo aver bruciato anche due semafori rosso fuoco, ma il mio senso di sopravvivenza ha fatto sì che fermassi la macchina parecchi metri prima del parcheggio del locale.  Letvania ha aperto la portiera, la luce dell’abitacolo ci rendeva perfettamente visibili. Io continuavo a stare zitto, allora lei ha fatto per scendere ma poi si è fermata, e stava per dirmi qualcosa. Poteva essere la scena di un film d’amore, di quelle fatte per far lacrimare, tipo i due amanti sconfitti dal destino. Ma lei non è riuscita a dire più niente. Una macchina ha inchiodato davanti alla mia e ha cambiato sapore alla scena. La sua faccia sorpresa. Le mie mani sudate incollate al volante. Un toro scuro e tarchiato, cappotto lungo di pelle, è corso verso Letvania.  Un armadio falso biondo ha fatto il giro verso di me, dal finestrino mi ha fatto segno di aspettare, alzando gentilmente un dito. Devo aver chiuso gli occhi quando ho sentito il timbro di voce del tipo che parlava con Letvania. Scocciato, teso, duro. Napoletano. C’era qualcosa di comico in tutto ciò, doveva esserci, altrimenti non mi spiego il risolino del falso biondo. Ci hanno fatto scendere e ci siamo incamminati verso il locale. Se passavi in quel momento vedevi quattro amici che andavano a divertirsi. Siamo entrati da una porta sul retro che dava in una grande stanza: da una parte una cucina super attrezzata, dall’altra una scrivania e un divano di pelle. Il falso biondo è sparito subito, il toro moro si è piantato contro l’uscita a gambe divaricate. Ci guardava, prima l’una poi l’altro. Il rumore del mio cervello che friggeva pensieri orrendi. Letvania sembrava tranquilla, quasi scocciata. Aveva messo le mani dentro le tasche del cappotto e stava con lo sguardo fisso contro la porta dalla quale era uscito il falso biondo. Che quando è rientrato non era solo. Ho capito subito che quello era Raffaele Cimaduomo, l’ho capito dallo schiaffo a mano aperta che le ha dato. Dove cazzo sei stata.  Non ti devi muovere senza il mio permesso.  Russadimmerda. Chi cazz’ è ‘sto strunz. Ce l’aveva con me. Non lo ha chiesto direttamente a lei, lo ha urlato a tutti quelli che erano nella stanza. Chiunque poteva rispondere, potevo farlo anch’io. Potevo presentarmi, dire che avevo trovato la signora per strada e le avevo dato un passaggio, che assolutamente non la conoscevo. E l’avrei detto in maniera molto convincente, mi avrebbe dovuto credere. E Letvania mi avrebbe coperto, non avrebbe voluto che mi succedesse qualcosa di brutto, di questo ero certo. Lui mio fidanzato, lui paruchiere, Dmitrij sapere, quando lui viene dire che mi ha pichiata. Lui sistema cose. La mia voglia di stare col cuore spezzato a centinaia di chilometri di distanza. Raffaele Cimaduomo non mi ha guardato, e questo mi ha fatto sperare che non avesse capito. Però ha parlato.  Ah, ha detto, Dimitri sa e sistema le cose.  Si è avvicinato a Letvania, l’ha afferrata per i capelli e l’ha trascinata storta per la stanza, verso la cucina. Si è fermato e le ha piantato la faccia in faccia. Dimitri sistema le cose eh, ha ripetuto con voce aspra. Le ha sbattuto la faccia sul piano di lavoro in acciaio inox perfettamente lucido. Due volte.  La prima volta niente, la seconda si è sporcato con del sangue.  Letvania ha detto solo un secco ah. E’ riuscita a spostare la testa per non battere di naso, si è spaccata lo zigomo sinistro e il sopracciglio. Io ero il dolore di Letvania, però non ho mosso neppure un muscolo. Volevo solo tapparmi le orecchie e chiudere gli occhi, ma non ho fatto neppure quello. Il tuo fidanzato eh, ha detto ancora Cimaduomo, ‘o parrucchiere. Terzo colpo, seconda macchia di sangue, più visibile, più grossa.  Letvania ha esploso un altro ah più acuto ed è come scivolata verso terra.  E sai che fine fate te tuo frate e ‘o parrucchiere, le ha gridato, finirete tutti sotto la sabbia. La punta di ferro di un ombrellone che si pianta nel mio corpo decomposto. I due scagnozzi erano intenti a godersi lo spettacolo, sembrava gli piacesse. Sotto la sabbia, ha ripetuto il falso biondo verso il toro moro. Si sono sorrisi come due iene. La regola dice che prima di morire rivedi la tua vita.  E’ successo proprio mentre guardavo le loro bocche, ma non l’ho vista tutta, solo i punti salienti, in una successione rapida inarrestabile. Io che piango appena nato Io che bacio mia cugina Io che mi rompo il ginocchio a sciare Io che apro il primo negozio Io che estinguo il mutuo della casa Io che incontro Letvania E prima che quel sorriso bastardo finisse, mi sono fatto la domanda giusta. In che cosa avevo sbagliato. Perché, se ero lì, qualcosa avevo sbagliato per forza. Ed allora ho capito tutto. La storia delle variabili, intendo.

La mia variabile era inginocchiata a terra, sputava odio in russo con voce acuta per sovrastare quella di Cimaduomo, i bei capelli appiccicati al sangue sul volto come bende posticce.  Cimaduomo le ha dato un altro schiaffo a mano aperta proprio sulla bocca, ed è come se fosse esploso qualcosa.  Ti ho detto che non devi parlare in russo, le ha gridato. Poi ha fatto un cenno ai due uomini. Si è mosso il toro moro, ha tirato fuori una pistola da dietro la schiena e gliel’ha passata. Attento a quello che fai, ha detto il finto biondo, Dimitri non sarà contento. E no, non sarà contento, ha ribadito l’altro. Cimaduomo ha guardato Letvania, poi ha guardato i due. A me il russo non mi fa paura.  Poi, per la prima volta, ha guardato anche me. Voi pensate al parrucchiere. Il finto biondo mi ha guardato come si guarda un paio di scarpe da buttare. Ha messo la mano dietro la schiena ed ha allungato il braccio armato verso di me. Altezza petto. Non ha detto una parola. Ha premuto il grilletto. Ho alzato le mani istintivamente per coprirmi.  Lo sparo non si è sentito, c’è stato un rumore metallico, solo quello, poi la bestemmia del finto biondo e il suo braccio si è ritratto.  Lui che guarda storto la pistola e ci lavora sopra. Cazzo s’è inceppata, ha detto meravigliato.  Il toro moro gli si è avvicinato con fare interessato. Ho girato la schiena e sono corso verso l’uscita.  Ho sentito che gridavano tutti, compresa Letvania. Mi sono messo a gridare anch’io mentre spalancavo la porta e scappavo fuori, ed ho cominciato a correre in mezzo a tutta quella sabbia.  Ecco, ora sai tutto.  Ora puoi schiacciare il tasto play e vedere come va a finire. Eri rimasto al punto in cui mi lasciavo scivolare sulla schiena, il cielo in faccia, aggredito da pensieri sconnessi e rimanevo a terra, liquido. E pensavo proprio che stavo per morire.

Rapide inquadrature asciutte e senza sonoro. Le facce dei due inseguitori/Il cappotto nero che svolazza/La fibbia della scarpa del finto biondo/La pistola nella mano del tarchiato/La mano del finto biondo premuta sulla milza/I pochi metri che ci separano/La mia faccia/La lacrima che mi solca la parte sinistra del viso/I miei occhi sbarrati su un cielo bello da innamorarsi/Due fanali gialli e cattivi. Due fanali gialli e cattivi che tagliano le siepi bruciandomi negli occhi, saltano dentro la stradina pedonale e illuminano rabbiosi i miei inseguitori. Si fermano nel breve rumore dei corpi accartocciati dalle lamiere, in un delirio di polvere gialla. Si aprono le portiere e scende qualcuno. Urlano una lingua di consonanti dure che si rincorrono veloci, e vorrei tapparmi le orecchie quando iniziano a sparare, gridando sempre più incazzati.  Poi arriva una calma assoluta, sento solo il motore che frulla leggero.  Tre ombre si avvicinano senza parlare, credo che mi stiano guardando. Uno mi si accuccia sopra, negli occhi mi balena il riflesso della luna che sbatte contro la canna lucidissima di una enorme pistola. Mi guarda senza dire niente, mi guarda bene in faccia. Con la canna della pistola scosta i lembi del mio giaccone, mi controlla il corpo e annuisce. Sembra soddisfatto di quello che ha visto.  Dice qualcosa agli altri, qualcosa che non posso intendere, perché è come se avesse sbiascicato e sputacchiato delle lettere inesistenti. Gli altri non rispondono e si allontanano. Torna a guardarmi fisso e si mette a parlare con voce bassa, con una confidenza che mi angoscia. Parla in russo ma lo capisco senza sforzo, perché leggo tutto nello sguardo, perché sento la tristezza della voce. Alla fine mi appoggia la mano aperta sul petto per un attimo lunghissimo.  Poi si rialza e ficca la pistola dentro una fondina ascellare sotto il giaccone. Torna a casa paruchiere, mi ordina freddo. Le portiere sbattono, la retromarcia fischia sull’asfalto, i fari gialli ripassano sopra i due cadaveri e sulle mie gambe, poi il timbro del motore si dilata nella notte della Versilia.

Devo andare a casa. Mi metto in piedi e sputo, provo a levarmi sabbia e polvere dalla bocca. Sento tutto il freddo della paura e inizio a tremare. Devo andare a casa, ho detto. Passo a fianco ai due morti disordinati, non assomigliano a quelli di prima. In effetti non assomigliano più a niente. Qualcosa luccica a qualche metro di distanza. E’ una scarpa del finto biondo. Penso agli incidenti mortali in macchina, che spesso le vittime non hanno più le scarpe. I corpi sono coperti dai teli bianchi, adagiati a lato della carreggiata, e le scarpe sono qualche metro più in là, in un altro posto, avulse dal dramma, ancora allacciate, vive. Un morto senza scarpe è una cosa triste e mi mette angoscia. Ma questa volta non lo penso.  Il boato giunge chiaro, mi fa alzare la testa di scatto.  Un fumo denso rischiarato da alte lingue di fuoco ravviva la notte ad un centinaio di metri. Dimitri ha chiuso il locale di Cimaduomo. Quando arrivo alla macchina c’è ancora quella dei due balordi, di traverso davanti alla mia. Salgo in auto e metto in moto. Lentamente passo davanti al locale, ci sono tre macchine ferme in mezzo alla strada, qualcuno che guarda lo spettacolo del falò in riva al mare. Magari Letvania sta bruciando là dentro. Magari assieme a Cimaduomo. Mi allontano con gli occhi gonfi di lacrime che non vogliono uscire.   Il lungomare Lo stradone I lampioni Gli incroci I semafori Le righe bianche della carreggiata Gli alberghi Le discoteche I campeggi Le siepi trascurate Tutto il peso della mia disperazione. Ecco, il freddo della prima lacrima che corre verso la bocca, poi un’altra e un’altra ancora, e strizzo gli occhi e le aiuto ad uscire, accompagnandole con un lamento sommesso ed il petto si alza e si abbassa rapido mentre il corpo è scosso da brividi.  Lampione Semaforo Incrocio Il pickup sbuca grigio dal nulla, non ho il tempo di sorprendermi né di frenare. Vedo distintamente la faccia meravigliata del ragazzo alla guida. Il nostro sguardo si incrocia. L’impatto riempie tutto il silenzio della notte di rumore e colori. Autoscontri. Ottovolante. Fumogeni. Tutto gratis.  Apro a fatica gli occhi e non so, mi sembra tutto molto strano. Il cielo è scomparso, al suo posto l’asfalto e un pezzo di lamiera accartocciata. Deve essere della mia macchina perché è rossa. Ci sono anche dei giornali e dei fogli di carta sparsi un po’ ovunque, al posto delle stelle.  Tossisco, butto fuori un grumo molliccio di sangue e chiudo gli occhi, perché mi fa male la testa e mi gira forte. Tossisco ancora e il fiotto di sangue quasi mi strozza, lo sputo su quello che rimane dell’airbag, un pallone scoppiato di gomma da masticare appiccicato al volante. Penso che la botta deve essere stata bella forte. Penso che questo del pickup chissà da dove veniva. Respiro con difficoltà e ragiono sulla teoria del caos applicabile al mio destino. Potevo stare sdraiato a terra ancora po’ a pensare a Letvania, o potevo stare a guardare l’incendio del locale per qualche minuto ancora, o potevo anche bucare una gomma o fermarmi a piangere come un bambino sul ciglio della strada, il ragazzo del pickup sarebbe sbucato dall’incrocio e non mi avrebbe trovato perché sarei dovuto ancora passare. Minime azioni che determinano il tuo destino. Infinite piccole mosse che segnano la tua vita. Un giocatore di scacchi.  Prevedere  Analizzare Calcolare ogni singola mossa. Esco di casa ora o aspetto un minuto. Prendo l’auto o vado a piedi. Passo da questa strada o giro dall’altra. Mi fermo a chiacchierare o tiro dritto. E rimanere nel dubbio se quella scelta avrà condizionato il tuo futuro. E pensare così per tutte le tue singole azioni. Un fottuto giocatore di scacchi perdente. Regole Variabili Teoria del caos La mia variabile che brucia sulla spiaggia. Smetto di pensare e mi concentro sul mio corpo. Realizzo di essere a testa in giù, la cintura di sicurezza che mi tiene sospeso in una posizione altamente improbabile. Mi domando perché non sento dolore. Non riesco a muovere le gambe. Per la verità non muovo neppure le braccia.  Muscoli ossa e nervi di un manichino da crash test. Posso solo fare piccoli spostamenti dolorosi con gli occhi. Mi pare di sentire una macchina rallentare, sento anche delle voci. Qualcuno si avvicina ma dalla mia posizione scorgo solo i piedi.  Anche questo è ancora dentro, urla qualcuno, deve essere successo da poco. La sua faccia storta sbuca nella mia visuale costretta, mi chiede se lo sento. Abbiamo già chiamato l’ambulanza, resista, dice poi. Non riesco a rispondergli perché il sangue mi ha invaso la bocca e mi impegno solo a cercare di respirare, e poi mi sento stanco ed ho solo voglia di dormire. Di colpo perdo il sonoro, non mi arrivano più parole e rumori. E perdo anche i colori, e tutto svapora in un’unica tonalità di grigio. Non muovo più gli occhi ma continuo a vedere, come una telecamera caduta a terra che riprendere ancora ciò che accade.  I piedi del soccorritore escono dal mio campo visivo, qualche secondo e riappaiono un po’ più in là, lo vedo fino alle ginocchia. L’uomo si accuccia, ora inquadro quasi tutta la figura piegata. Allunga la mano verso terra e scompare dal campo visivo. Sta prendendo qualcosa, credo.  Sì, ora la vedo. E’ una scarpa. Dio, sembra la mia. Mi sforzo di muovere le dita dei piedi per capire quale sia, se la destra o la sinistra, ma non riesco. E’ strano, di morti e di scarpe te ne ho parlato poco fa. E’ una coincidenza bizzarra.  Nella vita tutto suona strano quando ha a che fare con la morte. Sai, mi fanno paura le coincidenze. Le coincidenze sono peggio delle variabili e della teoria del caos, con quelle non hai scampo.  Ma te ne parlerò la prossima volta, ora sono troppo stanco. Schiaccia pure il tasto stop, per favore, magari così smetto di pensare, perché ho un dubbio atroce che mi assilla da qualche minuto.  Un cazzo di dubbio sulla mia variabile.              

(Nella foto: Scarlett Johansson. Sarà una Biondo (a) 901?)    

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48 Commenti

  1. Scusa Franz, ma tu NON hai alcuna nozione in campo cinematografico. ‘Piano americano sul mio volto’. Ahahahah. Ma sai, almeno, cos’è un PA? Se presenti una sceneggiatura con una stronzata simile, ti ridono dietro vita natural durante.

  2. Perdono
    Io
    A dire il vero
    Non volevo
    Offendere nessuno

    Abbiate
    Molta pazienza
    E mi
    Rincresce
    Immensamente
    Che qualcuno si sia
    Arrabbiato
    Nonostante scherzassi
    Okay?

    A
    h
    a
    h
    a
    h
    a
    h
    a
    h

  3. non è colpa di franz. lui ha postato la prima versione del racconto, quella non corretta, che gli ho mandato per errore.
    quello che fa sganasciare frascella è stato chiaramente eliminato nella versione definitiva. però frascella, giovedì, in warner, lo può raccontare lo stesso, se riesce a smettre di ridere.

  4. La variabile di cui si parla all’inizio del racconto mi ricorda la famosa “mossa Kansas City”. Chissà se Frascella riconosce pure ‘sta citazione.

  5. racconto: mosca cieca
    autore: christian frascella
    pubblicato su: terranullius

    frascella cita nel testo una fantomatica chiave a brucola.
    chiave a brucola.
    brucola.
    come possa averlo fatto non so, visto che deve essere un tipo accorto che ama la precisione e non ammette errori neppure in fase di bozza.
    allora, per oggi, la parola che deve imparare è brugola, e gli regalo un estratto dal vocabolario, utilissimo in certi casi: la brugola o chiave a brugola è un particolare tipo di chiave meccanica caratterizzata da una sezione di forma esagonale, il nome deriva da quello del suo inventore, Egidio Brugola.
    domani la parola sarà supervisionare.
    oh, come riderebbero in ufficio, ma non dirò nulla alla uorner, don’t be afraid.

  6. Merini, Mosca AL NASO, non mosca cieca! E il linguaggio è involuto in molti punti per scelta, stupidino. Scommetto che correggeresti il ‘Finnegan’s’, tu. Aahahahh.

  7. pensavo a come scrivi, ad occhi chiusi, ecco spiegato il mosca cieca.
    carina la scusa della scrittura involuta, scommetto che al bar dell’ufficio della uorner ti ci sei pavoneggiato con quelli del piano alto.
    e poi giù a ridere, eh, che quello lo sai fare bene.

  8. com’è triste lasciar le proprie risate su Internet…persino replicate, senza potersi trattenere. Procedimento rifatto più volte, sempre dentro lo spazio per un commento, che si apre con un click, si aspetta che si carichi, poi appare, poi ci scrivi sopra la bella risata, poi rifai il click, infine aspetti di vederla, la bella risata di qualche secondo fa. Quindi, per spasimo di intensità, la replichi, con stesso procedimento. Credo che su questa figura ci sia da poter costruire una novellina niente male.
    Così, senza saper né leggere né scrivere… senza dire chi sia, quanti anni abbia e da dove arrivi. Una risata distinta dal suo proprietario.
    (Etc. etc..)

  9. un altro tabù è crollato, almeno a mia memoria, visto che ni pubblica il primo racconto firmato da un nick name. e che racconto, poi. una vera ‘cosmogonia tascabile’. peccato che, qui, a mancare, sia proprio la cosmogonia.

    ah, una curiosità. perché mai, per ridere, o prima di ridere, bisogna declinare le generalità? mi sfugge il nesso. se c’è…

  10. Come volete voi, per carità, però quel primo piano ( nessuno replichi, è un primo piano ) sulle tette della Scarlett è favoloso.

  11. Sei del mestiere Frascella? E chi se ne frega. Qui non c’è tutto questo tempo per limare e controlimare. Nessuno che parli della qualità del racconto. Ma siamo impazziti? Nazione Indiana è un blog letterario, e la differenza con il cartaceo è netta. Se confondete il web con il mondo di fuori è affare vostro.
    Discutete sulla qualità letteraria del racconto, piuttosto. Frascella, tu che sei DEL MESTIERE, “raccontami” se la storia tiene. Tiene? Ne vogliamo parlare, della qualità del racconto? Il racconto è una porcata? Merisi non sa scrivere? Il racconto non l’avete letto perchè troppo lungo, è così che è andata. Sbaglio? Il piccolo errore (dell’autore e mio) è stato quello di proporlo per il web. Ma anche lì: se io so che per il web ci vogliono testi più brevi, è anche vero che quando m’imbatto in un racconto come Biondo 901 non ho mica voglia di pubblicarlo in due puntate. Confido nei lettori. Frascella, vai a farti una passeggiata con un altro grand’uomo “del mestiere”, vai.

  12. Allora: Merisi è il nome d’arte di Alessandro Zannoni, di Sarzana (La Spezia).
    Questo per chiarire.
    Frascella: stai sporcando il sitom dappertutto con le tue stronzate. Non costringerci a passare alle maniere dure. Ci stiamo consultando per trovare dei correttivi efficaci. Stà in campana e salutami la Warner Bros. (sempre preferito la MGM, chissà perchè…)

  13. A me il racconto è sembrato originale, anche se troppo lungo, in effetti, da leggersi sul web. Però la tensione c’è.
    E poi, ora che so che Christian Frascella lavora alla Warner, sto decisamente meglio !:o)

  14. Concordo con te, Franz caro Franz, che i racconti lunghi fanno fatica ad esser letti sulla web. E’ un problema fisiologico, ma ho trovato carina quella tua frase “confido nei lettori”. Capisco che non andava tagliato in due parti, sei stato molto protettivo e questo ti fa onore. Però io, confesso, sono dalla parte di quelli nei quali hai fatto male a confidare… e sono caduta nella trappola dell’isteria sgozzata e a puntate di quel tale della Warner, che se la Warner lo sapesse, lo licenzierebbe.

  15. un’altra cosa: è vero, se dovessimo esser posti all’analisi tecnicistica del mestiere, non ci saremmo mai divertiti per blog come in questi anni. Non saremmo mai stati liberi, avremmo avuto l’occhio padrone del superesperto a dir la sua, come se non bastasse già nella vita (anche se io l’avrei invitato al salotto del mio mestiere, qualora lo avessi trovato un solo secondo a discettar di piramidi ed extraterrestri).

  16. Ecco Missy. Lui fà il gradasso parlando di essere della Warner e si permette di sporcare tutta Nazione Indiana.

  17. @ fk
    però “stà in campana” è un errore: ” sta’ “, si scrive, perché è un’elisione di “stai”…o nella scrittura dei blog letterari è consentito tutto?

    C’è una differenza tra letteratura blog e letteratura cartacea?
    Forse.
    Ma non così netta come si potrebbe pensare.
    Anche tra questi due mondi esiste ormai una contaminazione giocata, però, al ribasso.
    La qualità è sempre più scadente (anche nei blog), e la ragione è che se tutti scriviamo, non può essere altrimenti: non è infatti statisticamente possibile che in Italia ci siano migliaia e miglia di scrittori.
    Qualcuno ci sta pigliando in giro.

  18. @fk
    non perderei troppo tempo sul problema della lunghezza dei testi web. Una cosa è ragionare per una mail di lavoro, un’altra per un testo scolastico su piattaforma e-learning, un’altra ancora la pubblicazione di un racconto on line.

    Un racconto su blog può anche essere lunghissimo, perché i navigatori sono più disposti a leggere, a non perdere l’attenzione, rispetto, che so, al comunicato stampa inviato per newsletter.

    L’estensione dunque dipende dalla forma e dal genere web scelto e non risponde a invarianti fisse. D’altra parte se mi annoio posso rollare con la barra a destra, in alto e in basso, in cerca di quello che m’interessa di più.

    Tutto questo per dire che il caro Warneriano mi sembra un po’ troppo nostalgico della lettura lineare.

    Per quanto mi riguarda, a circa metà del racconto ho lasciato perdere.
    Ma la ‘scrittura visiva’ di Merisi*** non era male.

    Saluti

    ***Perché fornire le generalità? Un brutto vizio.

  19. Scerba, è vero. Chiedo scusa, manca l’editing, manca…
    Per il resto, tu e The O.C. avete studiato a fondo il problema. Non ho tempo ora per soffermarmi. Ci rifletto sopra e poi se volete ne discutiamo. Voi i teorici (forse…) io il pratico, perlomeno di Nazione Indiana, dal 2004. Per la precisione dell’informazione.

  20. Ho riflettuto. Scerbanenko, ti dico come la penso io. Al momento presente io vedo il web – e i litblog – come un laboratorio di scrittura. Non è importante la punteggiatura, è importante sperimentare. Nazione Indiana è stato ed è un grande laboratorio, a mio modo di vedere. Io almeno l’ho intesa così.
    La cosa fantastica, a mio avviso, dei lit-blog, è che si possono sperimentare scritture di tutti i tipi. E allo stesso tempo, si possono mettere in pubblicazione pezzi provenienti dai giornali. Il tale redattore ha scritto un pezzo sul tale giornale? Bene: lo puo’ utilizzare due volte. Puoi far rivivere i pezzi. Diciamolo: Nazione Indiana, Vibrisse, La poesia e lo spirito, Il primo amore ecc. non sono equiparabili ai blog dei singoli. Si tratta di due “fasce di mercato” diverse.
    Nell’incazzatura against Frascella ho scritto una cosa parzialmente vera. Non che io pretenda di avere la verità in mano. Ma vedete, se voi vi mettete a ragionare sui blog, mi fate felice. Perchè quest’ esperienza in rete è stimolante per varie ragioni. Non vedo da nessuna parte, caro Scerbanenko, una tendenza al ribasso della qualità. Anzi. Secondo me Nazione Indiana, essendo un laboratorio, puo’ essere materia di studio sulla scrittura sia per i redattori stessi (io per esempio l’anno scorso ho postato una serie di brevi racconti andandoli a correggere mano a mano dopo la pubblicazione, altri redattori hanno fatto altro )Sul web si puo’ imparare a rischiare, anzi si deve rischiare di più. Perchè la carta non perdona, un refuso rimane lì per sempre. Ma sul web puoi cambiare a tuo piacimento, se vuoi. E allora ecco il laboratorio di cui dicevo. In questo senso c’è grande differenza col cartaceo.
    Sono d’accordo con Scerba quando dice che i due mondi (cartaceo e litblog) sono molto più vicini di quanto si pensi. Ma perchè? Perchè si tratta di scrittura. Dai litblog si passa alla carta e viceversa, come ho spiegato. Le contaminazioni ci sono e sono varie. E siamo solo all’inizio.

  21. @ the o.c.
    e tutti gli altri

    mi sono fatto ingolosire dalla voglia di vedere un mio racconto su n.i. ed ho sbagliato. sapevo che l’impaginazione nel blog avrebbe appiattito il testo togliendo forza alla scrittura: ho usato gli a capo in maniera che scandissero in una determinata maniera la lettura, ne regolassero il flusso e le emozioni, e ci ho speso un sacco di energie, perchè credo nella forza della punteggiatura.
    è andata così, pazienza.
    ringrazio chi ha trovato la voglia di leggere, anche solo la prima parte o pezzi qua e là. pubblicamente ringrazio fk che ha dato spazio ad uno sconosciuto.

  22. @ fk

    Ci sono. e concordo su quanto scrivi.
    Sarebbe interessante allora ripostare questo racconto con le correzioni apportate dal suo autore.
    Vedere concretamente, cioè, come via via prende “forma”: e non solo per quanto riguarda la punteggiatura e i refusi, ma anche per ciò che concerne la struttura stessa del racconto.
    si potrebbe tendere, in questo senso, a una scrittura perfetta. a un lavoro di limatura che può non avere mai fine. e per quanto questo modo di operare sia lo stesso di molti scrittori “cartacei”, che cesellano le loro creature chiedendo a se stessi il massimo, in questo modo, invece di farlo nella solitudine della loro pagina, possono farlo in presa diretta di fronte a migliaia di utenti.
    non nascondo che è una cosa interessante.
    però, a pensarci bene, anche un po’ perversa.
    perché, se a farlo è Truman Capote, allora siamo d’accordo (quanto avrà sottratto Capote per arrivare alla stesura definitiva di “Mr Jones” che, a mio modo di vedere, è un racconto perfetto?), ma se invece a farlo siamo noi (anche io “ogni tanto” scrivo, e guarda, uso il “noi”, proprio perché non voglio che queste mie parole possano essere prese come un atto di superbia) ho dei dubbi che possa essere un esercizio stimolante.
    voglio dire che qui il punto è stabilire un confine tra ciò che è letterario e ciò che non lo è. giacché la cosa che a me fa riflettere maggiormente a proposito dei litblog è questa: con l’alibi della libertà e della sperimentazione, noi stiamo varcando una soglia che, una volta oltrepassata, azzererà ogni possibile distinzione. anche solo per il fatto che tutti si riterranno “scrittori”.
    insomma, mi rendo conto che è un discorso complesso. complesso e stimolante. ma anche dannatamente allarmante. e sul quale è giusto e doveroso confrontarsi.
    perché forse è dal confronto a più voci che si può separare ciò che è letterario da ciò che non lo è.

  23. Ma no. Ci sarà la selezione naturale della specie. Vedrai se non ho ragione.
    Domattina posto il Merisi nuovo fiammante secondo le tue indicazioni.
    Buonanotte cari:-)

  24. è vero, il lavoro di limatura potrebbe non avere mai fine.
    la versione postata di biondo 901 è del marzo 2005, quella ‘definitiva’ è di qualche mese dopo, ma ogni volta che lo vado a rileggere toglierei qualcosa, qualcosa aggiungerei, modificherei, renderei più snello certi punti, accentuerei altri passaggi… e modificherei anche tanta punteggiatura, perchè all’epoca amavo la sintassi secca, ora tendo ad allungare la frase e a contenere le pause allo stretto necessario, dando alla lettura un ritmo più sinuoso e denso che anni fa non amavo.
    voglio dire che per l’autore non esiste una scrittura perfetta, troverà sempre qualcosa da ‘sistemare’ meglio.

    certo che è interessante vedere la genesi di uno scritto – cosa cambia, cosa si evolve, cosa rimane a tenere fermo il tutto – e credo che non sia troppo importante chi è l’autore, interessante sarebbe vedere i meccanismi e le scelte fatte.
    importante è anche trovare autori che tengono le brutte copie e le bozze, perchè con l’avvento del computer in tanti buttano via il vecchio.

  25. Dell’editing e della selezione dei testi da pubblicare si deve occupare la redazione di NI.

    Quello che aggiungevo a margine di Lagioia riguarda i commenti, che a mio parere sono la marcia in più di quella che chiamate litblog.

    In questo caso non tutto, e non subito, dovrebbe essere “in chiaro”, alla luce del web. Ma un lavorio preventivo e sotterraneo. Per evitare che scazzi e scazzetti, gattini ciechi e imprevedibili retromarce, finiscano per ‘depistare’ la discussione che si sviluppa intorno a un pezzo.

    Questo non significa limitare o censurare nessuno. A differenza di altri io credo che si può essere, tutti, ’scrittori per un giorno’. Sono sempre stato un fan di Pupkin. Dopo un po’ i Langford mi appallano.
    http://it.movies.yahoo.com/r/re-per-una-notte/index-112905.html

    Dice Scerba che forse sarebbe opportuno distinguere tra ciò che è letterario e cio che non lo è; la stessa cosa che prospettava Lagioia nel suo intervento.

    Questo però mi toglierebbe gran parte del divertimento: i nick e i tic, il gossip intramuscolo nelle arterie editoriali e il vaffamokk, insomma il cazzeggio che poi è il succo dell’hot blog.

    Non so voi, ma io qui ci vengo al 70% per questo (i commenti), mica per leggere Lagioia che ho già digerito a sufficienza. Saviano, Lagioia e i postatori sono solo uno stimolo. I protagonisti sono altri. Il protagonista è la condivisione. Che non è fatta di nomi e cognome.

    Capisco però che ci sono tanti, ma tanti Priori del culturame che predicano bene (libertà di commento per tutti) e razzolano male, selezionando i pezzi (non i commenti) in base a una precisa linea ideologica, prima che editoriale.

    Di questo non mi lamento, mi ci è voluto un po’ di tempo per esserne sicuro, ma è chiaro che è così. E in fondo questo è l’aspetto meno sorprendente di un blog come NI. Ma proprio in virtù di questa scoperta (dell’acqua calda) andrei oltre: estendere la selezione e l’editing anche ai commenti. ‘Moderati’ secondo nuovi e diversi criteri dalla redazione:

    1. Criptiamo il chat-style senza censurare nessuno: chi si diverte in questo modo, io per primo, potrebbe essere disposto anche a diventare un vero sostenitore di NI, perché criptare vuol dire pagare. Datemi i riferimenti bancari, non aspetto altro.

    2. Selezioniamo (ops, selezionate) i commenti più adatti al testo apparso in Home page. Il criterio? il merito. E chi lo decide chi merita? La redazione. E chi controlla i controllori? Lo chiamano direttore editoriale. E chi lo sceglie il direttore editoriale. Inventiamoci ‘na cosa tipo Primarie, ovviamente solo ai lettori muniti di password.

    3. I suddetti commenti, remixati e corretti, li pubblichiamo in chiaro. Per ordine di attinenza e di valenza.

    4. Proponiamo ai commentatori impubblicabili e impubblicati di riscrivere il loro “sfogo” con tanto di editing. Dalla teoria alla pratica.

    5. Definiamo delle guidelines sulla scrittura web, non quella mondiale, ma nel particolare: il web writing nazionale.

    Ce n’è da fare.

    Per adesso mi tocca salutare

  26. @ The O.C. : Ma tu fai parte della redazione di Nazione Indiana?

    Senti, alcuni tuoi punti io li condivido.
    Voglio essere di questa partita.
    voglio essere parte attiva.
    Non solo “criticare”, ma anche e soprattutto costruire.

  27. “The O.C. : Ma tu fai parte della redazione di Nazione Indiana?”

    ahi, ahi, ahi, signora longari…………..

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