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El boligrafo boliviano 3

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di Silvio Mignano

30 gennaio 2007

Presentazione delle lettere credenziali.
L’incontro con il cancelliere Choquehuanca, la mattina, è solo un antipasto della cerimonia che ci attende nel pomeriggio, quando incontreremo Evo Morales.
Un’auto del cerimoniale ci viene a prendere in residenza alle due e mezza. Saluto la bella ragazza che ne scende, una giovane diplomatica cochabambina, al suo primo anno di servizio. Lei mi chiede imbarazzata dove sia l’ambasciatore, di certo ha paura che si stia facendo tardi. Sono io, rispondo.
«Mil disculpas», balbetta arrossendo.
Le dico che non ha di che scusarsi. Partiamo. Dietro di noi Dania e Matteo Romitelli, il primo segretario, nella macchina dell’ambasciata.
«Quando mi hanno comunicato che avrei dovuto accompagnarla, ho detto: aiuto, come faccio? Io non so una parola di italiano», mi racconta la cochabambina mentre risaliamo la conca della città capovolta, «E allora mi hanno risposto: sta’ tranquilla, l’ambasciatore quando parla sembra un cubano».
Arrossisce di nuovo, adesso deve aver paura di essersi presa troppa confidenza. Le sorrido per farle capire che va tutto bene. Lei aggiunge che il suo sogno è lavorare un giorno nell’ambasciata boliviana a Roma, ma le hanno detto che l’Italia è molto cara. E’ così, ambasciatore? Un piccolo gregge di pecore scure, ricoperte di una lana ispida e frusta, se ne va in cerca di un po’ d’erba accanto alle balze del fiume Choqueyapu, sotto il cartellone pubblicitario di una banca di prestiti.
C’è molto traffico, il poliziotto motociclista che ci apre il cammino si sbraccia, suona, urla comandi che gli automobilisti registrano ogni volta con un attimo di ritardo. L’ingorgo sulle rampe che portano a Plaza Murillo è troppo fitto. Ojo, esta casa no está en venta, se encuentra en juicio, ammonisce una scritta enorme spennellata sulla facciata di un edificio cadente, in mattoni di tufo grigio, tra gli occhi chiusi delle finestre sbarrate. Alla faccia della privacy. Cambiamo tragitto e piombiamo sul ministero degli esteri dall’alto.
Nel salone verde della cancelleria riceviamo le ultime istruzioni sulle modalità di svolgimento del sofisticato protocollo, già anticipatemi la mattina da un altro diplomatico dell’ultima covata boliviana, con tanto di simulazione al computer. Qui è il vice direttore del cerimoniale, quello con la faccia buona, i grandi occhiali e la testa pelata e carnosa, a farci ripetere le manovre sul tappeto della sala, come alfieri su una scacchiera.
Alle tre in punto arriva la chiamata: il presidente ci ha convocati. Usciamo in formazione, io in prima fila in mezzo al vice direttore e a un generale dell’esercito, Matteo dietro tra due ufficiali, poi Dania tra i rampolli della diplomazia locale. Ha smesso di piovere da mezz’ora e la luce del pomeriggio è cruda come solo a quasi quattromila metri. Una guida rossa attraversa ad angoli retti Plaza Murillo. Due ali di soldati in uniforme ottocentesca ci presentano le armi lungo tutto il percorso, e alle loro spalle una folla di spettatori applaude. Avanzando lentamente, al passo di una marcia che viene dalla banda della guardia presidenziale dei colorados, rubo qua e là corpi e volti, una vecchia che sorride dal fondo del suo forno sdentato, un signore in abito scuro e cravatta, un gruppo di cholitas in mantella e bombetta che commentano ammiccando allegre.
Si ha voglia di rifuggire da ogni forma di retorica e di imporsi di tenere a bada i sentimenti più elementari, troppo elementari: confesso che è difficile trovare una parola da mettere al posto di queste: mi sento emozionato. La piazza, la luce, i colori, la musica, il nostro passo lento, io che avanzo in testa stringendo la busta delle credenziali sotto gli occhi di tutta questa gente, il presentat’arm in divisa rossa, le facce, la musica, gli applausi, il palazzo che si avvicina, la musica.
Ci avviciniamo a uno stendardo. Un inchino, come ci è stato insegnato, poi svoltiamo ad angolo retto ed entriamo nel Palacio Quemado. Cambio della guardia, il vice direttore del cerimoniale mi affida al direttore, un indio dolce con gli occhiali che non riescono a celare la miopia, camicione scuro con sciarpa beige da sacerdote, e il generale al capo di stato maggiore. Il corteo, più robusto, sale la scalinata disegnata da un architetto italiano, uno dei tanti, segue alcuni ballatoi e corridoi, si ferma e si scioglie per un poco in una prima sala, poi si ricompone e accede al salone degli specchi.
Morales è piccolo in fondo al vasto ambiente, in piedi accanto al cancelliere, l’uno con una giacca tradizionale scura con motivi arcobaleno sul petto, l’altro in giubbotto di pelle. Rispettando il cerimoniale facciamo un primo inchino, poi un secondo all’altezza di due colonne. Ci fermiamo. Abbiamo seguito perfettamente le istruzioni. Il capo del cerimoniale avanza di due passi e balbettando sulle prime sillabe pronuncia la formula: Eccellentissimo signor presidente, ho l’onore di presentarle l’eccellentissimo don Silvio Mignano, ambasciatore straordinario plenipotenziario della Repubblica d’Italia in Bolivia. Tocca a me. Due passi, un inchino, porgo la busta: Eccellentissimo signor presidente, ho il grande onore di consegnarle le lettere credenziali che mi accreditano ambasciatore… Con un gesto che potrebbe apparire d’impazienza, se non fosse accompagnato da un sorriso disarmante, Morales mi fa cenno che per lui basta così, non importa seguire oltre con le formalità, e mi invita a sedere accanto a lui. Al segnale, tutti gli altri si accomodano in semicerchio. Dania, che non sarebbe prevista dal cerimoniale, si siede in fondo alla sala, tra la giovane cochabambina e una funzionaria del palazzo. Insieme sono tre belle ragazze rimpicciolite, perdute nella lontananza.
La conversazione con il presidente va avanti per mezz’ora, tra frasi di circostanza e altre molto più sincere, sempre con quel sorriso che a me – se mi allontano dal mio ruolo e lascio parlare solo il mio essere uomo – pare perfino timido, incastrato nel volto da indio scolpito con tratti decisi alternati a curve più morbide. Continua a ripetermi quanto sia importante per lui e per la Bolivia l’amicizia degli italiani. Mi congeda pregandomi di chiamarlo ogni volta che ne senta il bisogno, senza intermediazioni.
Riprendendo il protocollo gli presento il primo segretario, poi retrocedo al mio posto, facciamo tutti un nuovo inchino, mezzo giro a sinistra, ripercorriamo il salone fino in fondo, mezzo giro, inchino, mezzo giro, si esce. Dania rientra nella sua fila, ma mentre lo fa azzarda un saluto con la mano, al quale Morales inaspettatamente risponde con un sorriso. Poi il presidente si volta verso il cancelliere e gli chiede qualcosa sottovoce, probabilmente: Ma chi è?
Di nuovo in piazza, dopo le foto ufficiali sulla scalinata. La banda esegue gli inni nazionali. Tutti i boliviani cantano il loro, allora io, Matteo e Dania facciamo lo stesso, appena intimiditi, con il nostro. Non è mica finita, perché adesso avanza un ufficiale in uniforme rossa dell’Ottocento. Urla: Eccellentissimo signor ambasciatore d’Italia. Prende fiato, gli si sta gonfiando lo sternocleidomastoideo, perline di sudore si formano sulla fronte arrossata. Urla: don Silvio Mignano. Lo sentono certamente fin dall’altro lato della strada, meglio che se avesse un megafono. Urla: a nome del glorioso corpo de los Colorados, ho l’onore di darle il benvenuto in Bolivia! La folla applaude, la cerimonia è conclusa.

Un’ora più tardi devo tornare al palazzo per incontrarmi con un ministro. Mi accoglie la seconda ragazza, quella del cerimoniale presidenziale. Appena mi vede mi rimprovera, senza smettere di sorridere, perché non ho presentato Dania a Evo Morales. Balbetto: ma come, al ministero degli esteri si erano tanto raccomandati di rispettare il cerimoniale, e che le consorti non sarebbero previste… Mi interrompe: i diplomatici, i diplomatici! Voi fate il vostro mestiere, ma il presidente è uno di noi, non è mica una mummia, lo sa? Lui avrebbe volentieri salutato sua moglie, protocollo o non protocollo.

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5 Commenti

  1. Grazie Gianni, apprezzo molto queste proposte andine. Chissà se a Mignano piace Mauro Curradi…

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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