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Poesie di Massimo Rizzante

Telemaco in Islanda

Qui sotto non c’è che Atlantico,
o quanto resta del distacco terrestre rispetto ai limiti del mondo
Dalla parte di Dio, nel frattempo, la solita lezione: nuvole
Solo ciò che fugge muore, pazienza dunque per le isole

In settembre le sterne hanno già nidificato,
e sulla spiaggia di Reykjavik i pensieri si schiudono come uova:
inevitabile attributo qui l’uomo è un intruso,
essendo la sua storia un sostantivo declinabile solo all’accusativo

Tormentata dalla sua stessa assenza di vegetazione, la natura
chiude un occhio quando un auto si ferma in mezzo al deserto di lava.
«Siamo così pochi che nessuno ha bisogno di cercarsi» «Perciò Hallgrímur
(come noi tutti) imprecò in un’altra lingua, prima di trovare il suo stile»

Ma non è che il principio, l’apoteosi dell’anatroccolo,
una coppia di sule in posa su una roccia per due amanti del bird-watching,
la specie di lichene che attecchisce alla velocità della luce (merluzzi dovunque!):
tutto suggerisce che dopo di te è qui che vivrà il tuo istinto di conservazione

Il sonno di Telemaco

Nel mese di dicembre di un anno bisestile,
in un angolo sempreverde del meraviglioso giardino di Goethe,
Telemaco arrese il suo inguine al sonno

Sembra che nessuna primavera attendesse il suo risveglio

«La poesia serberà la forma dell’uomo
anche quando l’uomo se ne sarà andato»,
avevano sussurrato le inservienti del sottosuolo

Abitava in una stanza d’albergo. Era in viaggio

Quanto al professor Ulisse,
fonti accademiche affermano che abbia sussurrato a St. Andrews:
«Nel 1989 si iscrisse a un corso regolare di creative writing
Ma fu cacciato dopo aver tardato a consegnare il primo elaborato
Da allora visse di espedienti, rinunciando all’eternità di Cambridge
Sembra che prima di scrivere i suoi versi più celebri:
(«Intrattenetemi ombre, sebbene sia giorno
solo nel sonno siamo davvero in colloquio»)
un paio di amiche dal coito pindarico
lo abbiano reso folle con marmellate di ribes sul collo»

Nel mese di dicembre di un anno bisestile
Telemaco arrese il suo inguine al sonno

Sembra che nessuna primavera attendesse il suo risveglio

Dalla sezione Non siamo gli ultimi

I

La tirannide dell’udito dovrebbe avere almeno un buffone,
invece la laguna è un refettorio di mutismi
Non ha mai preso gli uomini sul serio,
anche se per secoli li ha coperti di muffe e oro come sovrani

Perciò in mancanza della vera storia si ritorna alla cronaca
di chi alla prosodia delle bifore preferisce il risucchio della vongola,
di chi in fuga dalla gleba galleggia urlando dalla melma:
«Ho vissuto il mio tempo nel regno della granseola!»

Qui anche il più solo degli uomini ha sempre un ponte alle sue spalle
Camminerebbe sull’acqua se al posto dell’intelletto avesse una corona di spine,
se questo servisse a evitare i piccioni
e i loro poligoni a forma di calli

Puoi leggere allora di guerre mai avvenute, di nuovi reami di Dalmazia,
della cacofonica fretta dei muri di allontanarsi dalle fondamenta,
di bellezze ammassate come immondizia agli angoli della Dogana,
mentre l’occhio-mendicante ringrazia con una lacrima la luce quotidiana

II

«Ubi sunt leones»: il memento dei Mori si perde nell’orecchio di San Marco
Per quanto il patrono abbia predicato nel deserto,
non ci sono dubbi: le vasche per il pediluvio arrivano al ginocchio,
così l’antico testamento delle maree avanza verso la pietra promessa

La fine è certa, l’azzurro ridonda, ma è l’essenza
La lingua se ti senti perduto non conta: sei nel cerchio di Pluto,
cioè dopo secoli allo stesso punto di partenza:
solo a Venezia infatti il contrappasso assomiglia alla salvezza

Perciò sii paziente, queste colonne si ripetono
e tu non riesci a fare altrettanto. Fruga nelle tasche e con un colpo di coda sii uomo:
non siamo gli ultimi a pregare per le ombre!
(anche se come bruti alla Giudecca abbiamo tradito la bellezza)

Agitando catene d’oro, carovane di schiavi di ritorno dalle biennali
fanno incetta di «C’était frappant», sacchetti di plastica, eresie sulla land art
Nel bacino purtroppo non ci sono testimoni, solo barche capovolte
Neppure un apostolo che sfreghi un cerino e illumini il volto della Salute

Dalla sezione Consolazioni

Marjia

Anni brevi e lunghi,
la specie s’accalca sopra i ponti di Andric

Due ortografie t-shirts cerchi concentrici,
occhi perduti in una lingua senza verbi ausiliari
Soltanto sensi unici

Perdonerai mai alle nuvole la loro prosopopea?

Insieme serbando e voivoidinando
la specie s’accalca sopra i ponti di Andric

Dalla sezione L’arte del distacco

Tutto risolto

Tutto risolto
Né con i morti né con i vivi, ma in ascolto
Ecco cosa, appena libero dal mio corpo,
bisbiglierò alle pernici nascoste nel bosco di St. Andrews

Come un vero writer in residence
non devo avere idee troppo sorprendenti,
si dimentica in fretta («Che cosa ricordava Cornelio,
accarezzando la statua dell’amico?»),

La domanda, poi, è sempre la stessa:
«Champollion, mon cher, puoi dirmi
in questo deserto senza alcun granello di buon senso
che cosa significhi abbandonare perfino il presentimento della grandezza?»

Allora l’Europa metteva radici,
i poeti avevano vent’anni,
gli esuli pretendenti erano in carne,
c’era ancora un desiderio di bellezza

(Poi dittatori in armi, teschi rovesciati,
liquidi amniotici, balli in pelliccia su carlinghe arroventate,
usurpati e usurpatori, unti dallo stesso olio santo,
Vladimir e Franz salvati da uno scambio di documenti)

Ora gli aruspici rivoltano l’osso,
ma da un pezzo hanno smesso di morire («Crasso, dove sono i tuoi veterani?)
perciò non dobbiamo avere idee troppo sorprendenti («Cher général, per quanto
megalomani gli egizi non parlano francese»), e soffrire

O solo questo:
essere autunno per chiunque voglia capire,
almeno finché le pernici di St. Andrews resteranno prede
e generazioni di foglie ci saranno testimoni,

finché l’autunno sarà la stagione dei morti,
finché saremo morti e non ci risveglieranno,
anche se non il risveglio ti auguro, Telemaco,
ma di discendere con gli amici i gironi del sonno

Mia studentessa cubista

Mia studentessa cubista,
nessuno meglio di te sa che la mela è una mela

Dopo tutto, da tempo la lotta con la forma
ha preso la forma di un epitaffio

Ah, professor Ulisse! Il tuo commento mi accompagnerà fino alla tomba,
immenso, travolgente al grido di «Athanatos, Athanatos»

Da morto anch’io riceverò una laurea ad honorem,
le mie unghie cresceranno più avide del tuo rancore

adolescenti dalle natiche tatuate scenderanno nell’Ade
accerchiandomi con instancabili mulinelli di parole («Asílah, Asílah!»)

Ma dalle rovine del mio presente,
e dal profondo del mio non essere

ho deciso di farti una promessa:
prima del minuto di raccoglimento

che mi dedicherete, tu e quei raffinati idioti della tua specie,
autoflagellandovi come ostriche senza perle,

radunerò tutti i paria vissuti alle intemperie,
quegli innocenti la cui ansia di perfezione

vi faceva ridere a crepapelle, quegli «scheletrici
propagatori di tenerezza» (come li battezzavate nei couloirs),

e li farò inginocchiare davanti alle vulve liberali delle vostre consorti
perché la lingua del povero diavolo benché priva di pointes

sa dilatarsi fino a esplorare il labirinto dell’amore
e nell’oscurità dell’ignoranza sfiorare il mistero delle Cose Grandi

Le poesie qui presentate sono state lette alla “Casa della Poesia” di Milano la sera del giorno 8 Maggio nell’ambito della manifestazione “La poesia di ricerca in Italia 2” a cura di Andrea Inglese

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13 Commenti

  1. Sembra che prima di scrivere i suoi versi più celebri:
    («Intrattenetemi ombre, sebbene sia giorno
    solo nel sonno siamo davvero in colloquio»)
    un paio di amiche dal coito pindarico
    lo abbiano reso folle con marmellate di ribes sul collo»

    che bella visione
    e che bei versi tutti.
    merci!

  2. Qui si respira
    la grecità dell’aria
    i miti sepolti le forme la giusta misura quell’eco dal suolo
    di terra sussurro
    nel viaggio la tua voce…

    ‘in un angolo sempreverde del meraviglioso giardino di Goethe’

  3. incubazione di molteplici creature presso i totem sotto processati dell’incarnazione della “civiltà”
    versi alcuni notevoli, industriosi e tenuti con proprietà stilistica colorata ardita ed elegantemente giocoliera.
    alcune altezze alterate, spanando e bannando il binario.
    ma vale la candela vale la luce per i mendici e l’aria contumace nei coiti pindarici.
    capacità d’ironia e latente ma non sempre evocazioni e invocazioni estremamente capaci.
    versi non semplici al righello, per fortuna e che sanno
    che l’oggetto e la forma sono tentativi di svuotamento più che di riempire.
    un saluto
    paola

  4. è incantevole ascoltare la poesia di Massimo,
    dai toni pacati si addentra lasciando che i miti ci tornino agli occhi
    sulla spiaggia di Reykjavik ha guidato i miei pensieri
    fino all’orecchio di San Marco….

    da ‘Marjia’

    ‘ Perdonerai mai alle nuvole la loro prosopopea?’

  5. Certo, ascoltarle dalla viva voce dell’autore è stata una cosa molto bella. Osservo però, riferendomi in generale a quella sera alla palazzina Liberty, che non sempre gli autori sanno dire le loro poesie in modo sufficientemente efficace, comunicativo. A parte effeffe, naturalmente, che lui ce l’ha nel sangue il dire comunicativamente, e Max, che ha come una composta commozione.

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