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Un milione di euro

di Nicola Lagioia

[dal numero di marzo/aprile de ilmaleppeggio.it]

Ore due e trenta del pomeriggio, Arturo mi invita a un pranzo di lavoro. Siamo in un noto ristorante di piazza del Popolo i cui prezzi sul menù, sommati tra di loro, danno più o meno il quintuplo delle mie entrate mensili. Esclusi i vini. Mi dice: “Sara, abbiamo i finanziamenti…” Il suo sguardo invita a mantenere la suspense. Sorrido senza dire una parola. Tutto felice di circonfondersi nella luce di questa pausa scenica, riprende a parlare. Spara la cifra: “Un milione di euro”. In mezzo ci sono il Comune di Roma, un paio di fondazioni, gli sponsor privati. Sarà un grande festival (teatro, musica, letteratura…) e io, io che sono la sua pupilla – non lo dice in tono confidenziale ma esplosivo, come si fosse ritrovato sotto casa una figlia scomparsa da anni – io dovrò occuparmi degli artisti. Un paio di raccomandazioni. Per prima cosa, il festival dovrà ruotare intorno ai temi del lavoro e del dialogo tra i popoli. Secondo: pensare in grande. Patti Smith è alla nostra portata, Garcìa Márquez è alla nostra portata, Roberto Benigni è alla nostra portata… Prima di andare via, lascia una mancia di venti euro al cameriere.

Arturo
Arturo è un personaggio storico, quasi un’istituzione nel mondo della cultura. Basta sfogliare l’album dei ricordi per vederlo in compagnia di Federico Fellini, di Eduardo, di Moravia, di Carmelo Bene… La prima volta che sono andata a casa sua ha letto ad alta voce una lunga lettera che Giangiacomo Feltrinelli gli aveva spedito da Cuba nel 1963. Lo ascoltavo e mi tremavano le gambe. È stato come saltare il fosso intorno a cui avevo ruotato per tutti gli anni dell’università: dalla teoria dei manuali alla vita vera. Quando ha posato la lettera sul tavolo e mi ha guardato in faccia, deve aver rintracciato nei miei occhi un particolare bagliore a cui ha sentito di dover rispondere: “Faremo grandi cose insieme…”

Mio padre
Telefono a mio padre, gli dico del festival. Lui chiede se anche questa volta c’è di mezzo Arturo. Lo chiede con un sospiro. So dove vuole arrivare: in cinque anni che lavoriamo insieme, Arturo mi ha passato uno stipendio variabile tra i tre e i trecentocinquanta euro mensili, e non ho mai visto lo straccio di un contratto. Cerco di smorzare la nascente polemica simulando un entusiasmo che a un certo punto riconosco come la mia unica risorsa. Dico a mio padre che ci saranno grandi nomi, che inviteremo quasi sicuramente Garcìa Márquez, gli faccio intendere che sarò proprio io a telefonare in Colombia, parlerò con il grande scrittore, il che è assolutamente implausibile dal momento che al limite tratteremo col suo agente, ma questi sono dettagli ai quali a un certo punto non credo più nemmeno io, invece alzo la voce, raddoppio l’entusiasmo, che a questo punto non è più l’effetto di una simulazione ma un sentimento cieco e autentico e rabbioso come certi atti di fede, ripeto Garcìa Márquez Garcìa Márquez Garcìa Márquez perché mio padre sappia, si convinca, possa raccontare a tutti che sua figlia è arrivata a un punto della vita in cui parlare confidenzialmente con un premio Nobel è all’ordine del giorno. Quando riattacco la mia testa è come spaccata a metà. Da una parte ho queste immagini di me che vado a prendere Garcìa Márquez a Fiumicino, lo porto a San Lorenzo a prendere un caffè e insieme chiacchieriamo del più e del meno mentre un amico che non vedo da tempo si trova a passare da quelle parti, ci vede e rimane stupefatto. Dall’altra non posso fare a meno di pensare che ho sempre odiato Garcìa Márquez: sin dai tempi dell’università mi sembrava folkloristico, consolatorio, per anni ho litigato fieramente con tutti gli apologeti dell’Amore ai tempi del colera, lettori la cui intelligenza ho sempre stimato al livello dei barboncini. Provo a mettermi a letto e non chiudo occhio. Maledico mio padre. Penso che la sua morte sarebbe una liberazione, ed è un pensiero che stranamente viaggia sulle stesse frequenze allucinate che trasmettono la radiocronaca del mio tête-a-tête con Garcìa Márquez. Subito dopo la scena di me che gli contesto L’amore ai tempi del colera e lui che ammette: “Sì, hai ragione, quel libro fa schifo…” vengo invasa da un altro sistema linguistico che, pur non appartenendomi, fa di me quello che vuole: pensando ai rotocalchi femminili, ai continui inviti all’autodeterminazione che emergono in questi supplementi settimanali mi convinco che mettere Arturo al muro non mi costa proprio niente – lo prenderò in disparte per questa faccenda del festival, gli chiederò una retribuzione adeguata e lui sorriderà come non aspettasse altro. Dirà: “Figurati, non c’è nessun problema…”, e a questo punto mi addormento.

Cristina
Una pizzeria vicino piazza Re di Roma. Ceniamo insieme. Lei inizia a raccontarmi dei tira e molla con Vincenzo e io le dico di Mario, questo assistente alla produzione con cui esco da qualche settimana. Fa un mezzo sorriso, allunga il collo e mi domanda: “Ci sei già andata a letto?” Prima che io possa rispondere, dalle casse del piccolo stereo montate sopra il nostro tavolo inizia a passare una canzone di Vinicio Capossela. Non resisto alla tentazione, le dico che Capossela con tutta probabilità dovrò chiamarlo fra qualche giorno per il festival. Cristina mi racconta dei suoi casini all’Auditorium. A un certo punto l’enfasi delle nostre parole è come raddoppiata, Vincenzo e Mario svaniscono rapidamente oltre l’orizzonte del discorso. Cristina dice che la situazione lì da lei è disperata: tutti stagisti e contrattisti a progetto – contratti che di solito non vengono rinnovati –, ma le stagiste come lei non percepiscono neanche un rimborso spese e per un contratto a progetto farebbero pazzie, e allora scatta un meccanismo psicologico molto simile a quello che spinge i criceti sui tamburi rotanti: più gli stagisti non vengono pagati più si fanno il culo, nella speranza di essere notati da qualcuno iniziano a strafare, si autoraddoppiano l’orario di lavoro, moltiplicano le proprie competenze, si improvvisano maggiordomi, dog-sitter, si offrono per sobbarcarsi qualunque tipo di rottura di coglioni… Dico a Cristina: “Che schifo…”, cerco di consolarla, ma nel frattempo devo ammettere che il suo discorso mi ha fatto nascere nel cuore un sentimento molto prossimo alla gioia. Se c’è qualcuno che sta peggio di te, dice questo sentimento che non posso controllare, significa che non sei una totale cogliona. Vorrei adesso che Cristina mi raccontasse di tutte le umiliazioni che subisce sul posto di lavoro, la sua disperazione sarebbe la mia salvezza temporanea, a un certo punto magari dovrebbe anche iniziare a piangere, stilare un lungo elenco di soprusi e situazioni degradanti, dovrebbe essere talmente dettagliata da farmi passare davanti agli occhi l’immagine di dieci stagiste che per zero euro al mese strisciano ai piedi dell’ultimo usciere dell’Auditorium. E voglio dire… Cristina è la mia più cara amica, darei la vita per lei, ma se decidessero di farle un contratto di assunzione all’Auditorium e per assurdo io potessi impedirlo, non esiterei a farlo. È un pensiero orribile, lo so. Allora mi sorprendo a desiderare che in pizzeria faccia irruzione un uomo armato, un uomo che dovrebbe iniziare a sparare tra la folla, magari proprio in direzione di Cristina. Io allora le farei da scudo col mio corpo e finalmente sarei libera.

Arturo
Mi chiama che è già sera. Dice: “Abbiamo un problema con il catering…” C’è stato un vernissage alla galleria della Minardi e la ragazza addetta alla mescita del vino ha la febbre a quarantuno (“quella deficiente”, aggiunge). Gli dico: “Arrivo subito”. Telefono a Mario, annullo la nostra serata. Dice: “Che succede?” La risposta mi viene fuori in automatico: “Un casino. Ha chiamato Arturo. Deve portare a cena Lars Von Trier e l’interprete ha dato buca”. E lui: “Non sapevo parlassi il danese”. E io: “Inglese. Parleremo in inglese. Arturo parla il francese, il russo, lo spagnolo ma non l’inglese. Io invece sì. Contento?” E lui: “A posto, è tutto a posto, non ti agitare…” In metropolitana penso che l’unico modo per riscattarmi rispetto a questa ignobile stronzata che ho rifilato a Mario è sfruttare la situazione, prendere Arturo in un momento di pausa e chiedergli un aumento. Ma poi, quando sono in galleria, impegnata a versare Nero D’Avola a professori universitari, artisti esposti al Moma, scrittori presenti con almeno dieci pagine sulle antologie scolastiche, e tutti mi trattano da pari a pari, mi hanno visto altre volte a fianco di Arturo, c’è come un senso di complicità, mi fanno quasi intendere che al posto mio, dietro il tavolo da buffet, ci sarebbero potuti stare loro, si sarebbero messi a disposizione se solo li avessero avvisati per tempo, tra una tartina e l’altra riesco addirittura a scambiare due opinioni sull’ultimo Von Trier con un critico cinematografico che spesso va in televisione, e lui mi ha detto: “perfettamente d’accordo con te: parte con Brecht ma torna sempre a Ibsen”, e insomma, in tutto questo clima parlare di denaro appare a un certo punto completamente fuori posto. Due ore dopo sono di nuovo in metropolitana. Puzzo di vino. Man mano che l’atmosfera della festa di dissolve inizia a montarmi nello stomaco un sentimento rabbioso: Arturo, la gallerista, gli scrittori antologizzati… tutti ignobili avvoltoi, penso. Di conseguenza io? Io che cosa sono? Mi rannicchio sul sedile della metro, senza un briciolo di premeditazione mi prendo la faccia tra le mani e inizio a singhiozzare.

Internet
Le quattro del mattino. Sul sito di «Repubblica», in prima pagina, c’è un link che porta alle “classifiche degli italiani per reddito annuale”. Apro la pagina con una foga molto simile a quella con cui le adolescenti dei video porno affrontano questi negri nascosti da orribili passamontagna. Mi muove un divorante desiderio di rientrare nella media. Le fasce di reddito sono suddivise in questo modo: miliardari, facoltosi, agiati, benestanti, poveri, poverissimi. Ma poi ci sono le variabili: allora inizio convulsamente a calcolare per età, residenza, titolo di studio, settore produttivo… Quando sono a due passi da un attacco isterico penso che forse potrei darmi una calmata masturbandomi oppure cercando un sonnifero nell’armadietto dei medicinali. Poi scopro un altro link: “fasce di reddito nel resto del mondo”. Verifico la situazione in Sudamerica, in Asia, nei buchi infetti delle città dell’Africa centrale. Scopro che in Mozambico, per esempio, si campa con 22 dollari al mese. Di nuovo questo strano sentimento di gioia… Ne deduco che, considerando il reddito pro capite a livello planetario, non posso essere considerata una miserabile. La globalizzazione serve a qualcosa. Mi addormento. Faccio dei sogni orribili.
Al risveglio trovo un sms sul cellulare. È Mario. Mi invita a cena a casa sua.

Matteo
Prima di andare da Mario prendo un caffè con Matteo. Ci conosciamo da dieci anni, è il mio ex fidanzato, l’ho lasciato io sei mesi fa. Come gli dico del festival scuote la testa: “Smettila di farti sfruttare da quello stronzo”, dice. “Non tutti siamo dei raccomandati come te”, rispondo come per un’autodifesa. “Nessuno mi ha mai raccomandato per niente”, si difende a sua volta. “Scrivi su «Repubblica», lo incalzo, “scrivi sul «Venerdì» e sul «manifesto»: o hai dei santi in paradiso oppure ti sei messo a fare le marchette”. “Ma li leggi i miei articoli?”, qui alza la voce. “Vaffanculo! Raccomandato di merda!”, mi esce dalla bocca. Matteo spacca tra le mani un bicchiere di plastica. E così cominciamo a litigare furiosamente, proprio come ai vecchi tempi, solo che all’epoca i motivi delle nostre urla erano totalmente diversi. Mi alzo di scatto dal tavolo mentre con gli occhi rossi sta gridando: “Ma non capisci? Non lo capisci che in questo modo diventa tutta una lotta fratricida?”

Arturo
Mi chiama al cellulare. Dice: “Scusami tesoro: un’altra emergenza…” Hanno anticipato di una settimana la presentazione del libro di Tullio Kezich. “Bisogna darci dentro con la faccenda degli inviti. Cerca di far venire più gente possibile”. Verso l’ingresso della metro ho un giramento di testa. Mi fermo in un bar. Rimango seduta al tavolino per mezz’ora, senza ordinare niente.

La fine (l’inizio)
Sono arrivata a casa di Mario in una condizione penosa. Lui è sembrato non accorgersene. Ha attaccato subito a parlare di non so bene quale film. Volevo tenere la conversazione a un livello decente, ma mentre provavo a concentrarmi sulle sue parole non ho potuto fare a meno di pensare che lui nel cinema ci lavora, conosce un sacco di gente in vista, se solo volesse spendersi un po’ per la presentazione del libro di Kezich, darmi una mano con la faccenda degli inviti… Non voglio che queste cose si mettano tra noi, mi sono risposta, e però c’è stata come una vocina, laboriosa come un ratto di fogna, che a un certo punto ha cominciato a sussurrare digli degli inviti, digli degli inviti…, così ho cercato di pensare ad altro, ho provato di nuovo a capire di che film stesse parlando, volevo godermi la cena ma la vocina di tanto in tanto faceva capolino tra i discorsi, e mi ha seguito nel salotto, dove abbiamo preso un whisky, e mi ha seguito in camera da letto, dove a un certo punto, non so come, stavamo già facendo l’amore, ci sono stati inizialmente questi movimenti goffi, poi lui mi è entrato dentro, e mentre gli dicevo: “Mario…” in una parte della testa continuava a risuonarmi come da un pozzo senza fondo digli degli inviti, digli degli inviti…, era una voce del tutto svincolata dalla mia volontà, però, non so in che modo, lui deve avere sentito qualche cosa, come un segnale, un’autorizzazione o una richiesta patibolare, allora ha cambiato posizione, mi ha preso per il collo, ha cominciato a farmi forte, e la vocina, la vocina degli inviti lo ha misteriosamente assecondato attraverso il mio corpo, lui se ne è accorto, ha impresso più forza e regolarità ai movimenti, una regolarità che mi ha fatto pensare a un esercito di monache con le gambe tumefatte impegnate a sgranare un rosario recitando una statistica, a un certo punto non era più la fluidità di due corpi umani ma la perfetta relazione che il cilindro intrattiene col pistone, eravamo in un tunnel, eravamo nel fondo di qualcosa che non ha ancora un nome, ma alla fine di ogni tunnel, mi sono detta, c’è una luce, e la luce, l’ho capito come se fossi stata fulminata da una rivelazione, quella luce era lo sbocco fognario verso cui sta andando il lavoro, le relazioni umane, la vita stessa, e così io ho urlato, una, due, tre volte, ho visto questo bagliore accecante proveniente dal futuro e mi è uscita dalla bocca una voce che non avevo mai sentito, una voce finalmente imprevista, il verso di una capra, di un gatto, di un vitello con una sparachiodi puntata sulla fronte. Ho urlato, cazzo, e poi non ho pensato a niente.

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23 Commenti

  1. E’ quello di cui abbiamo sempre bisogno.
    Di un racconto come questo, e di una scopata consolatoria

  2. bello. ma non so se dentro quella fine c’è un inizio. ahimè, non credo. c’è un’assenza di dolore, ma che dura poco.
    i porci possiamo ancora farli. ma siamo porci senza ali.

  3. Bel racconto, anche se troppo roman-veltroniano. Le dinamiche sono le medesime anche altrove, ma l’atmosfera no, quella delle quotidiane cene e dei vernissage, dei salotti e dei finanziamenti milionari, dei nomi noti e dei giornali e del gossip: o Roma o Milano, qui Roma, “molto” Roma – un limite, a mio parere.

    Nonostante ciò il racconto funziona e tiene ben saldo il lettore. Buona la misura e il ritmo. Il finale è un po’ scontato, sarebbe bello vedere oltre la luce che c’è, entrarci nella fogna, approfondire il tema della guerra fratricida…

  4. Ma, salvo la scopata finale, che mi sembra l’unica cosa sana, perchè questa ragazza non fa un mestiere che le dia da vivere, invece di aggirarsi nel demi-monde della “cultura”?
    Sarà anche un personaggio realistico, ma è un personaggio scemo, e i personaggi scemi, se non succede qualcosa che li tiri un po’ su, alla fine annoiano.

  5. interessante disparità di punti di vista.
    sopratutto in relazione alla fissazione: della location roma o milano e dell’ambiente: culturale.
    Indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, che ignoro, questo pezzo imho riesce invece a fare altro, e l’opposto. Cioè A tratteggiare, seppure in modo incompleto, alcuni elementi fondamentali della soggettività precaria, che tanto fatica a profilarsi anche dal punto di vista politico proprio perché fissata, atomizzata, localizzata, eccezionalizzata. Tra gli elementi del lavoro postfordista e del “contesto prostituzionale allargato” che lo caratterizza, cito ad esempio la scomparsa della differenza tra tempi di lavoro e tempi di vita, la messa al lavoro delle relazioni, del corpo, della cura, l’orientamento al bisogno, la costanza della transizione unita all’insicurezza economica, al disorientamento emotivo, alla solidarietà fratricida, all'(in)consapevolezza politica, alla rassegnazione, al perenne: “che fare”?
    Credo che da questo punto di vista il racconto renda bene, così come la mattanza finale corredata dall’illuminazione della propria carne, dell’amore al lavoro.

  6. Bene. Una volta che saremo tornati alla cara, sana catena di montaggio,
    alla privazione delle relazioni, del corpo, della cura, all’intransitiva sicurezza servile, all’organizzazione e al tutoring emozionale, forse saremo meno rassegnati, sapremo anche “che fare” (che ci vuole a ragionare in modo tradizionale? più difficile adattarsi per cambiare), ma resterà una domanda da un milione di euro: il patrocinio del comune di Roma al “maleppeggio” è oneroso oppure no? Spero la seconda che ho detto.

    Il fatto è che i salottifici del sinistrismo romano sono esattamente come li descrive Nicola. Fanno schifo. In confronto la cooptazione universitaria è in mano a mammolette. Sarebbe bello (e utile) che la protagonista ci regalasse un altro po’ di gossip ‘cultuvale’. Una bella storia a puntate sulle Notti Bianche, i circoli e i circoletti, e ci vediamo al bar di Feltrinelli* per un caffé, a parlar di Baudelaire.

    *Occhio, se a Feltrinelli espropriate le penne con l’inchiostro gel (euro 4,50 cadauna) l’allarme non suona.

  7. oc
    non è che i precari non si adattino, la precarietà lavorativa non è un male in sé. Il problema è che la deregolamentazione del lavoro richiede la totale riorganizzazione delle assicurazioni sociali, e qui riferirsi alla tradizione non basta, non serve. Serve, invece, il farsi soggetto politico.

  8. Morgillo, vedo che anche tu la pensi come me. Pensa che io, tra amici, quelle ballerine (di vernice rossa, o ricoperte di brillantini, etc etc) io le chiamo “sodomine”. Perchè alle ragazze che le indossano danno quella camminata, insomma, sì, quella camminata di una che, insomma, quella camminata lì… e il tuo appunto sui gusti sessuali della cecilia è la conferma di quanto pensassi. grande.

  9. @gina

    D’accordo. Facciamo soggetto. Ma la prossima volta che capita un neolaureato che si crede gesù cristo sceso in terra e pretende contratto subito e mille euro al mese quando gli viene offerto un lavoro (che tu sai fare, che lui non sa fare, che dovrebbe imparare, che gli potresti insegnare, ma che lui pensa tranquillamente di poter svolgere da superbo incompetente), lo manderemo a cagare, insieme, in modo oggettivo.

    E comunque va benissimo la riorganizzazione delle assicurazioni sociali. Ma purtroppo là fuori c’è solo la difesa corporativa dei vecchi interessi gregari. Non vedo l’ora che arrivi il prossimo micragnoso sciopero della scuola. Una istituzione in declino, che al posto d’investire in sedie, banchi, libri, computer, palestre, al posto di spendere in conoscenza, scende in piazza per difendere un mondo di sessantenni con la villetta a Capalbio e la graduatoria garantita a vita. Ma ecco emergere il Mister Hyde della partita iva, sicché mi taccio.

  10. Consiglio
    1.frequenti, quotidiane sessioni di “Job Quest” e “Job Attack”
    2.Almeno un corso di teoria e pratica della candidatura (“cos’è una candidatura. Com’è classificabile nalla teoria della comunicazione. Candidarsi nel medioevo (secoli XII-XIV della lirica cavalleresca, detta Minnesang). Candidarsi nel XIX secolo, candidarsi nel XXI secolo, candidarsi nel XXII secolo, in formato multimediale, con immagini grafici e suoni.
    Modelli di candidatura: mittente della candidatura; destinatario della candidatura; mezzi attraverso cui candidarsi: lettera di candidatura, telefonata di candidatura, film di candidatura, abbigliamento di candidatura, canzoni di candidatura, denti da candidatura, sport da candidatura, estetica della candidatura”)
    3.La lettura di “la scuola dei disoccupati” di Joachin Zelter (Germania 2016. Quel che resta della locomotiva europa è una terra desolata., oppressa da dieci milioni di disoccupati. Per sanare questa piaga nasce Sphericon, il campus-lager per disoccupati. I fortunati ammessi sono addestrati da martellanti istruttori english speaking, scrivono curricola, simulano telefonate e spulciano necrologi per proporsi alle aziende dove è morto qualcuno. La scuola dei disoccupati è un romanzo vorticoso e spietato. Un urlo feroce contro la religione del lavoro., una ristata in faccia a una società che vuole solo vincenti)
    “SPHERICON significa apertura. La breccia in ogni stato consolidato. La messa in discussione di ogni rapporto stabile, se non arrugginito, con tutti gli effetti che ne conseguono. Significa rivedere abitudini rodat,. Il foro in intime camere oscure. Rompere con il pessimistico atteggiamento del ma. SPHERICON significa rompere il ghiaccio che dimora nelle nostre teste. Superare ciò che è stato finora. Far saltare in aria tutto ciò che è a senso unico: una strada, una direzione, una verità. I costrutti linguistici mono necessitano di una revisione. Parole come sempre o solo necessitano di revisione. Concetti come solo e unicamente sono sottoposti a verifica critica. SPHERICON significa critica. Critica verso se stessi e critica verso gli altri.Critica iniziale, critica in corso, critica finale. We are nothing if not critical. Shakespeare. SPHERICON vuol dire movimento.Moto continuo. Moto come principio. Moto come necessità. Moto come gioia. Moto fino allo sfinimento. SPHERICON è un nuovo inizio, tabula rasa, una cesura. “Dimenticate tutto ciò che avete appreso finora”.”

  11. (corr: germania 2016. Quel che resta della locomotiva d’europa è una terra desolata, oppressa da 10 milioni di disoccupati)

  12. Non dirmi che anche tu, Nicola, hai già finito la benzina. Devo forse rivedere le tabelle sulle resistenze biologiche, le emivite degli scrittori che ritenevo di talento?

    Michelangelo Zizzi

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