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Immagini calme

di Verena Bayer & Gert Brantner

traduzione di Stefano Zangrando

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“Fotografare significa attribuire importanza” (S. Sontag, Sulla fotografia)

I. Che cosa sono le immagini?

Il biologo Terrence Deacon ne La specie simbolica (ed. it. Giovanni Fioriti Editore, Roma 2001) formula la tesi per cui a distinguere gli uomini dagli animali non sarebbe ciò che chiamiamo “coscienza”, ma la facoltà di cifrare le cose in simboli bidimensionali e di leggere questi simboli. Vilém Flusser chiama questa facoltà specifica di astrarre superfici dallo spaziotempo e proiettarle nuovamente in esso “immaginazione”. Creiamo dunque immagini perché vi siamo portati?
A un certo punto gli uomini, servendosi di colori naturali, cominciarono a dipingere simboli su pareti di pietra. Ciò che avevano visto nel mondo concreto, ad esempio un cavallo, lo astrassero in un simbolo bidimensionale e così “informarono” la parete di pietra per poter passare ad altri questa informazione. Il passaggio e il salvataggio di informazioni sembra aver ispirato gli uomini nella creazione di immagini. I simboli che costituivano le immagini, i codici delle immagini, erano polisemici e potevano essere interpretati in vari modi. Le immagini dovevano rendere il mondo concepibile, “immaginabile”, tuttavia si frapponevano tra gli uomini e il mondo concreto.
La questione su come l’immagine si rapporti alla realtà fu oggetto di discussione fin dalla dottrina delle idee di Platone. Le immagini, come tutti gli altri media, alterano le scene che dovrebbero spiegare e “mediare”, alterano il percorso verso ciò che quelle scene rappresentano. Le conseguenze furono magia e idolatria.
Le cose cambiarono con l’invenzione della scrittura lineare. Gli uomini svilupparono una nuova facoltà, il “pensiero concettuale”, la capacità di produrre e decifrare testi, di astrarre linee da una superficie. A partire da questo momento, i testi dovevano spiegare la polisemia e la magia delle immagini. L’affermazione definitiva dei testi si ebbe con l’invenzione della stampa – da allora gli uomini si trovarono nella “galassia Gutenberg” – e con l’introduzione e l’estensione dell’obbligo scolastico. Fu il momento in cui i testi divennero accessibili e leggibili per tutti. Poté nascere così una coscienza storica che abbracciava tutti gli strati sociali. Le immagini tradizionali non avevano più niente a che fare con la vita quotidiana, perché con l’alfabetizzazione il metodo scientifico si impose sull’antico pensare magico per immagini e metafore.
Ora qual è il rapporto reciproco tra testi e immagini? Nel medioevo i cristiani fedeli al testo sacro lottavano contro i pagani che offrivano immagini, nell’era moderna gli scienziati fortemente orientati sui testi combattevano contro le ideologie che mobilitavano le masse con immagini e simboli. La lotta tra testi e immagini è dialettica: i testi devono spiegare le immagini, dissolvendone l’ambiguità, ma le immagini possono anche illustrare i testi, sicché il pensiero concettuale e quello immaginativo si rafforzano a vicenda. Il concetto “spiega” l’immaginazione; l’immaginazione dà al concetto un contenuto.
Con l’invenzione della fotografia si ebbe una nuova frattura. Da allora abbiamo a che fare con un nuovo tipo di immagini, nate dalla trasposizione pratica di testi teorici. E qui la dialettica tra immagine e testo smette di funzionare. I testi non spiegano le immagini tecniche, bensì le precedono in forma di teorie scientifiche e in questo modo le rendono possibili. I testi “causano” le immagini tecniche.
Si tratta di una differenza decisiva tra immagini tecniche e immagini tradizionali, che ogni critica dell’immagine deve tenere presente. Ulteriori differenze si danno nella modalità di produzione. Le immagini tradizionali sono prodotte con metodi preindustriali, ad esempio con un pennello su una parete. Le immagini tecniche sono prodotte con l’ausilio di macchine, ad esempio con una macchina fotografica. Entrambe hanno in comune il fatto di essere “superfici significanti”. Esse rimandano a qualcosa nel concreto mondo esterno per renderlo immaginabile all’osservatore come astrazione bidimensionale o “nullidimensionale” (le immagini tecnologiche sono “nullidimensionali” in quanto composte da punti – pixel). Tuttavia le immagini tradizionali rimandano a delle scene, mentre le immagini tecniche rimandano a dei concetti, e quindi a dei testi: esse sono “superfici coperte da simboli che a loro volta rinviano a testi lineari” (Flusser).
Per non cogliere soltanto il significato “superficiale” dell’immagine, quello che si presenta cioè sulla sua superficie, devono essere ricostruite le dimensioni che hanno subito il processo di astrazione. Poiché le immagini non sono complessi simbolici univoci come ad esempio i numeri, il loro significato risulta da un lato dalle intenzioni che nell’immagine si manifestano, dall’altro dall’immaginazione dell’osservatore. C’è dunque spazio per l’interpretazione, i margini non mancano. L’osservatore di un’immagine può lasciar vagare lo sguardo sulla superficie, ritornare su singoli elementi dell’immagine e in tal modo conferire loro un significato. La struttura interiore della lettura delle immagini è dunque magica (tutto si ripete ed è situato in un contesto colmo di significato) e non lineare (nulla si ripete, tutto ha cause ed effetti).
Le immagini, quelle tradizionali e a maggior ragione quelle tecniche, non sono avvenimenti congelati, ma sostituiscono gli avvenimenti con “stati di cose” e li traducono in simboli significanti scene (immagini tradizionali) o in simboli significanti concetti (immagini tecniche). Per poter capire il significato delle immagini bisogna decifrare questi simboli.

II. Le fotografie come prototipi di immagini tecniche

Le immagini tradizionali sono, in senso ontologico, astrazioni di primo grado, perché astraggono dal mondo concreto. Come si è detto sopra, un’immagine tecnica è un’immagine prodotta da una macchina. Le macchine, nel nostro caso le macchine fotografiche, sono prodotti dell’applicazione di testi scientifici (ottica, chimica, meccanica). Le immagini tecniche sono quindi produzioni indirette di testi scientifici e rappresentano astrazioni di terzo grado: esse astraggono da testi, che astraggono da immagini tradizionali, che astraggono dal mondo concreto.
Le fotografie ci pongono di fronte a un compito difficile, perché nascondono abilmente la loro provenienza teorica (le foto a colori ancor più di quelle in bianconero) e si è tentati di riconoscere in esse il mondo esterno. Quelli che vediamo su di esse non ci appaiono come simboli, bensì come indizi del mondo concreto che si siano riprodotti automaticamente sulla superficie della foto. Questa oggettività apparente delle fotografie porta così alcuni osservatori a riconoscere in esse non immagini (che vogliono ancora essere decifrate), ma finestre. E tali osservatori si fidano ciecamente di queste finestre che all’apparenza rendono loro possibile lo sguardo sul mondo esterno, senza riconoscere di venire essi stessi “programmati” dalle immagini per un determinato comportamento.
Nel caso delle immagini tradizionali la codificazione avviene nella testa dell’artista. Nel caso delle fotografie la codificazione avviene all’interno della macchina fotografica, in questo impenetrabile “black box”, ma il fotografo può tentare di comprendere per quanto possibile la propria scatola nera, manipolarla e impiegarla ai propri scopi.
Le fotografie non sono né indiziarie né oggettive, perché questo significherebbe che gli elementi che vi appaiono sono indizi delle stesse scene che esse riproducono, e che le si potrebbe capire senza aver imparato a conoscere il loro codice. E questo è un “pericoloso errore” (Flusser).
È interessante a questo proposito come gli indiani nord-americani credessero che il fotografarli avrebbe rubato loro l’anima – le vecchie macchine fotografiche a soffietto venivano perfino indicate come cacciatori d’anime. Questa potrebbe essere una prova di come l’assenza di testi nel loro ambiente culturale rendesse possibile uno sguardo non velato sulla natura della fotografia. Gli indiani non accettavano che la foto fosse una “impronta digitale” della realtà, ma riconoscevano come un simbolo ciò che vi era rappresentato. L’anima va equiparata al contenuto simbolico della foto. Essa viene sottratta – rubata – alla realtà in quanto possibilità e trasformata all’interno dell’universo fotografico.
Flusser coniò il concetto di “tecno-immaginazione”. Con ciò s’intende la facoltà di scoprire e decifrare le immagini tecniche come simboli nonostante l’illusione ad esse connaturata, e quindi di portare alla coscienza del destinatario la loro intenzione celata e mascherata. Ciò che lega una foto alla scena che essa riproduce è l’unità tra fotografo e macchina fotografica. La macchina non è uno strumento nel senso di un prolungamento di un organo umano, come un martello o un pennello, perché altrimenti si muoverebbe in funzione dei movimenti del fotografo. E non è neanche una macchina nel senso di “macchina visiva”. La categoria primaria che si applica a strumenti e macchine è quella del “lavoro”. Essi prestano lavoro strappando oggetti alla natura e imprimendo loro una determinata forma, cioè cambiando il mondo. Apparecchi come la macchina fotografica non prestano alcun lavoro in tal senso. Essi sono piuttosto tenuti a emancipare gli uomini dal lavoro simulando il pensiero numerico. L’uomo si più limitare a questo gioco con le parti esterne dell’apparecchio, il resto viene svolto all’interno del Black Box. L’intenzione che sta dietro a simili apparecchi non è di cambiare il mondo, ma di cambiare il suo significato. La sua intenzione è simbolica. Il fotografo produce, tratta e immagazzina simboli, non lavora in senso industriale, non vuole neanche cambiare il mondo, bensì cerca informazioni. E qui anche il concetto di “possesso” cambia significato. Non è più la cosa, il medium concreto ad avere valore, ma l’informazione. Non è l’oggetto solido, un hardware come la macchina fotografica o la fotografia, a rappresentare un valore, ma il morbido simbolo, l’informazione. Nell’era postindustriale non è importante chi possiede, ma chi programma.
Il fotografo e la macchina diventano una cosa sola. Il fotografo domina la macchina grazie al controllo delle sue parti esterne ed è da lei dominato grazie all’invisibilità del suo interno. La missione di una fotografia non è la “restituzione” di una scena, ma il messaggio emesso da una posizione specifica rispetto a una scena in vista di un destinatario specifico e nelle categorie di uno specifico apparecchio. È quindi un messaggio cifrato complesso, la cui decodificazione richiede tecnoimmaginazione, ossia la facoltà specifica di produrre e decifrare immagini tecnologiche. La tecnoimmaginazione richiede a sua volta conoscenza e comprensione delle teorie su cui sono basati gli apparecchi fotografici. Ma allora le immagini tecnologiche non sono mai completamente decifrabili, perché nessuno può conoscere e capire tutte le teorie scientifiche dalle quali sono scaturiti gli apparecchi fotografici? Le immagini tecnologiche sono post-storiche, nel senso che vengono dopo i testi con cui ha avuto inizio la storia, la nostra comprensione storica in senso stretto. È dunque necessario sviluppare una coscienza post-storica per non perdere l’orientamento nel mondo post-storico e per potersi rapportare alle immagini tecnologiche post-storiche. E anche se l’ideale di una tecnoimmaginazione non può essere mai raggiunto, il trattamento consapevole di immagini tecnologiche, e con esso un’analisi critica dei suoi messaggi e dei tentativi di programmazione che vi stanno dietro, può essere una possibilità per orientarsi nel mondo.

III. Alla caccia dell’attimo

Benché le fotografie per loro natura non siano più vere delle illustrazioni dipinte o disegnate, si tende a prestar loro più fiducia in quanto documenti di un’epoca. Perché?
In ogni fotografia c’è un minuscolo punto d’intersezione con la realtà, riferibile a precise coordinate spazio-temporali. In un preciso momento, in un luogo preciso, da una prospettiva precisa e in base alle funzioni della macchina fotografica e della pellicola, la realtà è stata esattamente così. Ogni fotografia definisce una situazione quantica realizzabile unicamente nell’atto del fotografare. Prima questa situazione era indefinita, solo una tra molte possibili. La fotografia è apparentemente una piccola conserva di tempo, quel minuscolo punto di intersezione con la realtà ci è sufficiente a ritenerla vera.
Nel linguaggio della fotografia spiccano analogie con concetti venatorî: safari fotografico, Schnappschuss (istantanea), “puntare”, abdrücken (scattare/premere il grilletto), schießen (scattare/sparare). Al più tardi dagli studi sul movimento di Muybridge e dal Fusil photographique di Marey è chiaro che cosa cacciamo veramente. La realtà ci si presenta secondo le circostanze come un continuum denso e ostinato oppure rapido e fluente; l’attimo quantico che cerchiamo di catturare è sfuggente. Questa situazione non veramente percepibile ci appare inquietante e desiderabile al tempo stesso, perché ci fa intuire il carattere quantico, a mosaico, dell’essere e del mondo.

Verena Bayer e Gert Brantner sono austriaci e vivono a Berlino. Nel 2003 hanno fondato bildbach, una collaborazione fotografica entro la quale è nato il progetto “Immagini calme”, basato su un’applicazione pratica degli approcci della teoria della fotografia e in particolare degli scritti di Vilém Flusser. s.z.

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24 Commenti

  1. Grazie Raos, per questo articolo che ho intenzione di gustarmi con molta avidità!
    Credo nelle immagini e nei simboli come parte integrante della nostra esistenza!
    a presto
    Chapuce

  2. L’articolo mi sembra influenzato dalla spiegazione structuralista, molto intelligente, come lo dice Capuche, perché chiarisce i significati delle immagini.
    A proposito della fotografia, l’immagine possiede un valore magico, affettivo della storia familiare nella prospettiva del “tempo ricordo”, nella catena della leggenda (mito) familiare.
    Per esempio, la lettura del destino tragico di una persona morta: il suo viso velato dalla tristezza, come si la persona era consapevole del suo destino, o invece contenta di vivere, incurante.
    La lettura è polisemica, perché ciascuno racconta un pezzo della storia familiare.
    Mi piace anche vedere la fotografia di uno bambino e cercare nell’adulto l’impronta della prima infanzia.
    Penso che la dimensione magica dell’ immagine riguarda l’intimo, e la dimensione scientifica è sociologica, storica.

  3. Ringrazio molto Andrea Raos per aver ospitato su NI questo brano (e mi scuso con lui per non aver replicato sotto il racconto di Fontana, qualche giorno fa). Conosco Verena e Gert dal 2003 e sono sempre più convinto del valore della loro ricerca artistica.
    Tra i lavori recenti di Verena, ce n’è uno che secondo me ha del geniale: è la serie “Blow up” visitabile nella sezione “portfolio” del loro sito bildbach. E’ il prodotto di un’accurato lavoro di ritaglio e ritocco su immagini realizzate in precedenza, e personalmente vi trovo un amore profondo per il dettaglio, una grande sensibilità cromatica e un originale anelito pittorico.

  4. Sento la mancanza di una pragmattica oltre che di una semantica dell’immagine, in questo testo. Le immagini non si guardano soltanto, si indossano.

  5. “ma le immagini possono anche illustrare i testi, sicché il pensiero concettuale e quello immaginativo si rafforzano a vicenda. Il concetto “spiega” l’immaginazione; l’immaginazione dà al concetto un contenuto.!”

    e quando ci affacciamo su queste “finestre” avviene una proiezione eclatante, il nostro inconscio si incontra con le emanazioni di quella data immagine, e l’interruttore scatta, e l’esplosione avviene.

    Osservare e penetrare l’immagine, io lo trovo irresistibile.

    complimenti a Zangrando e a chi ha scovato il libro.

    @andrea, questo è pane per i miei denti!
    gracias
    aurevoir
    chapuce

  6. OT Un’ora fa ho scritto un commento di ringraziamento et al. da un altro computer, non è apparso, l’ho riscritto, entrambi sono apparsi “in attesa di moderazione”… Andrea?

  7. @Stefano,
    ho provato a mandarti un commento, non so se ci sono riuscita…

    tornando alle immagini
    ogni immagine racchiude in sè una potenza
    se ci fosse una scala, le metterei per seconde, dopo la musica,
    le parole ultime.

    Bonsoir

  8. Mi sembra troppo riduttivo trattare le immagini in questo modo. E ci sono troppi salti con tanti vuoti in mezzo.

  9. luminamenti,
    non tutti hanno una mente fine e complessa (o complicata?) come la tua, tanto meno gli artisti, i cui scritti teorici di solito non sono che supporti minori alla pratica, all’artigianato, alla ricerca concreta. hai visto il sito?

  10. tutto questo ridonduce al processo detto ‘clivaggio visuo-verbale’ ossia tutti i fenomeni di trasposizione simbolica della parola scritta o parlata o piu’ spesso della condensazione prelogica.

    un esempio pratico puo’ essere la poesia visiva, cito un esponente meneghino :Ugo Carrega.

  11. Cara Ada, non è vero che gli artisti non sono in grado di supportare teoricamente il loro lavoro. Prendi HERMANN NITSCH che ho avuto ospite a Palermo anni fa e che ha scritto un’imponente lavoro anche teoretico.

    Inoltre, se uno fa un lavoro artistico, ha delle ispirazioni, faccia l’artista e non il teoretico, tanto più su un tema come quello delle immagini che prescinde dalla propria ispirazione generatrice delle immagini e creazioni artistiche.

    Ribadisco: non c’è nulla di vero in questo discorso su cosa sono le immagini! ci sono molti errori e passaggi storici mancanti quando si parla della Galassia Gutenberg.

    Per favore, non farmi aggiungere altro. Questo non significhi che io non possa apprezzare il lavoro artistico.

    Ma sulla storia e ontologia delle immagini non c’azzeccano proprio né teoreticamente, né storicamente (questo secondo punto mi sembra il meno lusinghiero)

  12. Cmq non intendo dire che in questo articolo non ci siano cose vere, solo che sono dette, in molti punti, senza rigore e precisione, con molte inesattezze che possono far credere in un modo piuttosto che in un altro.
    L’articolo nel complesso è apprezzabile per lo sforzo e l’importanza

  13. “con molte inesattezze che possono far credere in un modo piuttosto che in un altro.”

    ps, caro il mio Lumina:
    come fai a dire che sono inesattezze?le hai misurate?

  14. Non TUTTI gli artisti hanno anche una cognizione teorica approfondita del proprio lavoro o della propria arte: alcuni sì, alcuni no.
    Verena e Gert, che io sappia, corrispondono al caso indicato da Ada.

  15. Sei un signore, Luminamenti. (Se Nitsch non ti piacesse, saresti anche meglio.)

    Tuttavia riconoscerai che, quando affermi che “non c’è nulla di vero in questo discorso su cosa sono le immagini!” (col punto esclamativo), la tua indignazione si mostra poco comprensiva nei confronti dell’intenzione palesemente sintetica del testo di Verena e Gert, che non aspira a restituire uno spettro storico-critico e teorico complesso, bensì a riassumere una serie di princìpi teorici su cui fondare la comprensione estetica delle immagini di bildbach.

  16. la comprensionestetica è un ossimoro.
    come un amorazionale.
    come la guerrapacifista
    come la verginemadremaria

  17. Può darsi che tu abbia ragione Stefano. In quanto a HERMANN NITSCH non ho detto che mi piace, né mi va di raccontare la vicenda, ne ho rispettato il ragionamento dietro la sua operazione. Verena Bayer e Gert Brantner invece mi piacciono e se a loro interessa potrei provare a ospitarli a Palermo in futuro

  18. Quella su Nitsch era una battuta, Luminamenti: è che non piace per niente né a me né a Verena e Gert!
    Se un giorno provassi a portare V&G a Palermo, cosa della quale entrambi sarebbero certo entusiasti, coroneresti in gloria il senso di questa mia opera di mediazione. Se potrò supportare in qualche modo il tentativo, immagino tu sappia dove trovarmi.
    Herzliche Grüße,
    StZ

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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