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Da: Album feriale

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di Maria Pia Quintavalla

Dalla torretta.

Dalla torretta, svelta sotto il cappotto/ e i documenti (falsi? veri?)/ e lei non vista, che guardava. L’uscita l’aveva occhieggiata negli anni, /le gambe vezzeggiate e denudate,/come un amante.
I colonnelli erano al governo, la loro /dittatura imperava di prigionia /e di primogenitura.
Imperterrita sul luogo si era abituata /a vivere assediata, ma un giorno / stanca di sostare entro le mura, uscì./ Passaporto confini e uscite erano libere./ (Aperte). Fiatò tremò sul bavero della camicia, /poi si avviò, le voci.

Le voci le sentiva ridosso di altre voci,/ erano decadute erano state – tutto il tempo/ sue e segrete ma le sentiva /già lontane, fuori – giacché nascoste, /male custodite.
Ma non più accanto a sé né dentro,/ udite per la via erano dette, e divenute/ come sue, silenti.

Silente appassito era il suo volto – /che ogni tanto incontrava, e poi scansava -./poi lento, rasente il muro riaffiorava./ Toccava crepe introduceva il dito, /tra una fessura e l’altra respirava. /Pioveva intonaco divino. Ma lei /qui stasera si sentiva esclusa.
Da un editto celeste un po’ malato, /ma perfetto al suo tatto, un po’ felino.
Dal fondo lago verso sera /il passo la guidava, se felice.

Felici e lunghe le falcate della sera, /se ritornava in più serena e forte,/ pencolante.
Per quei bagliori e strade tutta /una lucciolata ne veniva tardi sospesa: fuori /dalle sue mura le distanze apparivano consuete./ Nessuno l’avvertì di cumuli di buoi/ in rovina, al suo passaggio.
Campagne dal deserto seminate, / dal passo lento di carri e processioni – /fedeli popoli in cammino;
già altri già sfollati, nati.

Nati di lì decisero sortire, mille/ e mille di loro se ne andarono.
In esilio da primogeniture – lenti e molti, /disastri di astrali gelosie – e disastri/ come teatri,
altri astri.

Respira espira!

Respira espira! Pensando ora, e separata
io qui seduta in bene, sto vivendo.
E non mi ammalo più non mi muoio più,
vita legittima che ricomincia – diastole sistole belle
e buone, ognuna bella ed è mia.
Di diritto in istante, niente più panico d’essere
vista e da chi, devo calmarmi
dall’angoscia lasciarla esalare come
asma come tosse, ai loro attacchi non
mescolarti, non esserne affine:
la bambina ferita interrotta, al riparo
non alla tana del lupo, all’indietro                       
sia curata e salvata in luoghi ma da mani
      sicure le mie,
la cui maternità è più che certa più
che soccorritrice e fedele, la m i a.

Da oggi le va insegnato come correre
su ginocchia sicure, a non gridare sue
terribili grida ma a sussurrarle,
                            da clandestina
da adottata nel cuore.

perciò,
non entrare trafelata
con quell’occhio di gattina mesta
spaventata di vivere sì, di già esausta
nella positura corolla dell’essere.
Non è là la tua stella polare non
di là i tuoi fiori crollati;
fatti forza sui piedi non entrare, dai entra
sì intera, perorando a Nessuno quell’affetto
dal cuore perfetto che si chiama
padre, eclissi e magnifica circonferenza,
silenzio di Dio, tegola e passione
  
Occhi verdi concupiscenti non ti pregarono
né ti insegnarono la morale ma a morire
per strada di sragione in prigione, di clamore
in bassure di terra –
straniera, non genufletterti là, non
vendere la tua limpida
gioia di donna – e vergine cresciuta
là fuori nelle vaste sale
di isole, del più verde.

Ecco un io pianetino.

Ecco un io pianetino invisibile azzurro, e che non viene attaccato, presentarsi di spalle scalpitante recalcitrante, poi avanzare su sé, e di fronte all’occhio monologo del buon Dio, sui piedi ritti
presentarsi pari unito, e dire:
Sì, sono brava, la sono dal tempo dei miei primi banchi, bianco quadrati della vita, dove mani conserte e piedi a lato, mi ritrovai pensosa donna.
Davanti all’occhio del buon Dio lei gongolava, poi lestamente abbassati gli occhi miopi, e i benedicenti piedi, chiedergli,
Perché non parli e non dici cosa davvero pensi su noi, sul mio destino?
Se ho peccato se lì vicino agli occhi di sorgente dove abitavo (e tu vivevi) ritieni giusto qualcuno di nascosto si presenti e torni, per noi bene dicente a dire, Pagherete!
Su voi più piccoli piove la gloria, ripeteva il Dio grande paterno dalle chiome a riccioli distesi. Non chiedere più niente, non lo fare. Bene dicente è il glicine che appeso, beve alla finestra marzolina della sera le sue tonde parole le preghiere, di quando trepida bambina là distesa, ti ritrovai in intima attesa della vita.-

Se Dio mi ama io scrivo e se non scrivo muoio, peggio beccheggio, e stono fino a sera le mie modestissime preghiere che, come tozzi di pane restano là chiuse né con l’acqua si nutrono ma il ristagno che le gonfia e accompagna può anche ucciderle scipirle, farne mollica o semente senza odore della sera.
L’occhio di Dio la rimirava piccola e mansueta, una bambina spiritosa, ma la sua ombra disegnava un muro là di fronte misero sterrato, dal convolvolo abbassato.
Non credere agli uragani d’amore del passato, al matrimonio pieno alla felicità durevole col mondo, ordina l’apertura della gabbia sfondo dove qualcuno seppellisce l’occhio. Va’ in sordina,
va’ a rivelarti integra, piccolina sull’impronta scalpore della sera,
su ciottoli del fiume su refoli di sera, fuori da cerchia e mura – di rivolte beghine,  la tua sera.

Maria Pia Quintavalla è nata a Parma e vive a Milano.
Ha pubblicato: Cantare semplice (Tam Tam Geiger 1984 prefazione Nadia Campana), Lettere giovani (Campanotto 1990 prefazione Maurizio Cucchi), Il Cantare (Campanotto 1991 prefazione Nadia Campana), Le Moradas (Empiria, 1996 prefazione Giancarlo Majorino), Estranea (canzone) (Piero Manni 2000, introduzione di Andrea Zanzotto), Corpus solum (Archivi del 900, 2002 prefazione di Giampiero Neri); ultimo libro:Album feriale ( Rosellina Archinto 2005 prefazione di Franco Loi )
Ha curato le antologie: Donne in poesia, Presidenza Comune di Milano 1985, ristampa 1988, Campanotto, omonimo festival nazionale, dal 1985, Milano.
Figura in numerose antologie della poesia italiana, di cui l’ultima “Trent’anni di Novecento”, a cura di Alberto Bertoni, Book Edizioni 2005.
Vincitrice ai premi: Tropea, Cittadella, Città S.Vito, Alghero Donna, Nosside, Gold Winners Nosside,  Marazza Borgomanero, finalista in cinquina al Viareggio 2000.

Traduzioni in lingua tedesca su: Skema, Università di Tubinga 1988, ( a cura di Carlo Alessandro Landini), in lingua spagnola su Certa, Barcelona, 2000, ( a cura di Fabio Scotto), in lingua inglese per Yale Italian Poetry, a cura di Paolo Valesio, New York, 2005

Cura seminari sulla lingua italiana, e sul testo poetico, presso diverse istituzioni, tra cui l’Università Statale di Milano, Archivi del ‘900, libera Università delle donne, Società Umanitaria.

(Immagine: La cena – di Alberto Sughi)
 

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18 Commenti

  1. Che emozione ritrovare questi testi. Ogni volta che li leggo mi sembrano contenere qualcosa in più della volta precedente; forse, semplicemente, la loro densità richiede molteplici letture per tuffarsi con agio e nuotare tra le parole.
    Accade così con la grande poesia, e questa mi fa pensare ad ascendenze nobili russe (la grande Marina, perchè no) e mitteleuropee (da Holderlin a Cela, perchè no). E poi Parma è fucina di molti poeti, grandi o meno grandi, ma tutti allattati dalla poesia della loro esuberantemente feconda (e magnifica) terra.

  2. “Miei cari..e buonii” tuonava, nel suo saluto e canto d’addio, il “Pugacev” di Esenin, che tanto mi sedusse (Esenin), quando mi misi a scrivere per la prima volta, poco prima di lasciare la mia terra, o d’esserne lasciata.. giusto come capitò al dolce Sergiej, la sua campagna per la Mosca delle bettole; ed io, da lui “autorizzata” e sotto dettatura, convinta si trattasse di una trance, e quelle spighe battenti di giallo come la luna contro cui il poeta va a parlare (e pisciare)felice risuonavano, in una ragazza cresciuta vicino alla terra, trovavano una me già pronta ad aprire la bocca per cantare. Perché lo ricordo? ma perché Berto, caro amico della mia vita, parla della russa Marina, della lirica tedesca, ed io so che bagnarmi in quelle acque, anche se avvenne dopo, mi attirò al mare( “la quintessenza dell’inchiostro”- dico la poesia, in un altro libro, Lettere giovani)

    Bene, mi fa tantissimo piacere essere ospitata qui, da Nazione indiana, e da Franzk che ha scelto, immagino, anche l’immagine( della sera, o de la cena ed altro, è pieno il mio Album feriale, da cui sono prese queste poesie)

    Grazie, cari amici da Maria Pia

  3. Sì, Maria Pia, il Sughi de “la cena”, quadro che ha ispirato anche Ettore Scola per il suo magnifico “La terrazza”, mi sembrava una buona idea per corredare con un’immagine forte le tue poesie. Grazie a te!

  4. Una bellissima scelta; mi ha colpito in particolare “Ecco un io pianetino”, scritto in una prosa poetica che è genere del tutto trascurato nella nostra storia letteraria recente, eppure capace di tali risultati.
    P.S.: Esenin è stato un mio amore giovanile, lo riprenderò !

  5. Per Franz,

    Bella lingua che esce dalla fortezza, LIBERA.
    E’ una rivincita sul regno del terrore imposto alle donne:
    corpo vigilato, custodito, incatenato.
    Il corpo poetico scioglie la catena, affronta la luce del mondo, raggiunge la tunica celeste.
    Il corpo poetico va alla terra e si dilegua.
    Dice la natura femminile: sangue, respira, buio, espira, maternità, verginità, vulva chiusa e aperta.
    La lingua poetica di Maria pia Quintavella cuce questo vestito.

    Grazie per questa poesia divina.

  6. Per Véronique:
    non so rispondere ai complimenti, questi tuoi sono profondi poi..lascio che i testi agiscano come devono, o sanno, nulla più.
    Però se qualche bottiglia, col messaggio/suono che sia, va ad un’altra riva, ne gioisco, certo.

    Il quadro era bellissimo, ho indovinato per associazione…era giusto!
    Scola poi, non mancava, di gusto, eh?)

    Maria Pia

  7. Per Maria Pia,

    E’ raro che un autore risponde. Questo svela un’anima delicata. Non padroneggio la lingua italiana. Leggendo ho sentito una luce divina, una voce femminile che scala i muri, una voce di bambina prigioniera che fugge dalla torella. Quando leggo, il ritmo e le parole fanno nascere storia che mi racconto, trovano risonanza nella mia infanzia: è l’incanto della poesia.

    Grazie. Véronique

  8. belli – dimensione insieme panica e appartata, di coinvolgimento ed inappartenenza – l’incipit “respira espira!” esprime una fisicità inaspettata – grazie FK – ciao, e.

  9. Maria Pia,
    in “Respira espira!” ho visto e respirato, qualcosa che
    solo alle donne appartiene, o è dato di vedere….
    e ti ringrazio.

    ‘Respira espira! Pensando ora, e separata
    io qui seduta in bene, sto vivendo.
    E non mi ammalo più non mi muoio più’

  10. Grazie a Véronique, che con questo abbandono, e libertà, mi segue; se queste poesie riportano all’infanzia, allora vanno in una direzione di intimità, che è della poesia.
    E grazie ad Enrico De Lea, che dice con un ossimoro vero ancora dell’intimità, e dell’ inappartenenza.
    Forse parlai ieri, un pò a sproposito, della lettura giovanile di Esenin, ma per dire del senso panico, presente nei testi, oppure: .. Ecco partiì da lì, da quelle regioni del sentire..
    Maria Pia Q.

  11. Date le frequentazioni poetiche di MariaPia (che Berto ha già in parte evidenziato), mi chiedevo già dalla prima volta che ho letto “Ecco un io pianetino” quale influenza sotterranea abbia potuto avere Microfilm (Pasque) e non solo… di Zanzotto sul tuo componimento…

    intanto un caro saluto a tutti

    L.M.

    PS
    trovo comunque davvero notevole Dalla torretta che, al di là di implicazioni politiche/private, rimanda sottotraccia ad una complessa rete di motivi/citazioni poetiche

  12. Cara Maria Pia, ho letto ieri, stamane ed ora quest’ottimo estratto da “Album feriale”. E’ una scrittura che non solo regge ad ogni rilettura ma che, anzi, sempre nuovi sensi, nuove suggestioni, nuovi cromatismi sa offrire al lettore. Qui, nella prosa poetica di “Un io pianetino” una musica e un ritmo sapienti (con le sue allitterazioni e assonanze) fanno apparire leggera questa scrittura che pure non lo è, per la meditazione e introspezione che trasfonde, per l’anamnesi di una condizione umana e artistica. In un gioco di interlocuzione a tre – in prima, seconda e terza persona – s’alternano la voce accorata (prima persona: “Se Dio mi ama io scrivo…”), quella normativa (seconda persona: “Non credere agli uragani d’amore…”), quella oggettiva e trascendente, quasi biblica (Terza persona: “L’occhio di Dio la rimirava piccola e mansueta…”).
    Bellissimo il finale (da: “Non credere agli uragani…”) dove uno sguardo umbratile s’armonizza con una fiducia luminosa: “va’ a rivelarti integra, …su refoli di sera, fuori da cerchia e mura …la tua sera.”
    …Per l’unicità irripetibile, che siamo.
    Un abbraccio
    Giovanni

  13. Caro Giovanni e caro Luigi, cara Carla insieme a Véronique,
    mi trovo in un giardino di risposte poetiche, le vostre, che mi festeggiano il cuore, se si può dire, e mi riempiono di voglia di riprendere a fare poesia, poiché davvero è un fare profondo.
    Quel tocco leggero di cui parli, Giovanni, è lo stato di grazia della poesia che allenta le ombre di altri muri, di convolvoli abbassati, o di uragani del passato-presente, è la sua verità.
    Grazie per averlo colto, riletto, tu sai che ogni lettura riscrive, e non solo su sabbia, ogni onda del verso: lo vivifica e lo rende tuo, suo.
    mi sento in pace stasera

    Maria Pia

  14. “Mi festeggiano il cuore”.

    Maria Pia, anche quando scrivi un post fai poesia. Complimenti e vai sempre così!

  15. Certo che quel io pianetino invisibile azzurro è difficile toglierselo di mente, sembra uno di quei ritornelli torturatori che ti ronzano in testa petulanti.
    Respira respira, ma la tua poesia lo toglie piuttosto il respiro, o meglio lo incalza, non molla la presa sul collo: “ascolta, non distrarti, guarda, intendi”
    Non c’è tempo per soffermarsi a gustare una certa immagine, una sonorità di parole, per “crogiolarsi” in una “armonia” , perché lo scopo di “questa” poesia (forse) non è “questo”, e si è trascinati verso dopo verso, alla fine. (Come in un giallo? Se è lecito il paragone).
    Così una è obbligata a leggere e rileggere per ricercarsi di volta in volta le “cose” che ha colto e annotato, come da un finestrino su un treno in corsa, cose di cui vuole impossessarsi, in un corpo a corpo con i tuoi versi.
    Tutto il mio intervento è all’insegna della costrizione, dimensione apparentemente negativa e opposta al godimento, ma per me, attualmente , è un sollievo essere ancorata a una visione che mi eviti il divagare inconcludente.

    adriana p. r

  16. Cara Adriana,
    ascolto e imparo.. credevo dell’io pianetino, si vedesse anche l’infanzia, la scolara della vita, e il romanzo interminabile con l’occhio del buo Dio. .
    Mi pace la tua visita, qui; sai, non c’avevo proprio pensato all’andare alla fine che trasporta, se non per quell’esperienza di compimento, che pertiene a tutti i viaggi testuali, che si tratti di corsa, o di galoppo(spiegava Céline, che all’emozione pertiene il trotto, e poi il galoppo, etc) e dunque, è umano le immagini – non offrano qui – soste o consolazioni.
    In altre, e sono le ballate, mi pare persino che aleggi un bisogno di melodiare, ma sono le prime nel libro, e più recenti, addidrittura narrative.
    Queste ultime, erano state scritte per prime, vari anni prima. Così, ho sempre fatto un libro, in ordine decrescente..

    Se per costrizione vuole dire poi, avere dei vincoli, anche linguistici, da cui non scappare, e non solo parole ineffabili, e fare andare anche il lettore nel cono d’ombra(o di luce, da dove si voglia) della stanza sonora, béh non mi dispiace , vuole dire che si è fatto un giro di tango, o d’ altra danza, un pò rapiti…allora, lasciamo alla danza questi sortilegio!
    Grazie!

    Maria Pia

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