Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

di Linnio Accorroni

Coltivo da sempre (non penso di essere il solo, del resto) una insopprimibile passione per la pagina delle lettere nei quotidiani: ritengo che essa sia spesso illuminante per comprendere ‘lo stato delle cose’, come se in quelle cronache dal basso ci fosse un’indelebile componente di autenticità, vanamente poi rincorsa dalle altre pagine del quotidiano. Nella cronaca romana di Repubblica c’è una specie di box intitolato, con accenti enfatici che strizzano l’occhio a quel giustizialismo populista oggi tanto à la page, ‘I lettori denunciano’. Ogni lettera deve essere firmata e completata con indirizzo, telefono, etc: questo, ovviamente, per far sì che le denunce non siano generiche, false, inattendibili o prive di legittima consistenza. Nella prima pagina romana del 30 giugno si poteva leggere la seguente lettera:

Il 18 giugno ho notato che su di un marciapiede di fronte alla mia abitazione giaceva il cadavere di un gatto. Da romana rispettosa della città, ho chiamato il numero verde dell’Ama, che mi ha consigliato di rivolgermi al canile municipale (cui ho immediatamente telefonato). Poiché il 25 giugno la carcassa del gatto era ancora lì, ho contattato la segreteria del sindaco e l’ufficio dei Diritti degli animali, la Asl e nuovamente il canile. Nessuno di questi uffici si è mobilitato: i resti del gatto sono ancora lì.

È una lettera di meraviglioso candore, espressa con i toni accorati di una prosa semplice e naïf; la premurosa signora tutta politically correct che scrive la lettera non si rende conto che ciò che davvero fa scandalo non è, in questo caso, il non-intervento dell’autorità pubblica, quanto invece quella specie di involontario outing, l’ostentazione della propria neghittosa pigrizia e irresolutezza, maldestramente mascherata con la denuncia dell’inerzia dei servizi pubblici. La signora, probabilmente, pensava di aver fatto un beau geste, ritenendo che questa lettera potesse essere rubricata come l’ennesima denuncia di un cittadino responsabile, educato, degno esponente della società civile (quella soi disant, soprattutto) che additava al pubblico ludibrio l’ennesimo caso di incuria e di inefficienza dello stato. La signora non aveva compreso invece che si stava confezionando un boomerang che, con una traiettoria di mirabile perfidia, avrebbe finito per colpire proprio chi l’aveva lanciato, pensando di fare cosa buona e giusta: un po’ come quando, in quel proverbio diffuso dalle mie parti, si parla di ‘sputi che ricadono addosso a chi li ha lanciati’. In queste righe della signora, infatti, rinveniamo come in un piccolo, ma capiente scrigno, le gemme più preziose di certa Itaglietta, alcuni sfolgoranti lapislazzuli del nostro costume e carattere.
Partiamo dalle date.
La signora si accorge il 18 giugno che c’è un gatto morto sotto casa sua: non scende di sotto per fare qualcosa, per toglierlo da lì, ma comincia invece a telefonare ostinatamente, maniacalmente, appassionatamente. L’elenco degli enti a cui lei si rivolge traccia il diagramma perfetto di una burocrazia impiegatizia pachidermica e inerziale, in cui enti e uffici si rimbalzano giocosamente la responsabilità (off line, sembra di sentirli i commenti smandrappati e salaci del ceto impiegatizio romanesco nei confronti di quella signora afflitta da un problema tanto grave e irrisolvibile: ‘ahoo, c’è da spostà un gatto… A li mortacci…). Ma la signora, che si guarda bene dal fare ciò che andava facilmente fatto, non si dà per vinta: telefona persino alla segreteria del sindaco che, magari, in quei giorni in cui Walterissima era in aria di autonomination, aveva cose più urgenti e pressanti a cui pensare.
Niente, tutto tace. La signora telefona, parla, perora, redarguisce, spiega, ma nessuno fa niente: l’ufficio dei diritti degli animali, l’asl, il canile municipale. Una congiura metropolitana contro di lei per non rimuovere il cadavere del gatto.
Dopo 7 giorni 7 dal rinvenimento del gatto morto sotto casa sua, nonostante le telefonate e i solleciti, il gatto (o meglio quello che esso è diventato: avete mai visto, in piena estate, il cadavere di un animale in putrefazione?) è ancora lì.
Presumo che la signora mediti di scrivere al Presidente della Repubblica. Poi sarà la volta dell’Onu?

Il libro-intervista Sono un gran bugiardo. L’ultima confessione del Maestro raccoglie una immaginifica intervista di Federico Fellini, raccolta dal canadese Damien Pettigrew: è una chiacchierata fluviale, qualche volta persino irrazionale e sconclusionata, in cui l’intervistato squaderna da par suo quell’“insana letizia” che Mastroianni spesso bonariamente gli rimproverava. Fellini pare intento soprattutto a depistare, a far scialo di parole, aneddoti, ricordi, con la stessa dispettosa generosità con la quale utilizzava fumogeni, vapori, nebbie nei suoi film: il nonno che si perdeva in mezzo alla nebbia in Amarcord o, in Otto e mezzo, la Milo che, omaggiata dagli sbuffi e dalle nuvole del wagon-lit, scendeva dalla carrozza ancheggiando e cinguettando, riempiendo di un feroce desiderio sensuale Mastroianni e gli spettatori. Un’intervista piena di excursus junghiani, di malinconie luttuose da senex fuori tempo massimo, di curiose divagazioni tricologiche, di fumisterie fumettistiche, di rivendicazione di una civettuola irresponsabilità da puer aeternus, di riletture bizzarre della sua produzione filmografica. A un certo tratto, Fellini, accennando a una scena de Le voci della luna, ricorda l’episodio originale, da cui essa era stata tratta e che Mario Tobino aveva narrato nel suo Le libere donne di Magliano:

“Roberto, il giovane protagonista, è un dottore che sta attraversando una crisi morale e spirituale e che decide di passare un anno in un ospedale psichiatrico. Fa rapidamente amicizia con qualche collega; [insieme decidono una spedizione] al vicino Hotel Montecatini dove la cameriera – girava voce – era una vera bomba. Un pomeriggio, dopo il lavoro, saltano nella rumorosa Alfa Romeo di Roberto e se ne vanno a Montecatini. Comunque sono fuori stagione e l’hotel è chiuso. La cameriera col petto favoloso e il gran culo, tanto vantata dai dottori del reparto, è introvabile. Allora svegliano il portiere, obbligandolo a dare loro l’indirizzo della donna: è la figlia di contadini che trovano lavoro nei campi quando l’hotel è chiuso in inverno. La grottesca e lunatica ricerca del corpo di una donna idealizzata continua fino al mattino presto, quando giungono ad una fattoria pietosa e diroccata persa tra i campi. Qui, nel silenzio del pieno inverno, davanti al mutismo delle finestre sbarrate, la loro brama febbrile evapora. Giunta l’alba, non hanno altra scelta di ritornare all’ospedale psichiatrico di Magliano”.

Questa che parrebbe una favoletta scombiccherata e cialtronesca, in pieno stile felliniano, è in realtà un apologo che circoscrive non solo il tracciato esatto entro cui si muovono tante umane esperienze, ma è anche, come la lettera della signora succitata, uno spaccato antropologico, una parabola della nostra sempiterna Itaglietta. Anche qui c’è tutto, davvero: il protagonista in crisi, imbozzolito in una condizione psicologica che perde progressivamente la sua caratteristica di condizione temporanea e transeunte per assumere invece la fattualità di uno stato permanente dell’essere, una condizione ontologica. La chiacchiera sul posto di lavoro, la flatulenza gossipara che assume, a furia di ciarle e chiacchiere, dimensioni esorbitanti che hanno poco a che fare con la realtà originaria da cui sono nate. L’hotel e la cameriera: le due costanti materiali – cibo e sesso – che rappresentano due archetipi dell’esistenza di ciascuno, i due meccanismi desideranti e regolativi entro cui si condensa il senso della vita, per dirlo alla Monty Phyton. Ma la magnifica Utopia, il miraggio di questa mitica Terra di Cuccagna (cibo+sesso) sfuma ben presto: la cameriera in hotel non c’è. Ma forse vive in campagna, in una contrada appartata: e allora il viaggio notturno dalle tinte oniriche in una terra che ci è familiare, eppure estranea, sconosciuta, infida, alla ricerca di qualcosa che tanto più sembra a portata di mano, tanto più si allontana. L’allegoria della chiusa del racconto di Tobino è perfetta: dopo lunghe peripezie e girovagare, i due individuano finalmente la casa, sanno che lì dentro probabilmente è custodito il tesoro di quella dualità di ineffabile bellezza… Ma davanti al mutismo delle finestre sbarrate, la loro brama febbrile evapora. Ecco: si deve tornare a casa, al lavoro, all’ospedale. Ancora una volta, la felicità che sembrava a portata di mano sfugge ed evapora: ci si accontenta di pensare che essa stava lì, in quella casa pietosa e diroccata persa tra i campi e che, per pochi attimi, l’abbiamo quasi avuta a portata di mano. Ma forse è meglio così.

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5 Commenti

  1. A proposito di lettere ai giornali, segnalo questa “d’autore”, tratta da Bresciaoggi di lunedì 09 luglio 2007 (pag. 41):

    Montichiari tra odori e rumori

    Al direttore dell’Azienda Sanitaria Locale di Brescia. A cicli imprevisti ma regolari, quasi tutto il paese di Montichiari è invaso da miasmi di stallatico che chi se ne intende ascrive all’urina di maiali: l’aria è irrespirabile per periodi di settimane e in particolar modo l’aria di chi, come me, ha la sua casa sul cosiddetto vaso reale o fosso che attraversa il paese da ben oltre Borgosopra a ben dopo Borgosotto. Altre volte è successo che indagini abbiano portato all’individuazione di figuri che lavavano cisterne di tir in questo invaso e proprio cisterne collegate con porcili industriali; ora, si sa che le norme europee proibiscono la produzione indiscriminata di tali animali sui territori bresciani e mantovani in particolare per non pregiudicare ulteriormente le falde acquifere e mi chiedo come sia possibile che il Vs istituto debba venire allertato da me o da altri per una simile causa, che non dovrebbe in alcun modo più ripetersi. Qui viviamo davvero con i fazzoletti alla bocca, e già abbiamo il carico di inquinamento atmosferico (per non parlare di quello acustico) prodotto dai carburanti degli jambo che solcano il territorio per scaricare merci al locale aeroporto, nonché l’assedio di discariche che hanno fatto sì che Montichiari venga chiamato, a livello nazionale, il Comune – discarica. Qui è tutto un sanpietrino e una colonnina e una rotonda e una madonnina e una torretta e una croce e una parte medievale che più ridicola non si può, Ma io al morire di cancro in un salotto misticheggiante preferirei di gran lunga un po’ di sana e laica responsabilità e vigilanza sanitaria.
    Aldo Busi MONTICHIARI

  2. Guarda guarda… una storia pressoché identica (gatto morto+segnalazioni inascoltate) sul mitico numero uno datato 1881 del mio quotidiano cittadino. E non eravamo nemmeno italiani, al tempo, noi di Trieste.

  3. Per quanto riguarda la prima parte del post, circa la lettera-boomerang della signora… certo, la carcassa di gatto poteva anche rimuoverla (e non suscitare tutto quell’ado for nothing). Tuttavia, ci sarebbe da chiedersi se, in fondo in fondo, chi è preposto alla nettezza urbana (pagato -lo so, è un osceno luogo comune dirlo- con tasse perniciosamente esatte da enti e sovra-enti), sul problemino del gatto non sarebbe potuto, magari, intervenire facendo (lo so, è di un lapalissiano ributtante, dirlo), il proprio lavoro…

    Per quanto riguarda la seconda parte del post… siamo sicuri che sia “Itaglietta”, la rincorsa di un sogno inesistente e sgusciante, figlio di leggende e di canti (dal gossip al mito spesso il passo può essere breve, tanto per riecheggiare Capote), sia esso l’Eldorado (o gran Paititi che leggendar si voglia) o la seduzione suadente di una fantomatica cameriera (o campagnola)? O non è forse ciò che l’intera umanità ha fatto per metà della sua storia, quando non era incindentalmente impegnata a massacrarsi?

    E in fondo, sono così da disprezzare, coloro che si lamentano per quei piccoli fastidi, che qualcuno è pagato per rimuovere, ma non si cura di farlo, perché Walterissima incombe e c’è sempre altro di meglio (e più importante, e più alto-locato) da fare? O sono così da stigmatizzare, i piccoli sogni, per lo più frustrati e ricacciati nell’ingranaggio, che qualcuno deve pur far girare?

    O non è forse un altro, il problema dell’ “Itaglietta”? Magari il peso di un grumo di comitati di pietra piccoli e grandi, su varia scala troppo impegnati fra intrallazzi e giochi di poltrone, per sentirsi chiamati a svolgere un minimo di servizio, e troppo elitari e raffinati, per considerare esseri umani a pieno titolo anche quelli che non fanno parte del loro provincialotto gioco del Monopoli?

    Anche perché, dalla carcassa di gatto non rimossa, con commenti ironici degli impiegati, all’infartuato rimandato a casa dal pronto soccorso, con bonario coro di strafottenza di medici e paramedici, il passo è ancora più breve di quello fra il gossip e il mito…

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