19 Luglio 1992 : Una strage di stato

lettera aperta di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo

Per anni, dopo l’estate del 1992 sono stato in tante scuole d’Italia a parlare del sogno di Paolo e Giovanni, a parlare di speranza, di volontà di lottare, di quell’alba che vedevo vicina grazie alla rinascita della coscienza civile dopo il loro sacrificio, dopo la lunga notte di stragi senza colpevoli e della interminabile serie di assassini di magistrati, poliziotti e giornalisti indegna di un paese cosiddetto civile.

Poi quell’alba si è rivelata solo un miraggio, la coscienza civile che purtroppo in Italia deve sempre essere svegliata da tragedie come quella di Capaci o di Via D’Amelio, si è di nuovo assopita sotto il peso dell’ indifferenza e quella che sembrava essere la volontà di riscatto dello Stato nella lotta alla mafia si è di nuovo spenta, sepolta dalla volontà di normalizzazione e compromesso e contro i giudici, almeno contro quelli onesti e ancora vivi, è iniziata un altro tipo di lotta, non più con il tritolo ma con armi più subdole, come la delegittimazione della stessa funzione del magistrato, e di quelli morti si è cercato da ogni parte di appropriarsene mistificandone il messaggio.

Per anni allora ho sentito crescere in me, giorno per giorno, sentimenti di disillusione, di rabbia e a poco a poco la speranza veniva sostituita dalla sfiducia nello Stato, nelle Istituzioni che non avevano saputo raccogliere il frutto del sacrificio di quegli uomini, e allora ho smesso di parlare ai giovani convinto che non era mio diritto comunicare loro questi sentimenti, soprattutto che non era mio diritto di farlo come fratello di Paolo che, sino all’ultimo momento della sua vita, aveva sempre tenuto accesa dentro di sé, e in quelli che gli stavano vicino, la speranza, anzi la certezza, di un domani diverso per la sua Sicilia e per il suo Paese.

Per anni allora non sono neanche più tornato in Sicilia, rifiutandomi di vedere, almeno con gli occhi, l’abisso in cui questa terra era ancora sprofondata, di vedere, almeno con gli occhi, come tutto quello contro cui Paolo aveva lottato, la corruzione, il clientelismo, la contiguità fossero di nuovo imperanti, come nella politica, nel governo della cosa pubblica, fossero riemersi tutti i vecchi personaggi più ambigui, spesso dallo stesso Paolo inquisiti quando ancora in vita, e nuovi personaggi ancora peggiori dato che ormai oggi essere inquisiti sembra conferire un’aureola di persecuzione e quasi costituire un titolo di merito.

Da questa mia apatia, da questo rinchiudermi in una torre d’avorio limitandomi a giudicare ma senza più volere agire, sono stato di recente scosso da un incontro illuminante con Gioacchino Basile, un uomo che ha pagato sempre di persona le sue scelte, che, all’interno dei Cantieri Navali di Palermo e della Fincantrieri, ha sempre condotto, praticamente da solo e avendo contro lo stesso sindacato, quella lotta contro la mafia che sarebbe stata compito degli organismi dello Stato, Stato che invece, secondo le sue circostanziate denunce, intesseva accordi con la mafia trasformando le Partecipazioni Statali in un organismo di partecipazione al finanziamento e al potere della mafia in Sicilia.

I fatti riferiti in queste denunce, di cui Paolo Borsellino si era occupato nei giorni immediatamente precedenti il suo assassinio, sono state oggetto di una “Relazione sull’infiltrazione mafiosa nei Cantieri Navali di Palermo” da parte della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia (relatore on. Mantovano) ma come purtroppo troppo spesso succede in Italia con gli atti delle commissioni parlamentari, non hanno poi avuto sviluppi sul piano parlamentare mentre su quello giudiziario, come sempre succede quando si passa dalle indagini sulla mafia a quello sui livelli “superiori”, hanno subito la consueta sorte dell’archiviazione.

Gioacchino Basile è convinto che l’interesse personale che Paolo gli aveva assicurato nell’approfondimento di questo filone di indagine e l’averne riferito in uno dei suoi incontri a Roma nei giorni immediatamente precedenti la sua morte, sia il motivo principale della “necessità” di eliminarlo con una rapidità definita “anomala” dalla stessa Procura di Caltanissetta e che la sparizione di questo dossier dalla borsa di Paolo sia stata contestuale alla sottrazione dell’agenda rossa.

Per parte mia io credo che questo possa essere stato soltanto uno dei motivi, all’interno del più ampio filone “mafia-appalti” che lo stesso Paolo aveva fatto intuire fosse il motivo principale dell’eliminazione di Giovanni Falcone insieme alla sua ormai certa nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.

Il motivo principale credo invece sia stato quell’accordo di non belligeranza tra lo stato e il potere mafioso che deve essergli stato prospettato nello studio di un ministro negli incontri di Paolo a Roma nei giorni immediatamente precedenti la strage, accordo al quale Paolo deve di sicuro essersi sdegnosamente opposto.

Su questi incontri, che Paolo deve sicuramente aver annotato nella sua agenda scomparsa, pesa un silenzio inquietante e l’epidemia di amnesie che ha colpito dopo la morte di Paolo tutti i presunti partecipanti lo ha fatto diventare l’ultimo, inquietante, segreto di Stato, come inquietanti sono i segreti di Stato e gli “omissis” che riempiono le inchieste su tutte le altre stragi di Stato in Italia.

Ma il vero segreto di Stato, anche se segreto credo non sia più per nessuno, è lo scellerato accordo di mutuo soccorso stabilito negli anni tra lo Stato e la mafia.

A partire da quando i voti assicurati dalla mafia in Sicilia consentivano alla Democrazia Cristiana di governare nel resto dell’Italia anche se questo aveva come conseguenza l’abbandono della Sicilia, così come di tutto il Sud al potere mafioso, la rinuncia al controllo del territorio, l’accettazione della coesistenza, insieme alle tasse dello Stato, delle tasse imposte dalla mafia, il pizzo e il taglieggiamento.

E, conseguenza ancora più grave, la rinunzia, da parte dei giovani del sud, alla speranza di un lavoro se non ottenuto, da pochi, a prezzo di favori e clientelismo e negato, a molti, per il mancato sviluppo dell’ industrializzazione rispetto al resto del paese.

A seguire con il “papello” contrattato da Riina con lo Stato con la minaccia di portare la guerra anche nel resto del paese (vedi via dei Georgofili e via Palestro), contrattazione che è stata a mio avviso la causa principale della necessità di eliminare Paolo Borsellino, e di eliminarlo in fretta.

A seguire, infine, con l’individuazione di nuovi referenti politici dopo che le vicende di tangentopoli aveva fatto piazza pulita di buona parte della precedente classe politica e dei referenti “storici”.

Accordi questi che costituiscono la causa del degrado civile di oggi dove si consente che indagati per associazione mafiosa governino la Sicilia e dove, a livello nazionale, cresce, almeno nei sondaggi, il consenso popolare verso chi ha probabilmente adoperato capitali di provenienza mafiosa per creare il proprio impero industriale con annesso partito politico.

Come possono allora chiamarsi “deviati” e non consoni all’essenza stesso di questo Stato quei “Servizi” che, per “silenzio-assenso” del capo del Governo o su sua esplicita richiesta, hanno spiato magistrati ritenuti e definiti “nemici” nei relativi dossier e addirittura convinto altri magistati a spiare quei loro colleghi che, sempre negli stessi dossier, venivano definiti come “nemici”, “comunisti” e “braccio armato” della magistratura, con un linguaggio che non è difficile ritrovare negli articoli di certi giornali e nelle dichiarazioni di certi poltici.

Giaocchino Basile mi dice che sarebbe mio diritto “pretendere” dallo stato di conoscere la verità sull’assassinio di Paolo, ma da “questo” Stato, dal quale ho respinto “l’indennizzo” che pretendeva di offrirmi quale fratello di Paolo, indennizzo che andrebbe semmai offerto a tutti i giovani siciliani e italiani per quello che gli è stato tolto, sono sicuro che non otterrò altro che silenzi.

Gli stessi silenzi, lo stesso “muro di gomma”, che hanno dovuto subire i figli del Generale Dalla Chiesa, i parenti dei morti in quella interminabile serie di stragi, la strage di Portella della Ginestra, la strage di Piazza Fontana, la strage di Piazza della Loggia, la strage del Treno Italicus, la strage di Ustica, la strage di Natale del rapido 904, la strage di Pizzolungo, le stragi di Via dei Georgofili e di Via Palestro, delle quali oggi si conoscono raramente gli esecutori, mai i mandanti e spesso neanche il movente, susseguitesi mentre nel nostro Sud, grazie alla latitanza delle altre istituzioni dello Stato, uno dopo l’altro venivano uccisi tutti i Magistrati e i rappresentanti delle forze dell’ordine che della lotta alla mafia avevano fatto la propria ragione di vita, in una tragica sequenza che non ha eguali in nessuno degli altri paesi del mondo cosiddetto civile.

Io mi chiedo invece, con amarezza, di quante altre stragi, di quanti altri morti avremo ancora bisogno perché da parte dello Stato ci sia finalmente quella reazione decisa e soprattutto duratura, come finora non è mai stata, che porti alla sconfitta delle criminalità mafiosa e soprattutto dei poteri, sempre meno occulti, ad essa legati, perché venga finalmente rotto quel patto scellerato di non belligeranza che, come disse il giudice Di Lello il 20 Luglio del 1992, pezzi dello Stato hanno da decenni stretto con la mafia e che ha permesso e continua a permettere non solo la passata decennale latitanza di boss famosi come Riina e Provenzano ma la latitanza e l’impunità di decine di “capi mandamento” che sono i veri padroni sia di Palermo che delle altre città della Sicilia.

Da parte mia sono certo che non riuscirò a conoscere la verità in quel poco che mi resta da vivere dato che, a 65 anni, sono solo un sopravvissuto in una famiglia in cui mio padre, il fratello di mio padre, mio fratello, sono tutti morti a 52 anni, i primi per cause naturali, l’ultimo perché era diventato un corpo estraneo allo Stato le cui Istituzioni egli invece profondamente rispettava (sempre le Istituzioni, non sempre invece quelli che le rappresentavano).

Spero soltanto che, in questo anniversario, mi siano risparmiate la vista e le parole dei tanti ipocriti che oggi piangono su Paolo e Giovanni quando, se fossero ancora in vita, li osteggerebbero accusandoli, nella migiore della ipotesi, di essere dei “professionisti dell’antimafia” o li farebbero addirittura spiare da squallidi personaggi come Pio Pompa come “nemici” o come “braccio armato della magistratura”.

Chiedo solo, in questa occasione, di avere delle risposte ad almeno alcune delle tante domande, dei tanti dubbi che non mi lasciano pace.

Chiedo al Proc. Pietro Giammanco, allontanato da Palermo dopo l’assassinio di Paolo, ma promosso ad un incarico più alto piuttosto che rimosso come avrebbe meritato, perché non abbia disposto la bonifica e la zona di rimozione per Via D’Amelio.

Eppure nella stessa via, al n. 68 era stato da poco scoperto un covo dei Madonia e, a parte il pericolo oggettivo per l’incolumità di Paolo Borsellino, le segnalazioni di pericolo reale che pervenivano i quei giorni erano tali da da far confidare da Paolo a Pippo Tricoli lo stesso 19 Luglio: “è arrivato in città il carico di tritolo per me”.

A meno che, come affermato dal Sen. Mancino in un suo intervento del 20 Luglio alla camera, anche lui credesse che “Borsellino non era un frequentatore abituale della casa della madre” : infatti vi si recava appena almeno tre volte alla settimana!

La stessa domanda inoltro all’allora prefetto di Palermo Mario Jovine anche se la risposta ritiene di averla già data con l’affermazione fatta in quei giorni: “Nessuno segnalò la pericolosità di Via D’Amelio” .

Affermazione palesemente risibile: in quei giorni si erano susseguite le segnalazioni di possibili attentati a Paolo Borsellino e bastava interrogare gli stessi agenti della scorta, cinque dei quali morti insieme a lui, per sapere quali erano i punti più a rischio.

Chiedo alla Procura di Caltanissetta, e in particolare al gip Giovanbattista Tona, il motivo dell’archiviazione delle indagini relative alla pista del Castello Utveggio: eppure proprio da questo luogo partirono, subito dopo l’attentato, delle telefonate dal cellulare clonato di Borsellino a quello del dott. Contrada, oggi finalmente condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione per collusione e favoreggiamento.

Chiedo alla stessa Procura di Caltanissetta, e sempre allo stesso gip Giovanbattista Tona, i motivi dell’archiviazione dell’inchiesta relativa ai mandanti occulti delle stragi.

Per un’altra archivazione, quella relativa alle vicissitudini del fascicolo Fincantieri ho già inoltrato richiesta di chiarimenti in via ufficiale.

Chiedo alla Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte.

Chiedo soprattutto al sen. Nicola Mancino, del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte.

O spiegarci perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Polizia dott. Parisi e il dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente.

Altrimenti, grazie alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo.

E in quel colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della strage di Via D’Amelio.

Salvatore Borsellino
Milano, 15 Luglio 2007

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17 Commenti

  1. Purtroppo in Italia succede così: indignazione generalizzata, pianti, commozione, grande trasporto emotivo.
    Poi, dopo un po’ di bailamme, resta l’amarezza. Vai a trovarlo un altro che si fa ammazzare per fare luce… Bisogna che passino anni, decenni prima di mettere mano alle inchieste. Bisogna che tutto si intorbidisca ben bene.
    Si fanno grandi proclami e intanto tutto resta come prima. Peggio di prima.

    Ognuno fa i suoi calcoli e spesso succede che, una volta fatti, a nessuno convenga andare alla radice dei fatti come quello in cui è rimasto ucciso Paolo Borsellino. E così resta la minaccia grave che pesa da sempre. E’ il prezzo da pagare per rimanere nel sistema.

    Purtroppo in Italia funziona così.

  2. Questa lettera è come un pugno nello stomaco. Ci dice che non è morto il meridionalismo, come ideale di emancipazione e desiderio di autodeterminazione. E certe volte, per farti svegliare dalla controra – questo calore opprimente che ti toglie le forze -, questo serve, essere presi a pugni. Bravo Jan che l’ha pubblicata, la lettera in questione.

    Ma resta anche quel tarlo di Sciascia, che magari anche i grandi intellettuali sbagliano, come tutti gli essere umani, gli scappa una stronzata, una frase di cui pentirsi, un errore dell’intelligenza critica.

    Quel tarlo per cui una lettera come questa non può essere letta che in un modo, un punto di vista – il punto di vista.

    Si può essere ‘non completamente d’accordo’ con quello che scrive Paolo Borsellino? Lo stragismo può rappresentare davvero una spiegazione unificante della storia italiana del dopoguerra? Rispettando fino all’ultimo la memoria di Falcone, Borsellino, e di tutti i poveri morti di una disgraziata terra come il nostro Sud, possiamo fermarci all’agenda rossa, al carabiniere che l’ha sottratta, al giudice Ayala che dice non averla presa, ai misteri di stato? Come sfuggire a questa Repubblica del segreto che impedisce, anch’essa, ogni scatto, ogni reazione attiva?

    “Per anni allora ho sentito crescere in me, giorno per giorno, sentimenti di disillusione, di rabbia e a poco a poco la speranza veniva sostituita dalla sfiducia nello Stato…”

    La magistratura. Si può essere contro il tintinnare di manette e nello stesso tempo contro la mafia? Oppure la strada è solo quella della giustizia ‘democratica’? E’ questo che vogliamo? Che la Verità salti sempre fuori, a tutti i costi, che il Diritto si faccia rivelazione assoluta, carne e sangue? Sono solo punti di domanda.

    Che poi il dovere, il coraggio, anche l’eroismo, quello senza virgolette, siano qualità che possono tramortire chi vive di spacciature, picciotti nel calcestruzzo e camurrie, su questo, diciamolo pure, non ci sono obiezioni. I terroristi dietro le sbarre.

    Ma non c’è eroismo in magistrati come Di Pietro, Woodcock, o Forleo. Non c’è ragione di confondere la dignità con la ‘visibilità’, il carrierismo, l’avventurismo e il protagonismo di certi giudici con il rispetto delle garanzie individuali, la clemenza, l’antiautoritarismo.

    Come disse Borsellino a proposito di Sciascia, no comment. Altri tempi, un altro stile. Ora c’è Corona, le intercettazioni Unipol, il “dalli all’indulto”. Ma l’indulto non è un condono. E tutti quanti dovremmo avere diritto a una parte anche piccola di grazia. Resta l’amaro per quelli che non l’hanno avuta.

  3. Francesca: una stretta di mano per l’idea OTTIMA di leggere la lettera in classe. E una stretta di mano a Jan che ha deciso di pubblicarla.

    Blackjack

  4. @ The OC

    Quando era in vita Borsellino veniva considerato da tutti, anche dai migliori, il pm più carrierista che l’Italia abbia mai avuto. Magistratura Democratica prese le distanze sia da Falcone e Borsellino. Il primo accolse, pur di crescere in grado le proposte di collaborazione di MARTELLI!!!! Quando i pentiti parlarono di loro dicevano “ucciderli è stato un errore perchè si stavano distruggendo da soli, con l’invidia dei colleghi e la necessità per loro di avere sempre più potere per combatterci”

    Meditate gente. Meditate…

  5. Caro Iovine,

    non so perché quando clicco sul tuo nome si apre l’home page del comune di San Cipriano d’Aversa. E spero che tu abbia compreso il senso di quello che avevo scritto (mi sa di no).

    Ad ogni modo, se t’interessa unicamente l’argomento carrierismo, ti segnalo costui:
    http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2007/07_Luglio/17/tangentopoli_demagistris.shtml
    Ha appena fatto perquisire le case di giornalisti accusati di associazione a delinquere per diffamazione. Per diffamazione.

  6. Faccio notare che questa lettera non è stata pubblicata da nessun quotidiano italiano (alcune testate ne hanno pubblicato solo brevi stralci per portare acqua al proprio mulino). La versione integrale sta circolando solo sulla rete. Questo da un lato ci dice come il web sia diventato un vero spazio di libertà (che molti cercando di annullare con pretestuose iniziative legislative) e dall’altro ci fa comprendere il livello di complice sedazione che caratterizza la stampa italiana.

  7. Scusa, Nicolò, ora non è che mi cala difendere la grande stampa, ma dell’agenda rossa hanno parlato in molti, la settimana scorsa. (Sul web come libertà assoluta, poi, ci metteresti la mano sul fuoco? Sarebbe bello parlare di Google, per esempio, e di come funzionano i motori di ricerca. Penso al bel lavoro svolto dal collettivo Ippolita sull’argomento).

  8. @ The O.C. che nessun giornale abbia pubblicato la lettera di Borsellino è un fatto. Di questo parlavo. Salvatore Borsellino non parlava solo dell’agenda rossa. Ha scritto delle cose molto precise.

  9. Nicolò riporta un fatto preciso: questa lettera non è stata pubblicata da nessun quotidiano italiano. E lasciamo perdere i confronti con quelle di Veronica Lario e Mila Spicola, integrali e con richiamo in prima, perché ci sarebbe da piangere.

    Repubblica la sintetizzò il 20 luglio scrivendo, più o meno: “In una lettera, Salvatore Borsellino dice che il fratello è stato dimenticato dalla gente comune” (a pagina 28). Se questo è giornalismo…

    Parlare dell’agenda sparita come ne parlano, poi, è del tutto innocuo. Non significa nulla. Come dire i servizi deviati. Consiglio la lettura del libro “La trattativa” di Torrealta, lì si capiscono tante cose.

  10. Complimenti a Jan, per questa lettera aperta!

    il mondo è un paese di codardi
    e come un grande scrisse:
    ‘Ex silentio nutritur iustitia.’

  11. Come mai questa vicenda non interessa ai lettori di NI? Mi aspettavo un maggior numero di commenti. Mi sembra una cosa molto strana. Giuro che non ho risposte. Solo domande.

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