Rosso, di Uwe Timm

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di Linnio Accorroni

Giunto all’ultima pagina ho ricominciato daccapo, senza interruzione, come se non fosse ancora finito. Non riuscivo ad abbandonare quella prosa e quelle storie. Non potevo congedarmi da quel libro come si fa solitamente, ammonticchiandolo distrattamente sulla pila insieme con gli altri. Ricomincio quindi da quell’ incipit straniante ed inesplicabile che, a lettura ultimata, invece di chiarirsi, era diventato ancora più fosco ed enigmatico:

Sto sospeso in aria: Da quassù godo di una bella vista, riesco a vedere tutto l’incrocio, la strada, i marciapiedi. Sono disteso giù, in terra. Il traffico è bloccato. Quasi tutti gli automobilisti sono scesi dalle macchine. Si sono riuniti dei curiosi, alcuni mi circondano,  qualcuno mi sorregge la testa con molta delicatezza, una donna, è inginocchiata davanti a me […] Sento voci che chiamano un’ambulanza, curiosi che domandano cosa fosse successo, uno dice: ha attraversato la strada con il rosso. Un altro dice: l’automobilista ha provato a scansarlo. L’automobilista se ne sta seduto sul bordo del marciapiede, si tiene la testa tra le mani, trema, trema in tutto il corpo, mentre io sono lì disteso, calmo, niente dolori, strano, i pensieri vagano all’impazzata e una voce interiore esprime con chiarezza tutto quello che sento. È una buona cosa, questa, perché parlare fa proprio parte del mio lavoro. La mia borsa si trova a tre o quattro metri da me, in terra, e naturalmente si è aperta, una vecchia borsa di cuoio. Il pacchettino con l’esplosivo è schizzato fuori, anche i foglietti, le schede, le pagine con gli appunti, nessuno li degna di uno sguardo e svolazzano sulla carreggiata. E io penso, speriamo che siano attenti. E vorrei anche dire: attenzione, quello è esplosivo.

Il colore rosso
Il protagonista di questo racconto è un cinquantenne che vive a Berlino: Thomas ( da qui in avanti T.) Linde. Da anni tenta di scrivere un saggio sul colore rosso, sulle sue molteplici sfumature, suggestioni, implicazioni. Il rosso, del resto, è per eccellenza il colore delle connessioni e delle ridondanze, dell’eccesso e dell’ostentazione, che rifugge dalla univocità del nero ( il colore che annulla ed estingue tutti gli altri) e del bianco ( il colore che contenendo in sé tutti i colori, non ne contiene nessuno). A tratti, per sequenze brevi o lunghe, questo memoriale eterogeneo e persino un po’ caotico sul rosso, costituito perlopiù da frammenti, appunti e citazioni, risale fino alla superficie della pagina, mescolandosi nella rete degli avvenimenti in cui T. ed il suo work in progress mai terminato si impigliano fatalmente:

Rosso, bello, il colore della giovinezza, della passione, dell’ardore. Vedere rosso[…] Il rosso è il colore più spesso presente nelle bandiere, senza aggiunte, rosso pure è la bandiera della rivoluzione, della sinistra, della Comune di Parigi. Nell’Africa nera il rosso ricavato da alcuni frutti è il colore con cui le ragazze si dipingono il viso ed il corpo quando hanno le prime mestruazioni, oppure quando si posano o anche quando nasce il loro primo figlio. Rosso ciliegia, rosso lampone, rosso fragola. A questo colore si collega l’idea del dolce e del succoso, una sinestesia che è possibile confermare per via sperimentale. Il rosso ciliegia provoca un aumento della produzione salivale con il sapore del dolce. In russo ed arabo rosso è il colore…

Vecchi architetti
T., l’io narrante, vive nella Berlino contemporanea, una metropoli che si spalanca davanti ai nostri occhi per focalizzazioni brevi che illuminano quei luoghi che più la rappresentano : ristoranti, zoo, gallerie d’arte, negozi, case di gente povera o à la page descritte per interni ed esterni, con la perspicacia zelante di chi sa quanto rilevante sia la loro influenza sulla vita degli individui che abitano o attraversano quei luoghi. T. osserva tutto con occhio vigile ed inquieto: forse il residuo di un retaggio paterno. Suo padre, infatti, è stato un architetto che ha goduto, nel passato, di una certa notorietà, in quanto responsabile, insieme ad altri, di quel piano di edificazioni ( brutture su brutture, a detta di T.) che, sempre secondo suo figlio, avevano devastato il paesaggio tedesco nel secondo dopoguerra. Un professionista operoso e fedele a quella logica scabra del funzionalismo, che ripugna profondamente T., sia esteticamente che eticamente. Quando il protagonista viene portato da un capo all’altro di Amburgo da un tassista di origine nigeriana per raggiungere sua madre, T. avrà modo di riflettere sui nodi estetici, prima ancora che esistenziali, che lo allontanavano da quel padre apprezzato magari per la collezione naif di bastoncini colorati, ma oltraggiato come edificatore di sconci estetici sotto forma di palazzo:

Poco dopo l’aeroporto, andando verso il centro della città, ecco mio padre venirmi incontro.[…] È indescrivibile, passando per Elmshorm, che razza di case si vedono, oppure per Pinneberg, per Rendsburg fino alle città più piccole, paesini, brutture su brutture, non c’è niente che torni, le proporzioni, il numero delle finestre, il materiale, i colori, i tetti. Da dove viene fuori tutta questa bruttezza? […] Lo ammetto, bisogna essere in due per devastare interi territori, gli architetti e i padroni di casa. La stupidità, anzi l’autentico odio di sé con cui si è proceduto a sanare, distruggere, ristrutturare, si possono spiegare solo con la ferma intenzione di estinguere la propria storia. Una storia peraltro comprensibile, con la storia che uno si ritrovava. Un nuovo inizio a suon di vetrocemento, bussole in laminato rosa e alluminio anodizzato.[…] mio padre si era posto alti traguardi. Voleva che tutto fosse semplice, sobrio, dopo l’epoca dello sfarzo, delle marce, degli edifici nazisti tutti bardati. Funzionalità, quella era la sua parola d’ordine. Niente fronzoli. )

L’io narrante
T. va per i cinquanta e vive scrivendo recensioni di jazz ( è un monkiano doc, ma adora anche il Keith Jarrett de La scala, Winton Marsalis e la sua rilettura/celebrazione della tradizione nera della musica jazz: the Bird, Dizzy, Lady Day. Poi c’è un disco di Eisler che ritorna spesso in queste pagine dal titolo particolarmente evocativo: 14 modi di descrivere la pioggia). Ma la professione che gli garantisce un’esistenza più che dignitosa è quella di oratore funebre, cioè colui che viene pagato per ‘ricordare’, con un discorso da tenere ad amici e parenti, il caro estinto. T., laureato in filosofia, era arrivato a questo lavoro per pura coincidenza. Il suo primo discorso, in sostituzione della titolare ammalata, fu un successo. Da quel momento T. si guadagna la vita così. T. svolge questo lavoro in maniera molto professionale, scavando, con un perfezionismo che talvolta sconfina nel maniacale e nel voyeursitico, nella vita del deceduto. Prima di scrivere la sua orazione, fa una ricognizione nel cimitero dove l’estinto verrà inumato, vuole conoscere chi gli ha commissionato un tale lavoro, avere notizie sul defunto, vedere dove abitava, sapere quanto più possibile sulla sua vita attraverso ricordi, testimonianze, le fotografie, le manie, le passioni del defunto.

I cari estinti
Qui sotto il catalogo dei ‘fortunati’ destinatari a cui sono dedicate le orazioni funebri di T. Discorsi solenni, ma di una bellezza ruvida ed aspra, in cui, per esplicita volontà dell’oratore, non compare mai la parola ‘speranza’ . Nel corso del libro, anch’esse, ogni tanto risalgono alla superficie delle pagine e ci vengono offerte per stralci, frammenti, citazioni. In realtà, signore e signori che mi state leggendo, il romanzo stesso è, in sostanza, una lunga orazione funebre, l’orazione che T. scrive per se stesso, a futura memoria.
Il catalogo, comunque, è questo:
-una 32enne morta in tre settimane di cancro, scenografa in una casa di produzione cinematografica, appassionata di pittura rupestre, grande amica di Iris, l’amante di T.
-un bravo padre di famiglia probo e rispettato che lavorava al controllo qualità di una ditta elettrica ( in realtà, la moglie alla sua morte scopre che da 3 anni aveva un amante in procinto di accompagnarlo al funerale)
-una pensionata, ex sarta ed ex direttrice di un negozio di moda, che a 60 anni si era messa ad imparare spagnolo e filosofia, insieme al marito. Durante la fase più cruenta e bestiale dell’antisemitismo, in pieno conflitto mondiale, avevano eroicamente salvato un’ebrea, a rischio della propria vita
-una donna suicida sotto la metro ‘perché nessuno più la toccava’,
-una esperta animatrice di villaggio turistico, addict, in ordine progressivo, al lavoro, al sesso, all’alcool, ai barbiturici, suicida sulla spiaggia del villaggio, dopo aver ingerito Roipnol e rum.
-una donna di 84 anni, sposata giovane, 4 figli, casalinga e poi pensionata. A 80 anni, dopo la morte dl marito, spende tutti suoi averi in mobili nuovo all’Ikea;
-il padre di Horch;
-un signore nato a Berlino est, dove esercitava l’apprendistato come giardiniere; transfuga e coltivatore di frutta in un orticello di Berlino ovest, riesce ad aprire un banco di frutta e poi un negozio;
-il signor Ebeling, vero filantropo a casa, spietato torturatore in ufficio. Direttore del personale in una ditta di strumenti elettrici, è sempre stato silenziosamente odiato da sua moglie;
-per i morti senza parenti ( uno all’anno: orazione funebre gratis) come la vecchia di 80 anni, piena d’acciacchi e prossima alla morte, il cui unico affetto era un canarino e che lo ‘suicida’ con una pastiglia di Roipnol per non lasciarlo solo;
-il cane Burschi, un bovaro del bernese, seppellito in un giardino meraviglioso: una bizzarra orazione funebre, ma retribuita assai lautamente

Le categorie dell’orazione funebre
T. conserva tutti i suoi discorsi perché sa che sono potenzialmente riutilizzabili, perché certe esistenze si replicano. Li divide in due categorie fondamentali : a) Umido; b) Asciutto,
( a seconda dell’effetto che si intende ottenere sull’uditorio) e quattro sottocategorie: 1)filosofico, 2)estetico, 3) economico,4) ecologico.

Il Compagno A.
È il suo ex compagno di militanza politica nelle file dei movimenti di estrema sinistra, Peter Luders, anzi Aschenberger ( da qui in avanti A.). Aveva preso il cognome della moglie per dimostrare che quando si vuole cambiare qualcosa, soprattutto si deve cambiare se stessi, persino il proprio nome. A., rigidamente coerente agli ideali della propria giovinezza, non possedeva praticamente nulla: morto per aneurisma, istruttore di visite guidate alternative, anarchico e sovversivo mai riconciliato, bombarolo in fieri. Prima comunista ( la militanza, i volantinaggio, le estenuanti discussioni ideologiche, la vita in una Comune sono tutte tappe che l’io narrante ha condiviso con A.), poi anarchico individualista, giunto alla convinzione che l’unica chance che gli fosse concessa fosse quella del ‘gran botto’: agire contro un simbolo con l’esplosivo. Il simbolo predestinato è la colonna della Vittoria, un feticcio berlinese, in forma di monumento, dell’orgoglio imperialista ed espansionista della Germania, una sorta di colonna traiana teutonica sulla quale sono istoriate le tappe della più tronfia ideologia nazionalista. Nel suo testamento A. scrive a chiare lettere che vuole sia il suo vecchio compagno T. a tenere la sua orazione, nonostante i due si fossero praticamente persi dopo la fine della parentesi di militanza e lotta. T. viene convocato dal figlio di A., nella casa dove suo padre viveva in totale solitudine. Come è suo costume per conoscere meglio la personalità del defunto, si mette a scartabellare fra le sue cose e, fra vecchie fotografie, ne trova una: c’è T. insieme ad A. dietro ad un manifesto sul quale era scritto: fermiamo le bombe in Vietnam. Da lì parte la rievocazione di una stagione passata, di ciò che erano e ciò che erano diventati, una lunga meditazione su come si diventa ciò che si è e su come si è ciò che si diventa.

La casa di A..
È un appartamento misero, modesto, spietatamente perduto zeppo di carta e di libri, quasi tutti classici della tradizione critico-filosofica del marxismo; poi schede, appunti, un manoscritto, una busta con uno scritto intitolato RIVENDICAZIONI, un altro: AUTONOMI; un altro ancora: PARTIGIANI DELLA VITA QUOTIDIANA. Poi una busta, più pesante e diversa dalle altre, con sopra scritto: ATTENZIONE, ESPLOSIVO. È un segnale chiaro, inequivocabile: A. stava preparando un attentato e forse, presagendo la morte, aveva voluto che proprio il suo antico compagno di militanza T. ritrovasse ed utilizzasse quel deflagrante lascito testamentario.

Dove era andato a pescarlo l’esplosivo. Come è possibile incistarsi a tal punto nella propria rabbia. In fondo non si limitava a starsene lì, seppellito in mezzo ai suoi libri ed ai suoi scritti, ma incontrva gente, turisti, li portava in giro per Berlino e poteva esprimere le proprie riserve ed i propri punti di vista. Ma da dove gli veniva tutta quella rabbia, tutto quell’ odio?

L’unico quadro, l’unica immagine presente nella casa di A. è, sulla parete della sua camera da letto, la riproduzione del S. Giorgio ed il drago di Paolo Uccello:

Il cavaliere con l’armatura siede sull’alto cavallo bianco ed infilza la lancia nell’occhio destro del drago, da cui prende a sgorgare sangue, sangue di drago, quasi sembrano lacrime. Stranamente la bestia è legata ad una sottile catena ed il modo in cui divincolandosi vorrebbe volarsene via rende proprio l’idea della tortura. Mentre San Giorgio, immobile, sferra il colpo, del tutto privo di umana compassione.

La casa di T.
Thomas vive in una casa asettica e spoglia, improntata ad una sorta di rigore monastico: due stanze bianche e vuote in una mansarda, nessun libro ( ne compra solo uno alla volta e poi li regala) tranne il Libro dei Libri ( dalla concorrenza c’è solo da imparare), un macchina da scrivere (perché adora sentire nelle orecchie il rumore meccanico, quel sontuoso ticchettio. Mi piace quando scrivo vedere le levette dei caratteri che sbattono), una stilografica ( osservare con esitante pensosità come quel nero intenso, umido e lucente, si trasforma in un opaco grigio-nero), un futon giapponese, un kelim a mo’ di coperta, una poltrona di pelle, un kakejiku, ( qualche tratto nero a china su carta di riso color ocra, una grafia che uno iamatologo mi ha tradotto: le parole riflettono sulle parole), un quadro di Horch, artista di trouvailles, le cui opere raggiungono valutazioni folli ( non è un quadro nel senso tradizionale del termine. Quel che è dato vedere all’interno della cornice[…] sono delle pagine scritte a macchina, in parte ripiegate con cura, in parte appallottolate,[…]; nel mezzo, in quel paesaggio di carta, si trova il cartellino di un lavoratore edile, insozzato da impronte di stivali e già timbrato ), un dente di balena sul quale è scritto Rebekah, 1851.

Iris e la luce
T.l’ha conosciuta, ovviamente, ad un funerale. 30 anni, sposata con Ben, che non riesce né a saziare la sua curiosità intellettuale, né a placare la sua prepotente sensualità. Iris di mestiere è una che ‘vende luce’, che realizza cioè installazioni luminose :

È convinta che l’ambiente a noi più vicino, le stanze, soprattutto la loro illuminazione, condizionino profondamente il nostro subconscio e quindi anche i nostri pensieri e le nostre azioni, sì, anche la nostra fantasia.”

Durante il romanzo, esegue dietro commissione le seguenti installazioni di luce:
-una riproduzione della Via Lattea da proiettare sul soffitto di una camera da letto di ricchi professionisti,
-una mostra ,
-l’allestimento della scenografia dello spettacolo teatrale Tasso,
-la realizzazione di un’onda luminosa che s’infrange, in un ristorante chic.
Lavora anche ad una installazione per il compleanno di T: vuole scrivere con il laser sull’edificio dell’acquario, là dove i due amanti si incontrano nei giorni di pioggia, THOM.

Una donna che vendeva luce e che si chiamava Iris, l’arcobaleno, la messaggera degli dei. Il secondo vero Prometeo, disse lei, era semplicemente un uomo che si dilettava con il bricolage, uno svizzero, Ami Argand, che nel 1780 montò su un sostegno di rame una piccola vaschetta di rame, piena di petrolio, con un cilindro di vetro. In quel sostegno piazzò uno stoppino.. In tal modo era possibile regolare l’apporto dell’ossigeno. E così nacque la prima luce artificiale. Impensabile per noi oggi, disse, capire cosa significasse. Attraverso questa lampada a petrolio era possibile regolare la luminosità e, soprattutto, da allora in poi fu possibile leggere, far di conto e disegnare con tranquillità. Bisogna provare ad immaginarselo: fino ad allora c’era solo una luce che si agitava nell’oscurità, le fiamme del fuoco, dei ciocchi, della candela erano costantemente mosse dal vento, dalla corrente, un placido crepitio e un sussulto. Le ombre sulle pareti erano spiriti assolutamente reali.

Il coro (?)
La lucida analiticità con la quale vengono caratterizzate le figure che fungono da coro alla vicenda di T., A. ed Iris è talmente ben strutturata da fa pensare che ognuno di essi sia in sé materia per tanti piccoli microromanzi, coesi ed autonomi. C’è Ben ( marito di Iris. È ispettore di qualità in un colosso automobilistico. Per tutto il romanzo, non si capisce se ha davvero colto la natura della relazione fra sua moglie e T o se preferisce fingere. Con quest’ultimo, si limita ad imbastire acuminate schermaglie dialettiche, assediando la nebbia confusamente idealista delle teorie di T. con l’incisività pragmatica del suo realismo da manager man), Nilgun ( è una cara amica di Iris, di origine turca, fa la dentista, sprizza sensualità ed ideologia; è una che non sopporta le folli ingiustizie del mondo, che sa ancora esplodere come un vulcano ed indignarsi contro una società basata esclusivamente sulla esaltazione della dittologia shopping and fucking), Horch ( contrariamente alle sue abitudini, visto che odia persino vendere i propri quadri, ne regala uno a T., come ringraziamento per la splendida orazione funebre tenuta in occasione della morte di suo padre. Horch, per comporre le sue opere, scova le donne di pulizie di scrittori berlinesi pregandole, dietro compenso, di raccogliere pagine di manoscritti dal cesto della carta straccia. Saranno poi quelle cartacce la materia prima della sua opera), Lena ( è la prima moglie di T.; si sono pacificamente separati, adesso vive con un angolano, privo di permesso di soggiorno, con cui parla solo in inglese. Ha il terrore di invecchiare e per questo si sottopone ad estenuanti lifting, l’ultimo dei quali particolarmente mal riuscito), la madre di T, gli zii paterni, Petra ( un amica di Iris e Nilgun, modella, che si prostituisce occasionalmente da pochi anni solo con 7/8 clienti ultraselezionati della Berlino bene, guadagnando 20mila marchi al mese . Ancora due anni, poi smetterà definitivamente, aprendo un negozio di alta moda),Edmond ( fondatore delle cellule rosse nella facoltà di Romanistica. Grazie anche alle vacanze di lavoro in Francia per la vendemmia, conosce la sua compagna Vera. Insieme diventano amanti ed esperti di vino francese; decidono di importarlo in una terra di bevitori di birra quale la Germania. Fanno successo e denaro: aprono enoteche, commerci all’ingrosso, ma anche terrine e marmellate, miele,. Poi le prime liti, la passione per il vino che si trasforma in dipendenza per entrambi: Vera fugge, dietro consiglio del proprio psicanalista, in una sanatorio specializzato per alcolizzati negli Usa. Edmond è rimasto solo ed in piena depressione: sul letto, nella casa vuota beve Bourgogne succhiandolo da una scodella, raccontando a T. le sue vicende e dando terribili zuccate sul muro).

Di yacht e skins

La barca è piena , tutte stronzate. Noi ce ne stiamo su uno yacht di lusso e beccheggiamo accanto a loro che stanno affogando in mezzo al mare. Letteralmente. Ma chi è che vuole condividere? Vuoi rinunciare alla tua Porsche, oppure a cinque anni di ferie, a cinque viaggi all’estero?[…]
Gli skins, che prendono a botte i senzatetto e gli handicappati, mettono in pratica di propria iniziativa ciò che il sistema non dice apertamente, ma che in base alla propria logica pretende, ossia cancellare tutto ciò che è inutile e non rende (269)

Meteorologia
In questo romanzo tedesco non piove mai o quasi.

Tutto questo spazio lasciato alla natura, la meteorologia, il cui significato aumenta sempre di più, reportage, previsioni, animazioni perfette,ragazzetti dinamici che aggeggiano sulle carte geografiche, spostando nubi, facendo lampeggiare il sole,annunciando tempeste, sono l’espressione ideologica della naturalità delle cose, anche di quelle sociali. Proprio la consapevolezza, la rassegnazione di fronte a ogni problema, carestie, emigranti che muoiono asfissiati, che annegano, presentare tutto questo come qualcosa di naturale, ecco il significato delle previsioni del tempo, espressione dell’ideologia della società di oggi.

Felicità secondo Marcuse

L’idea che la felicità sia una condizione obiettiva che esige non soltanto sentimenti soggettivi è stata efficacemente oscurata; la sua validità dipende dalla reale solidarietà della specie umana, che una società divisa in classi e in nazioni antagonistiche non può sviluppare. Fintantoché la storia dell’umanità rimane questa, lo “stato di natura”, per quanto raffinato esso sia,continuerà a prevalere: un bellum omnium contra omnes incivilito, in cui la felicità degli uni deve coesistere con la sofferenza degli altri.

Lo stile

Uno stile patchwork, dove le tante storie che precipitano in queste pagine sembrano tutte dettate da una necessarietà affabulatoria, cucite ed assemblate con il filo di diverse tecniche narrative, dal monologo interiore al discorso indiretto libero, dal flusso memoriale alla descrizione analitica ed oggettiva, dall’ibridazione continua ed avvincente tra passato e presente.

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4 Commenti

  1. mi toccherà leggere il libro…Amo Berlino, visitata più volte, di brutture architettoniche ne ho viste poche ma risiedevo nei pressi della Unter den Linden.

  2. Riporto qui una citazione del mio pittore preferito…

    ‘il colore è un mezzo di esercitare sull’anima un’influenza diretta.
    Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde.’

    Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte

  3. Una “presentazione” davvero ben fatta, che attira e invoglia a leggere il testo di cui parla: certo che i temi sottostanti sono molteplici, e tutti di spessore, mi sembra.

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