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Appunti giapponesi # 2

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di Sergio La Chiusa

Sul finestrino sinistro del treno si srotola rapidissimo un paesaggio orripilante, smisurati stabilimenti industriali, serbatoi stragonfi, ciminiere fumanti, tralicci d’acciaio, e poi una distesa ininterrotta e disordinata di casermoni di cemento armato bucherellati come moderni termitai, casupole di legno scuro circondate da giardinetti e tutte irte d’antenne, palificazioni che sostengono pesantissimi grovigli di fili della luce e del telefono, groppi di tagliolini elettrici con gli scatoloni dei trasformatori e, come nuovi aggressivi intrusi, grattacieli di vetro supermoderni, marziali, indipendenti feudi del capitale che si lanciano sfide a distanza. Sono le città del litorale pacifico che, sterminate e disorganiche, si succedono senza apparente confine in una striscia di terra iperedificata e iperpopolata oltre la quale non si riesce nemmeno a indovinare la presenza dell’oceano pacifico. Ci si domanda come possa, sull’altro finestrino, elevarsi con tanta celestiale purezza il perfetto cono vulcanico del Fuji.

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L’uomo sembra avercela fatta a ricavarsi un suo spazio vitale, ad arginare e tenere sotto controllo le potenze della natura: si è strappato il suo stretto territorio abitabile tra il pacifico e le catene montuose, vi ha impiantato per tutto il litorale orribili metropoli e complessi industriali, vi ha teso sopra una maglia fittissima di fili elettrici, si è creato e difende tenacemente i suoi piccoli spazi di culto, meditazione, cura della mente e del corpo, angoli di pace dove la natura è stata miniaturizzata, disciplinata, ingentilita, come nei templi zen – bellezze nascoste tra giardini e stagni abitati da carpe – o nei numerosi onsen – sorgenti d’acqua calda dove i lavoratori si rilassano dopo le snervanti giornate trascorse in fabbrica o in ufficio… Tuttavia, nonostante il paziente lavorio d’argini, le moltitudini di lavoratori e lavoratrici che sciamano lungo le arterie delle città operano sempre all’ombra di un possibile cataclisma. Più di quaranta vulcani attivi sono sparsi lungo tutta la tormentata ossatura dell’arcipelago, circa mille terremoti – sebbene il più delle volte di lieve entità – vengono registrati ogni anno dai sismografi, violenti tifoni spazzano le regioni costiere ogni fine estate, la minaccia dello tsunami è così ricorrente nella storia del Giappone da farne uno dei principali simboli per i visitatori stranieri (sul mio biglietto ferroviario è stampata una delle 36 vedute del monte Fuji di Hokusai, quella che rappresenta il vulcano sullo sfondo di una gigantesca onda che artiglia con la sua zampata due misere imbarcazioni di legno).

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Davanti alla città di Kagoshima si staglia il cono vulcanico di Sakurajima. Il suo turbolento cratere getta fumate grigiastre che si sposano con una nuvolaglia bassa e in perenne movimento, dense legioni di nebbie e vapori che solo a tratti si sfaldano lasciando intravedere i bordi sbreccati del cratere. Sakurajima – come ogni villaggio sparpagliato ai piedi di un vulcano – vive con estrema naturalezza la sua precarietà di creatura sull’orlo di un precipizio: si direbbe che ritenga impensabile – o del tutto normale, e quindi non degno di particolare apprensione – che quella spada di Damocle eternamente sospesa possa un giorno spaccare il filo che la sostiene, precipitargli sul capo, frantumare tutte quelle casupole di legno e carta, abbattere i pali della luce, provocare fiammate, incendi, polverizzare in pochi minuti l’intero centro abitato. Eppure, proprio il Sakurajima nel 1914 eruttò così ferocemente che una colata di più di tre miliardi di tonnellate di lava collegò l’isola alla terraferma modificando perfino le carte geografiche. In mezzo a un’ordinata scolaresca, percorro una passerella di legno tra stravaganti rocce laviche, i segni di quella catastrofe che sono ora sculture di naturale bellezza: da un lato una striscia di mare calmo e piatto come una fetta di lamiera pronta ad accecarci al primo guizzo umorale del sole e, a limitare l’orizzonte, la schiera di palazzi e industrie della moderna Kagoshima, tre o quattro ciminiere che cercano debolmente di imitare la potenza latente del vulcano; dall’altro lato un muro di nebbie dietro il quale si può solo ipotizzare la massa solida del Sakurajima.

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Fasciato da un leggero yukata, mi rilasso nell’acqua bollente del Furusato onsen, a cielo aperto. Questo onsen è un luogo sacro: beatamente immerso nell’acqua, un piccolo sacrario shintoista con il tipico tori rosso in miniatura e – come in una nicchia naturale, schierate sotto l’arcata contorta di un albero – piccole statue di Bodhisattva riscaldate dai vapori dell’acqua sorvegliano il contegno dei bagnanti. Qua e là, dietro una nebbiolina che si solleva inesauribilmente dalla superficie dell’acqua, si muovono al rallentatore le sagome degli altri bagnanti, con i yukata semitrasparenti appiccicati ai corpi nudi. Dietro, incerta sullo sfondo, tremolante a causa dei vapori, la baia di Kagoshima si profila con la precarietà dei miraggi. O delle cose provvisorie, destinate a dissolversi.

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Molti giapponesi hanno sviluppato nei confronti degli onsen una particolare forma di dipendenza. In effetti, il bagno nelle sorgenti calde è un’esperienza incredibilmente rilassante, una specie di rituale di svestizione e riappropriazione del corpo. Prima di immergersi nella vasca comune, imprenditori funzionari impiegati commercianti operai si sbarazzano delle rispettive uniformi e, completamente nudi, si lavano e si strofinano con grande cura. E’ questa una pratica che sembra sospendere, sebbene per la sola durata di un bagno, la solida impalcatura gerarchica che sorregge tutta la società giapponese. Nella reciproca nudità, i lavoratori sono infatti riportati a una parità di grado che risulta altrimenti inammissibile. Una volta a mollo, ridotti a semplici sagome nella nebbia, è come se tutti i problemi le ansie le responsabilità i doveri il conto in banca i biglietti da visita svaporassero nell’acqua bollente. Ed è un po’ come raggiungere una domestica buddhità provvisoria.
Anch’io mi sono immerso nell’acqua. Dalla mia postazione, in un angolo del quadrilatero, osservo tra i vapori le schiene nude e bianchicce di tre uomini accovacciati su sgabelli bassissimi: si rovesciano addosso fragorose secchiate d’acqua calda, con strofinacci inzuppati si sfregano con minuzia liturgica tutte le parti del corpo. Poi si alzano e, contegnosi, con una minuscola pezzuola bianca a riparare le parti intime, percorrono in punta di piedi il breve sentiero di ghiaia ghiacciata che porta alla vasca e finalmente s’immergono nell’acqua bollente, si dispongono ai tre angoli liberi, si distendono in una personale esperienza metafisica. Da qui s’indovinano le tre sagome oscillare appena nella nebbiolina che si solleva dall’acqua. Rovescio il capo. In alto, imprigionata in una cornice di cedri, quasi irreale, una porzione di cielo stellato. Chiudo per un attimo gli occhi, un po’ intorpidito dal calore. Ma subito mi scuoto perché ho come la sensazione – simile a un diffuso solletico d’unghie – che qualcuno mi stia osservando voluttuosamente da dietro lenzuoli di vapore. Quando mi rendo conto di aver sbarrato innaturalmente gli occhi, mi sorprendo io stesso a spiare una di quelle tre sagome abbandonate ai tre angoli della vasca.

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Fuori dal tempio di Chion-in, ai piedi della grande scalinata di legno scuro, decine di scarpe attendono il ritorno dei rispettivi proprietari, che ora, inginocchiati sui tatami, stanno pregando o ammirando il sontuoso altare della sala principale, il Buddha Amida laccato in oro che risplende nella semioscurità. In un grande braciere all’aperto, ardono molti bastoncini d’incenso. I visitatori ne accendono di nuovi, o semplicemente sostano davanti al braciere, agitano più volte una mano sui fumi, davanti ai propri volti e a quelli dei propri bambini, che vengono sollevati all’altezza del braciere perché ricevano anch’essi i benefici del fumo sacro. Una signora particolarmente scrupolosa si sta spalmando con cura il fumo del braciere su tutta la superficie dei capelli, affinché non rischi di disperdersi nell’aria, come una lacca speciale che incolli la fortuna alla testa e protegga dalle intemperie dell’anno nuovo.

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Nel tempio di Sanjusangen-do – un lungo padiglione del XIII secolo – sono schierate 1001 statue di Kannon, il bodhisattva misericordioso dalle molte braccia. Le statue di legno laccate in oro baluginano un po’ sinistramente nella semioscurità. Sono identiche. 1001 volti identici. Fissi. Una selva di teste e di braccia. Una corsia percorre il tempio in tutta la sua lunghezza: si sfila davanti a 1001 statue che sembrano replicarsi incessantemente e seguono lungo tutto il percorso l’occhio meravigliato del visitatore. L’effetto allucinatorio è però attenuato dalla folla e dalla presenza incongrua di un banco dietro al quale quattro giovani monaci buddisti, indifferenti alle 1001 manifestazioni di Kannon, sembrano indaffarati in faccende burocratiche. Uno dopo l’altro, i visitatori prelevano una delle tante candele in vendita, si piegano sul banco e con un pennarello gentilmente fornito dai monaci vi scrivono con cura il proprio nome e un desiderio per il nuovo anno. Poi, i monaci ritirano le istanze insieme a monete o fruscianti banconote, sciorinano il solito inchino cerimoniale e, certo più simili ad apprendisti bancari che a mistici, si dividono i compiti: il primo, divise monete e banconote per taglio, le deposita nelle cassette di sicurezza, il secondo compila ingombranti registri, il terzo accende le candele votive al bodhisattva dalle molte braccia. Le candele costano 600 yen. I più economi optano per semplici bastoncini di legno, che il quarto monaco brucerà all’Illuminato per soli 300 yen. Non mi è dato sapere, però, se il risultato è comunque garantito.

*

Il Grande Buddha di Kamakura – maestosa statua di bronzo del XIII secolo – non sembra disturbato dall’incessante brulichio di minuscoli turisti che lì sotto accendono candele e incensi votivi, scattano fotografie, s’immortalano reciprocamente davanti all’Illuminato. Lui – l’Illuminato – indifferente alle provvisorie e deboli illuminazioni dei flash, se ne sta lì da 800 anni con le gambe incrociate, il volto imperturbabile che sembra attraversare indenne il tempo, chiuso in un silenzio inaccessibile. Grazie a una particolare tecnica prospettica, la statua è stata fusa in modo da sembrare inclinata in avanti, verso i visitatori. L’effetto è di grande solennità, ma anche di minaccia: non un bodhisattva misericordioso che illustra la giusta dottrina, ma un gigante in meditazione, totalmente indifferente al destino dei nani festanti che sciamano sul lastricato e s’illudono di sospendere con qualche scatto il vortice delle illusioni. Solo una statua può avere una simile forza di astrazione, passare così, illesa, attraverso il mondo fluttuante delle apparenze e dei rumori (quasi a contestare, con la sua ostinata e solida fissità, l’essenza stessa del buddismo).

*

Difficile difendersi dall’opulenza del mausoleo Tosho-gu di Nikko (XVII secolo): c’è un tale sfarzo da rimanerne abbagliati. Non sembra un luogo deputato per la meditazione e la preghiera, come certi miti ed essenziali tempietti zen che custodiscono le loro astratte bellezze gelosamente, come segreti per iniziati. Qui si è intimiditi da una magnificenza ostentata, così tracotante da sembrare il segno di un principio di disfacimento. Come nel nostro barocco, ogni edificio dell’intero complesso è animato da una specie di horror vacui: non ci sono spazi vuoti, l’occhio non può riposare, tutto è pieno e debordante, e tutto è colorato e dorato e intarsiato e scolpito con figure dall’aspetto solenne o guerresco o carnevalesco, draghi, serpi, leoni, uccelli, animali fantastici, divinità inferocite dai tratti teatralmente deformati, samurai solenni, saggi cinesi, in gruppo o a cavalcioni su draghi alati, piante, fiori germoglianti in un’orgia sfrenata di decorazioni. I colori dominanti sono il rosso e l’oro, come a significare un intimo legame tra sangue e ricchezza. Nonostante molti sacerdoti shintoisti si aggirino con passo topesco tra colonnati rossi, Tosho-gu non sembra un centro di culto, ma una residenza regale, la realizzazione superba di una dinastia di shogun che ha voluto capricciosamente ostentare tutta la propria potenza (un po’ come il principe Ludwig e i suoi anacronistici castelli bavaresi). Tutto qui è sfarzoso, anche la foresta di colossali cipressi che custodisce il mausoleo come un diamante raro. Intruse nella generale opulenza – simili a quei personaggi secondari e meschini che s’incidono nella memoria per la loro estraneità e cialtronesca interdipendenza, come indissolubilmente legati l’uno all’altro – le tre buffe scimmie scolpite nel legno della stalla sacra intimano ai visitatori di non sentire, non dire, non vedere. Segno di un’epoca cupa. Di burocrati e sudditi che coltivano nell’ombra i propri angusti interessi e, per un quieto vivere, fingono di non vedere il sangue su cui prosperano antiche e nuove oligarchie.

(Fine. Da: “Poesia da fare”, n.6, dicembre 2005. Immagine da: Sogni, di Akira Kurosawa – 1990)

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12 Commenti

  1. Bello. Licet l’ironia e l’occhio rovesciato nel guardare le cose. Si spera.

    {scatenerannosi adepti di qualsivolgia genere a difendere dogmi?}

  2. Ho fatto bene a cedere alla tentazione di leggere gli appunti di Sergio La Chiusa stamattina. Del #1 vorrei ri-sottolineare tutto il pezzo che inizia da “Si cercano sempre nuovi espedienti per seppellire la vita” e finisce con “sepolte lì sotto la devastazione delle sfere d’acciaio.” Mi restano tante piccole cose, come il camminare altalenante delle ragazze, il silenzio in metropolitana.

    #2 : l’umanità che tende sulla natura “una maglia fittissima di fili elettrici”
    e anche :
    “Solo una statua può avere una simile forza di astrazione, passare così, illesa, attraverso il mondo fluttuante delle apparenze e dei rumori (quasi a contestare, con la sua ostinata e solida fissità, l’essenza stessa del buddismo).”
    E le impressionanti 1001 statue identiche (ho appena finito di leggere “L’uomo duplicato” di Saramago…) perché proprio 1001 ??? E’ divisibile per 11 ed è palindromo, però, bho…

    Ho sentito l’alterità del Giappone per la prima volta attraverso il teatro Kabuki, anni fa, e tutto quello che comporta in fatto di tempi – altri – e di disciplina – altra – (l’attore, mi sembra, deve imparare addirittura a dilatare la propria pupilla…).

    Poi c’è stato Kurosawa e il mio totale amore per il poco che ho visto. Basti dire che “Il giardino dei ciliegi” in “Sogni” e per me un rimedio estremo in situazioni estreme, insomma una necessità e se non lo vedo sto male (e va be’… è così). L’anno scorso ho letto la sua autobiografia “L’ultimo samurai” ed è un libro meraviglioso, lo straconsiglio a tutti.

    Non sono mai stata in Giappone e tutto mi giunge quindi attraverso la lettura: una mia amica mi prestò “Stupori e tremori” della Nothomb [sguardo agghiacciante sulla vita degli impiegati, sul senso della gerarchia, ma non solo: il rapporto con la calcolatrice dell’albergatore di La Chiusa #1 mi ha fatto immediatamente venire in mente l’ossessione per la calcolatrice narrata lì, qualcuno l’ha letto?? Impressionante: passa tutta la notte cercando di svolgere calcoli infernali e poi al mattino la solita umiliazione. Anche la descrizione sulla condizione della ragazze in Giappone è istruttiva…]
    La stessa amica mi ha prestato “Il corpo sa tutto” della Banana Yoshimoto (non avevo mai letto nulla di suo) e sono una serie di racconti sul Giappone molto interessanti, come ad esempio il rapporto molto forte con la natura (penso al racconto in cui la nonna morente raccomanda di trapiantare una pianta di Aloe alla nipote) e l’alterità rispetto a noi dei rapporti familiari ecc. ecc.
    In biblioteca ho trovato “Io sono un gatto” scritto da Natsume Soseki all’inizio del Novecento ed è oltre che spassosissimo anche un gran bel libro sulla vita degli intellettuali giapponesi; ricordo verso la fine tutto un discorso sulle vicinanze e le lontananze fra Oriente e Occidente e come per loro l’individualismo sia per tradizione uno dei peggiori difetti… Bellissima anche la descrizione di quando il padrone del gatto va in un bagno pubblico!!

    Le ultime due letture sono state “Norwegian wood. Tokyo Blues” di Muratami Haruki e “Il paese delle nevi” di Yosunami Kawabata. Molto da dire anche lì e sull’atto del suicidio, così presente in questa cultura.

    Sono stata troppo lunga… chissà se mi leggerete…

    fem

  3. LAPSUS: non è “il giardino dei ciliegi” ma è IL PESCHETO in Sogni…

    evidentemente pensavo alla festa nazionale della fioritura del ciliegio… (quest’anno il metereologo ufficiale si è dovuto scusare pubblicamente in TV perchè a causa del clima impazzito ha sbagliato la previsione del giorno di fioritura….)

    fem

  4. “Se sono stata troppo lunga…”

    ma figurati… ;))) già che c’eri potevi anche “cedere alla tentazione” trascrivere il menù per esteso dell’ultimo ristorante giap in cui hai cenato.

    Cederei alla tentazione di consigliarti due libriccini, ini, ini di

    Inoue Yasushi

    Amore

    e

    Il fucile da caccia

    ed Adelphi

    perle di ehm… concisione e delicatezza e graffi.

  5. Finalmente il La Chiusa esce allo scoperto, era già stato pubblicato qui su NI parte di diario di un viaggio, qualche anno fa, e ora conferma con questi Appunti giapponesi che la forma letteraria del diario di viaggio gli è particolarmente congeniale…

    ma non dimentichiamo le sue poesie, su poesiadafare e sul libretto I sepolti di cui aveva postato something Andrea Inglese qui su NI…

    e speriamo di leggerlo presto anche in forme narrative più impegnative perchè, non so se ho reso l’idea, il ragazzo ha del talento, ma è molto schivo e pieno di pudore nel mostrarlo, e questo, se da una parte è un bene perchè così sappiamo che se scrive qualcosa ne risulterà qualcosa di certo valore, dall’altra è un male per noi fruitori, perchè pare – ogni tanto – che dobbiamo estorcergli le parole da bocca… lo so per esperienza, conoscendolo…

    ora ci è riuscito il grande Franz, convincendolo a pubblicare questi Appunti, e spero ci riusciranno a tanti altri, cercando di coinvolgerlo in iniziative internettiche di spessore…

    caro Sergio, spero di non aspettare altri anni per rileggerti su NI!

    ps: no, non sono il suo manager, questo è davvero ciò che penso e Sergio e chi mi conosce lo sa.

  6. [Charlotte, ma insomma, proprio non la si tiene… su…. su… prenda la racchetta e il volano che andiamo a giocare a Badminton nel prato prima che piova… così si distrae un po!]

  7. in effetti, a me non mi tiene nessuno!;-)

    volevo solo dire a Sergio che quando si lascia andare, nel senso che non si limita a descrivere solo l’ambiente ma espone le SUE sensazioni, allora il coinvolgimento nella sua lettura diviene altamente gradevole!

    c’è sempre qualcuno che osserva voluttuosamente….

    ciao
    Chapò

  8. Caro Madame Verdurin

    non ho jamais mangiato in un ristorante giapponeis, ma se mi capitera’ ordinero’ di sicuro la madeleine de tu’ nonna.

    fem

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