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Il festival di una cosa chiamata letteratura

di Christian Raimo

E così in Italia, mentre città come Roma, Firenze, Bologna – sotto la spinta “democratica” dei loro sindaci – si vorrebbero ritrasformare, ogni giorno di più, in piccoli borghi della provincia più profonda, governate da spinte localiste e logiche condominiali, nella provincialissima Mantova per fortuna questo Festival della Letteratura riesce ancora a far respirare un’aria d’internazionalità. A partire da David Grossman, da Orham Pamuk, da Wole Soyinka, che in conferenza stampa parla di uno dei buchi neri delle guerre del mondo, quella del Delta del Niger (praticamente ignorata dalla politica e dai giornali italiani forse perché lì i cattivi non sono solo Bush e le sue multinazionali, ma anche le nostre Eni e Agip?) per finire con i vari elemosinanti rumeni, senegalesi, sudamericani ma anche italiani, richiamati qui dalla possibilità di fare qualche soldo in più in questa cinque giorni di assembramento cittadino. Come mai a Mantova nessun sindaco li scaccia?
A essere alle volte repellenti sono invece i giornalisti culturali (mi permetto di essere razzista perché mi includo nella specie). Alle volte puzzano proprio, ed è difficile dirglielo: sarà il chiuso delle stanze d’albergo? Alle volte, molto più spesso, sono semplicemente ignoranti, non professionali, ciabattano qua e là, sono degli scrocconi patentati in cerca di uno scontrino da farsi rimborsare al rientro in redazione – come nel meraviglioso romanzo di Colson Whitehead John Henry Festival – e nelle interviste collettive trattano gli scrittori come scimmie: la domanda più intelligente è spesso “Ehm [pronuncia sbagliata del nome] come è venuto fuori questo libro?”
Ci sono ovviamente le eccezioni, ma se si confronta la categoria con quella degli uffici stampa, sembra che sia una debacle su tutta la linea. Gli uffici stampa – questo assurdo mestiere tipico della contemporaneità (una persona che per impegno deve in continuazione parlare bene di tutto ciò che fa quello per cui lavora) – qui a Mantova sono efficientissimi, faticano dalle otto di mattina a mezzanotte, coccolano gli autori, sono informatissimi, parlano dignitosamente le lingue. Come mai accade questo? Perché l’ufficio stampa è un mestiere pagato decentemente mentre i giornalisti culturali molto spesso sono dei precari che si accontentano dello specchietto di un accredito? Forse perché non si richiede a un giornalista culturale una preparazione professionale? Del resto, uno si domanda, quali competenze deve possedere un giornalista che si occupi di letteratura? Quale formazione deve aver avuto? Quale trafila deve compiere? (Me lo chiedevo anche l’altro giorno a Roma, incontrando per caso dietro il bancone di un bar una ragazza che avevo visto discutere la tesi di dottorato a giugno alla facoltà di Lettere e Filosofia: “Che ci fai qui?”, “Eh… che ci faccio, sono disperata… oggi pomeriggio appena stacco vado a portare il curriculum alle agenzie interinali”).
Ecco, in effetti, che fine fa quella marea di laureati, di dottorati e post-dottorati in discipline umanistiche, quell’esercito di persone che hanno incamerato un bagaglio di analisi di occorrenze lessicali e analisi strutturaliste dei testi letterari? A Mantova non ce n’è uno. Non si sente mai, diciamo quasi mai, fare una domanda sulla lingua, sulla struttura del romanzo, sulle questioni che pone la scelta di questa o quella forma letteraria. Ma okay, facciamo un’eccezione anche qui. Alle 11 e mezza a Palazzo della Ragione, c’è Giuseppe Antonelli, autore del preziosissimo L’italiano nella società della comunicazione (Il Mulino, 2007) che chiacchiera con Tullio Avoledo ed Ermanno Cavazzoni, chiamati a fare rispettivamente l’integrato e l’apocalittico rispetto a un tema non banale: che fine ha fatto la lingua letteraria nei libri degli scrittori italiani? E – fra tanto parlare di libri appunto – spunta fuori una domanda ancor meno banale: ma parlare di libri è parlare di letteratura? Sì, che fine ha fatto l’idea che uno scrive un romanzo e questo gesto non importa soltanto ai femminili ma anche a chi si occupa della letteratura, di storia della letteratura, di teoria della letteratura? Esiste ancora una netta differenza tra lingua narrativa, lingua della pagina scritta e lingua comune? Ha ancora un significato, per dire, l’espressione “Parli come un libro stampato”? Per spiegarsi: se il caso Moccia rappresenta il limite estremo di un’evoluzione culturale (un libro che imita la lingua dei ragazzini e i ragazzini che ricalcano la lingua, e i gesti, del libro), c’è un pericoloso processo in corso che tende verso quell’estremo? E, dall’altra parte, è invece un valore la glottodiversità difesa da così pochi autori in Italia, o si tratta un culto della reliquia, di una forma di erudizione? Ermanno Cavazzoni fa spallucce e prova a esaltare in fondo la capacità residuale, carbonara, di “fantasticazione”: a ognuno nella vita capita di avere un afflato, una tensione immaginativa, anche alla persona più arida, efficientista, prosaica capiterà di ritrovarsi poeta per una sera. Tullio Avoledo difende invece – contro la noia dei petrarchismi d’accademia a suo dire ancora imperanti in Italia – la sua scrittura istologicamente “cinematografica”: ai lettori interessa la trama, i personaggi, divertirsi, non sentirsi parte di un’élite pseudocolta. E alla fine Giuseppe Antonelli cita dal libro di Albero Garlini, Tutto il mondo ha voglia di ballare, la scoperta dell’unica cosa proibita ai concorrenti del Grande Fratello: nella Casa non si può leggere un libro. Cosa strana, eh? Forse perché leggere è il gesto anticonsumistico per antonomasia? Con quindici euro, poniamo, ci si trova impegnati per lo stesso tempo in cui uno, spendendo come dio-consumo comanda, potrebbe andare cinque volte a cena fuori, dieci volte in un locale, o affittarsi quindici dvd? Questa di leggersi da soli un libro non pare a dirla tutta un’attività con molto futuro.

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15 Commenti

  1. Stento molto a credere che Cavazzoni abbia difeso un’idea di «fantasticazione» per cui «anche alla persona più arida, efficientista, prosaica capiterà di ritrovarsi poeta per una sera».
    Non avrà voluto piuttosto riferirsi a un’idea di fantasia come questa?

  2. Inventiamoci il festival di Senigallia

    Senigallia è una città piena di poeti, per rendersene conto basta andare sul sito “Poesie senigalliesi”, li ce n’è sicuramente solo una piccolissima parte, poi c’è il “ Premio Senigallia di Poesia “Spiaggia di velluto” e il “Concorso di Poesie “Cesare Vedovelli”, eccetera. Una città della poesia dunque, ma in quanti, tutte queste poesia, oltre a scriverle le leggono?
    da Leonardo Barucca
    http://www.poesie.senigallia.biz/?cat=57

    Giovedì pomeriggio sono andato anche io ad ascoltare la conferenza di Roberto Galaverni, affermato critico letterario, che presentava il suo ultimo lavoro “Il poeta è un cavaliere Jedi””, conferenza inserita nella rassegna Autor&Voli, davvero ben fatta e interessantissima, complimenti all’assessorato alla cultura e ad Alfio Albani ideatore e curatore degli incontri. Il prossimo appuntamento è per il 16 febbraio, nientepopodimeno che, con Gianni D’Elia, ma poi due settimane fa c’era stato Umberto Piersanti, certo non l’ultimo arrivato tra i poeti italiani, giovedì c’era anche lui tra il pubblico e ha dibattuto e interagito con Galaverni. C’erano purtroppo pochissimi senigalliesi, che peccato ragazzi.
    Adesso io non è che posso raccontarvi tutto quello che Galaverni ha detto, se vi interessava così tanto potevate venire ad ascoltare con le vostre orecchie, oppure vi comprate il suo libro e poi lo leggete, che i libri ben sistemati nelle librerie dei salotti fanno molto chic, ma se li acciaccate e li sgualcite un po’ per leggerli è meglio.

    Comunque, tra i tanti argomenti toccati da Galaverni c’è stato quello del “pubblico della poesia”, di questo vorrei parlare, il pubblico della poesia pare sia davvero poco, pochissimo. Di chi è la colpa? In primo luogo degli italiani che non leggono quasi niente, tranne la Gazzetta dello Sport s’intende, e questo si sapeva, poi delle case editrici, sopratutto quelle grandi, che potrebbero permettersi di rischiare sui poeti giovani ma non lo fanno, ancora delle case editrici, quelle che fanno i libri di testo per le scuole e che affogano la Poesia in un mare di critica e storiografia e note esplicative inutili che sono puro inno al narcisismo auto celebrativo degli stessi curatori delle antologie scolastiche, così almeno ci ha spiegato benissimo e appassionatamente Camillo Nardini; naturalmente anche la scuola ha le sue colpe e poi tanta colpa è anche dei mass media, tv radio giornali, che la poesia la ignorano bellamente. D’accordo, difficile contestare queste affermazioni tutte purtroppo fin troppo vere ed evidenti. Ma i poeti? I poeti proprio non hanno nessuna colpa? Io credo che ne abbiamo eccome, posso permettermi di dire questa cosa perché, modestamente, non faccio per vantarmi, ma sono poeta anche io http://www.poesie.senigallia.biz/?cat=57 , un poeta da ridere s’intende, un dilettante, nel senso che si diletta, cioè che si diverte, ma anche e sopratutto nel senso che non è del mestiere, tuttavia, siccome le poesie le ho scritte, allora, bene o male, poeta sono, e questo, badate, lo ha detto anche Galaverni, “poeta è chi scrive le poesie”. D’accordo Galaverni ha detto anche che molti poeti di poco conto, e in special modo i dilettanti come me, scrivono in “poetese”, termine coniato da Sanguineti per definire quella lingua vagamente poetica, banale e mai originale, orecchiata da quelle 40-50 poesie che abbiamo letto o ascoltato, noi poetuncoli da strapazzo, nella nostra vita. Però.

    E si questo “però”, che è forse più un “perché?” di un “però”, mi viene spesso in mente quando penso alla poesia: però i poeti, i rappresentanti forse più narcisisti degli umani, non si sforzano per niente per farsi amare dal pubblico, non i poeti, quelli veri e affermati, ma nemmeno gli altri, quelli infimi e minuscoli, che se non altro per imitazione dei grandi, come questi si nascondono, si negano, si eclissano, si parlano tra loro, scrivono per piacere ai critici e ai loro colleghi cattedratici, oltre che, evidentemente, per le belle studentesse gnocche che sulle loro poesie faranno la tesi di laurea. Quanti poeti ci sono che non abbiano qualche cattedra, magari strana, in qualche università o un qualche incarico in qualche casa editrice o redazione di giornale? Certo ragazzi, con la poesia non si campa, si sa, ma allora perché (eccolo qua, cominciano i perché), perché per campare qualcuno non fa il tranviere, l’infermiere, il geometra, l’albergatore? E poi, scusate, perché a fare i poeti non ci si campa? E neanche quelli bravi o bravissimi? I calciatori invece, anche quelli così così di serie C, ci campano, quelli di serie A sono addirittura delle stars stramiliardarie. Cosa hanno di meglio i calciatori rispetto ai poeti? Ma parliamo dei cantanti, dei cantautori, dei “parolieri”. Caspita! I parolieri appunto. Non fanno quasi l’identico mestiere dei poeti? Allora perché Mogol ha fatto un sacco di soldi e Mario Luzi no? Non sarà che i poeti sono un po’ troppo “snob”, o forse troppo imbranati? Se escono dal loro circoletto erudito sono persi. Insomma un giovane e talentuoso poeta che riempia le cronache rosa e mondane con le sue storie scandalose con qualche velina o soubrettina sarebbe un gran bel colpo per la Poesia, anzi dico di più, ragazzi se non si fa avanti proprio nessuno mi sacrifico io, non sarò talentuoso e manco giovane ormai, ma per il bene della poesia questo ed altro.

    Allora, siccome io per campare di mestiere faccio l’albergatore e pur essendo poeta ho dovuto frequentare i corsi della camera di commercio per l’iscrizione al REC qualcosa ho pur imparato, per esempio il significato della parolina “sinergia”. Dunque il concetto semplice semplice è questo: a fare il poeta, anche se per miracolo diventassi bravo, non sarò mai ricco e famoso, ma nemmeno facendo l’albergatore diventerò mai ricco, perché non sono tanto bravo e mai lo sarò, ecco “Plin” la sinergia: inventiamo il Festival di Senigallia, lo copiamo pari pari da quello di Sanremo, con tutto il gossip, le gnocche, i giornalisti, le giurie, le polemiche, gli esclusi e gli inclusi, i pippibaudi e mikebongiorni, le giurie popolari e il voto da casa via sms ecc ecc solo che… he he he, solo che invece delle canzoni ci mettiamo le poesie. Non è una bella idea? Così gli alberghi di Senigallia si riempiono e gli albergatori diventano ricchi, i poeti diventano famosi e ricchi pure loro e in più imparano a scrivere anche per la famosa “casalinga di Voghera”, e poi ci guadagna anche la Poesia, le veline e le letterine potranno scegliere di flirtare anche coi poeti oltre che coi calciatori, magari c’è caso che qualcuna impari pure a parlare e, dulcis in fundo, io potrò decidere definitivamente cosa farò da grande potendo finalmente scegliere tra due valide e allettanti alternative.

    da Vivere Senigallia del 12 febbraio 2007
    http://80.241.172.8/modules.php?name=News&file=article&sid=15500

  3. “Che fine fa quella marea di laureati, di dottorati e post-dottorati in discipline umanistiche, quell’esercito di persone che hanno incamerato un bagaglio di analisi di occorrenze lessicali e analisi strutturaliste dei testi letterari? A Mantova non ce n’è uno”. Ringraziamo a ‘ccristo.

  4. Forse dovremmo domandarci come mai una ‘marea’ di giovani insiste nel cercare una laurea in discipline umanistiche per poi ritrovarsi dietro al bancone di un bar.

    Blackjack.

  5. O.C. la risposta che mi viene, alla tua ‘provocatoria’ domanda, è molto meno romantica. Meglio lasciar perdere, Comunque vuoi mettere una barista laureata in lettere? Il cappuccino farà schifo, ma può consigliarti ottime letture.

    Che strano Paese l’Italia.

  6. meglio il bancone di un bar che dietro una scrivania. Credo. Da laureando in materie umanistiche: tutta colpa di Calvino a otto anni, Marcovaldo.

  7. Ma da buon laureando neanche le virgole m’hanno imparato: di Calvino, a otto anni, libro galeotto: Marcovaldo. Sbaliando s’impara e si spara. Scusate lo strobbo.

  8. Perdonami Christian, ma questo tuo articolo m’è parso un po’ stralunato. Per metterla sul poetico, e provare a vederci qualcosa di buono (per forza, ma proprio per forza) definiamolo ellittico. Ecco. Anche se nuclei focali ce n’è almeno tre, e allora l’ellisse è forma che non funziona. Vorrei dire che la cosa migliore sarebbe che gli scrittori provassero a non cedere alle lusinghe della borghesia che vuole viziarli (e si sa, la carne è debole!) con furor di pubblico, readings affollati, uffici stampa super aggressivi e rampanti per poi ritrovarsi magari a dover subire interviste ridicole da giornalisti culturali con alitosi. Cioè noi dovremmo smontare un po’ tutta ‘sta macchina del successo che sembra essere diventata la sorte obbligata di ogni nuovo libro e ogni nuovo scrittore che emergono. Certo incontrare alcuni maestri è una gran fortuna, ma è la cornice che inficia la preziosità dell’incontro. Prevale sempre quel che di mondano che, tanto per dire, sommerge completamente il discorso sulla letteratura, e sulle poetiche. Ed è curioso, non trovi Christian?, che questo scivolamento sotto il tavolo del fatto centrale, l’esistenza di un libro, di una storia, di una immaginazione della realtà, sia accettato a favore di qualcosa di snob, di accessorio, di superfluo. Come se le qualità secondarie soppiantassero le qualità primarie anche per Aristotele! (Questa magari è un po’ fortina, come immagine!). Non so. Mi buggera al momento un certo scontento. Una certa delusione. Di fondo.

  9. Caro Black,

    chi finisce dietro il bancone e chi ci resta appeso davanti, a fare la fine dello sbevazzone. Quasi quasi riprendo a bermi il Jack, confezione da 40 euri. Con sigaro e buoni sapori di una volta. Comunque una soluzione c’è: numero chiuso a lettere e filosofia. Meno umanisti, più baristi.

    Saluti

  10. Questa di leggersi da soli un libro non pare a dirla tutta un’attività con molto futuro.

    Ma perché?

    Ma perché?

    ditemi…

    Ma perché?

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