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Juke-Box a foglia morta / Un’estate fa

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di Franco Califano

Un’estate fa,
la storia di noi due,
era un po’ come una favola.
Ma l’estate va
e porta via con sé
anche il meglio delle favole, favole.
L’autostrada è là, ma ci dividerà.
La mia strada della vacanza,
segnerà la tua lontananza.
Un’estate fa non c’eri che tu…
Ma l’estate somiglia a un gioco,
è stupenda ma dura poco… poco… poco… poco…
Torno a casa mia
e torni pure tu:
sono cose che succedono.
Un’estate fa
che mi regalerà
un autunno malinconico, senza te.
L’autostrada è là, ma ci dividerà.
La mia strada della vacanza,
segnerà la tua lontananza.
Un’estate fa non c’eri che tu…
Ma l’estate somiglia a un gioco,
è stupenda ma dura poco… poco… poco… poco…
E finisce qui la storia di noi due:
due ragazzi che perdono…
Un’estate fa
la storia di noi due
era un po’ come una favola.

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24 Commenti

  1. canzone di una bellezza triste,
    l’autostrada davanti
    spiana ogni ricordo
    e gli alberi piangono le loro foglie.

  2. questa canzone nella versione di mina è splendida, la conosco da tempo, ma non sapevo che fosse der califfo.
    ca**o, franz, ce semo visti e parlati un giorno intero, perchè nun m’hai detto gniente?

  3. Grazie. Sto tendando (rigorosamente con la D) di portare nel mondo della cultura il messaggio di fratellanza di Califano. E’ ora che la canzone nazionalpopolare esca dagli asfittici recinti delle televisioni nazionali, private e pubbliche, per andare liberamente nei blog letterari come Nazione Indiana. E’ giusto che anche i cosiddetti intellettuali possano godere di certi svaghi, dal momento che quasi tutti loro, da informazioni assunte, hanno gettato nella spazzatura il loro apparecchio radiotelevisivo, evitando anche, così, di pagare l’odiosissimo canone RAI. E allora ecco l’impegno formativo mio, di Francesco Forlani, di Gianni Biondillo, di Marco Rovelli: i moschettieri della TV Degli Intellettuali, il “Non è mai troppo tardi” per menti elevate, i Maestri Manzi per intelligentoni.

  4. carissimo Franz

    intervengo a proposito della rubrichetta juke box che con te e Blondil et Rovelli portiamo avanti da un bel po’. Juke box era una rubrica che avevamo nella rivista che facevo a Parigi , Paso Doble (do you remember Andrei?) che aveva inventato un pittore, robert achoury , dove interpretava un fatto di politica o di cronaca con un’immagine ad essa ispirata e il titolo di una canzone. Per gli attentati delle metropolitane da parte degli integralisti islamici, c’erano dei personaggi intorno a delle bombole del gas, e il titolo era. Paint it black (Jagger /Richard) Juke box cone ben dici, O Franz, è un dialogo con la canzonetta. Si può partire dalle traduzioni ( Fossati vs Vian), De andrè Brassens ecc, fino a dei motivi o delle situazioni che certe canzonette evocano creando un vero e proprio corto circuito emozionale. Basti pensare a certi film di Antonioni, o di Scola, Nanni Moretti ma soprattutto Pasolini, in cui la canzone popolare emerge portando riflesione (e nei commenti ai juke box accade) meno semplici di quanto la canzone stessa sembrava suggerire. Comunque sull’argomento Deleuze (la ritournelle) ha scritto delle cose molto belle e se vi capita di vedere l’Abecedaire dello stesso noterete come il filosofo avesse scelto come sigla una canzone di Alain Souchon (amour à la machine) che è l’equivalente di un nostro Ivan Graziani. E perchè non parlare dell’antifascismo del trio Lescano?

    un abraz
    effeffe

  5. Beh sì. La speranza è che i lettori gestiscano un “cordone sanitario delle emozioni”. In somma, questi Juke Box, che molti intellettuali non amano, sono stati fatti per i lettori. C’è chi li chiama “riempitivo”, e io rispetto questo pensiero; vedi Furlen, un riempitivo è sempre nobile. Pensa alla farcitura di un arrosto prelibato, per esempio. AQui per esempio abbiamo Franco Califano; tu mi citi Brassens, che io amo. Ma vedi, Brassens in un sito letterario è davvero troppo facile, in certo modo è pedagogico. Califano è la sporco più sporco, è davvero la tv più becera che entra nel sito letterario “che se la tira”. E’ un’operazione alternativa a quella, misera, delle pillole di cultura alta che vanno a essere ingerite nel grande stomaco della tv a orari improbabili. Qui facciamo l’operazione contraria, anche – parlo per me – con intenti sottilmente provocatori, se non lo si è capito. (A volte si è provocatori in maniera così perfetta e leggera che non se ne accorge un cazzo di nessuno).
    Franco Califano, in breve, rappresenta l’immissione in un contesto *serio* di quel feuilleton in pillole che è la canzonetta d’amore. E non solo: è anche dare riconoscimento, in un sito letterario di prestigio, a una sorta di “Verlaine del 2000”, come ha detto recentemente ad entrambi un nostro comune amico.

  6. ti ricordi le mazzate prese per Alan Sorrenti?
    effeffe
    ps
    in occasione del mio Juke Box su Vian/ Fossati, le deserteur, paolo degli Yo Yo Mundi mi confessò che proprio grazie al mio post aveva “appreso” la storia del doppio finale della canzone. Insomma, corti circuiti che valgono, visto che insieme a marco la cantano splendidamente.

  7. La forma artistica denominata “canzone” è spesso proposta, a priori, come espressione di cultura bassa.
    Se, infatti, diciamo “filmetto” o “romanzetto” con chiaro intento dispregiativo, per differenziare un brutto film o un brutto romanzo da quelli che consideriamo film o romanzi degni di essere chiamati così, nel caso della canzone il diminutivo-dispregiativo “canzonetta” ha quasi totalmente sostituito la forma canonica: la canzone è sempre canzonetta. Soprattutto se si tratta di canzone d’amore… Perché l’amore è un tema proverbialmente disgustoso per gli intellettuali, che se avesse subito in passato il dileggio che subisce oggi gente come Shakespeare sarebbe stata lapidata dai suoi contemporanei! E così alla canzone-canzonetta viene riconosciuto quasi soltanto un valore trash, nazionalpopolare (termine utilizzato, peraltro, in quest’accezione sinonimica di trash che è tanto diffusa quanto errata, perché il concetto in questione, originariamente, cioè in Gramsci, non significava di certo “monnezza per il popolo bue”).
    Quindi la canzone è canzonetta e la canzonetta è trash. E quindi gli intellettuali la disprezzano, oppure, se sono intellettuali che ogni tanto osano poggiare Borges in cantina, la lodano in quanto catartica, ricreativa, liberatoria cretinata. Un po’ come si fa con i film porno o con il calcio.

    La questione è un po’ più complessa e sarebbe caruccio affrontarla minimamente nella sua complessità. E per il tedio, tuo e non solo tuo, Franz, ho deciso di farlo. :0)

    La canzone, innanzitutto, è letteralmente costituita da due parti, che sono imprescindibili, legate l’una all’altra come gemelle siamesi: musica e parole. La forma canzone è, a tutti gli effetti, una forma artistica. Con una teoria, una storia, spaziale e temporale, e una critica specializzata. Spesso i parolieri di professione sono poeti che, poiché scrivendo poesie non mangerebbero, usano le mani per scrivere canzoni, oggetti artistici notoriamente più amati, dal pubblico, della poesia. Spesso, inoltre, si dimentica che non tutti gli esecutori vocali di canzoni sono i loro autori. Il cantante, appunto, canta: non è sempre detto che abbia anche scritto, né melodia né testo.

    C’è un interessantissimo libro, intitolato “Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato”, che tra i suoi pregi ha quello di spiegare già dal titolo cos’è la canzone: verso cantato (e musicato). Ci sono versi di canzoni che soltanto letti, privati dell’enfatizzazione musicale, farebbero vomitare. Spesso la rimica delle canzoni è loffia, banale, poco curata, su carta non reggerebbe. Ci sono canzoni straniere che tradotte fanno vomitare (tipo “The final countdown” degli Europe, che già nella versione originale era una canzone ridicola e inascoltabile). Ci sono le canzonette, e le canzonacce, che hanno anche una vetrina specializzata che è Sanremo. Ma è anche vero che ci sono versi di meravigliose poesie meravigliosamente messi in musica (basta pensare alle versioni cantate da Ute Lemper delle poesie di Prevèrt). Insomma, per me le buone canzoni sono quelle il cui testo funziona anche senza musica. Quelle che leggeremmo con soddisfazione se fossero soltanto versi su carta.

    Se io leggo questo testo postato da Franz, evitando i refrain dovuti alla forma canzone che sono diversi da quelli concessi alla forma poesia, nella quale, appunto, un ritornello non si ripete settanta volte, se mi ci soffermo non pensando, per un momento, a Franco Califano, non mi sembra affatto una monnezza. E più che decente, ha una sua dignità, funziona, dice, evoca una situazione, e non lo fa in maniera totalmente priva di originalità, anzi.

    Riconosco che le canzoni di Max Pezzali siano pura monnezza (vorrei ricordare quel “verso” sulla “Peugeot in salita che non ce la fa”, o quello, più recente, che dice “cerco delle storie in cui vincono gli umili”). Riconosco che Fabrizio De André scrivesse invece pura poesia. Ma questo testo non è una monnezza, per quanto, Franz, io non credo che il Califfo sia il Verlaine del 2000! Verlaine non avrebbe mai scritto “Semo gente de borgata”… Peraltro si tratta di una “traduzione”, di un adattamento di Franco Califano dell’originale francese “Une belle histoire”, canzone le cui parole vennero scritte da Pierre Delanoë, il famoso paroliere francese, e la cui musica venne scritta da Michel Fugain, che la cantava, anche. Comunque io preferisco la cover dei Delta V.

    (Ohi, Franz, non mi rispondere male, eh! E’ che questo tuo post, e i suoi commenti, mi hanno sottilmente provocato. ;0) Se ci pensi, la maggior parte delle persone che estrae da qualcosa dei versi dai quali si sente rappresentata, nella sua quotidianità, lo fa dalle canzoni, non certo dalle poesie. Io sono profondamente convinta che il ruolo che una volta aveva la poesia oggi lo svolga la canzone, a volte bene, a volte male, e forse purtroppo, perché questo dipende anche dal fatto che la fruizione della canzone è più pratica, veloce, forse anche più pigra, rispetto a quella della poesia, e per questa ragione esiste Radio Dj ma non Radio Poesia e la canzone vende e frutta soldi e la poesia direi proprio di no).

  8. Ci sono momenti in cui i pensieri vorrebbero oltrepassare i confini
    dell’indescrivibile e la mente,naufraga di se stessa,si smarrisce in una miriade di congetture molto vicine alla soglia della follia.
    Ecco, in momenti come questi capita,a volte, finestre aperte, di ascoltare un motivetto orecchiabile oppure no che riconduce alla sicurezza del presente,della realtà che s’intravede oltre la finestra spalancata : la vita o perlomeno ciò che percepiamo tale.
    Per fortuna esiste in ognuno di noi accanto alla serietà con la quale ci catapultiamo nelle nostre passioni, anche un momento ludico.
    Dunque perchè no? anche quella canzonetta che ha segnato parte della nostra giovinezza assieme a quel libro dal quale non ci separeremo mai. Ciò che conta è l’emozione da qualunque parte provenga.
    Essere sempre troppo seri è proprio una tragedia.
    Cari saluti
    jolanda

  9. “Essere sempre troppo seri è proprio una tragedia.”

    Anche dedicarsi a tempo pieno alla scoperta dell’acqua calda.

  10. x berenice:quando si fanno certe affermazioni è cosa buona e giusta documentarle…

    Franz mi associo alla tua gioia. Maledetta gioia.

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