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Sorellastre

di Christian Raimo

La letteratura e la matematica sono due insiemi che oggi sempre più raramente si intersecano, e a dire il vero, se guardiamo all’Italia, è ancora più difficile che anche semplicemente si tocchino o si avvicinino. Gli scrittori, i letterati e gli intellettuali umanisti nel loro complesso hanno in genere una preparazione matematica che non supera quella di un mediocre liceo, non si vergognano di considerarsi degli incolti nelle scienze esatte o manifestano al massimo un interesse da adolescenti, una sorta di fandom reverenziale. E qualcosa di simile accade all’interno dei libri, i personaggi dei matematici vengono in genere ritratti come dei pazzi assolutamente chiusi in se stessi e fuori dal tempo, capaci di pronunciare qualche boutade strampalata, di essere protagonisti di qualche aneddoto paradossale, che li fa sembrare dei geni iper-razionali o iper-irrazionali (tanto che differenza fa?), difficilmente assimilabili alle nostre categorie di comprensione umana. Del resto i romanzi parlano di emozioni e sentimenti, quindi che c’entra la matematica? Qualche scrittore ha anche cercato di far tesoro di questa vulgata, ed ecco che negli ultimi anni – accanto agli unici libri di matematica che si vendono, i sempiterni manuali su “come affrontare la paura della matematica” – sono arrivati in libreria (e in classifica) romanzi come Il teorema del pappagallo, L’ultimo teorema di Fermat, Lo zio Petros e la congettura di Goldbach, o Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte: tutte narrazioni che utilizzano (anche in buona fede) l’aura esotica, di mistero che circonda il mondo dei numeri per costruirci intorno detective story simili a giochi enigmistici.
Un piccolo tentativo in controtendenza è stato provato l’anno scorso da Einaudi che ha fatto curare a Claudio Bartocci l’antologia Racconti matematici. Sono una trentina questi racconti, la maggior parte dei quali opera o di scrittori di fantascienza – Asimov, Lem, Heinlein, Huxley… – o di quella complessa genia di autori che hanno molto sperimentato intorno alle varie forme di letteratura combinatoria (Calvino e Queneau, ma anche “metafisici” come Borges, Cortázar, Buzzati). L’impressione che però se ne ricava, nonostante le splendide intenzioni del curatore, è che la protagonista della maggior parte di questi racconti sia una matematica antica, una specie di reliquia culturale. Forse la matematica contemporanea costituisce un sistema simbolico diventato troppo complesso per riuscire a interessarci oltre il suo aspetto ludico?
Perché, è vero, occorre constatare che questa poca rilevanza culturale della matematica non va addebitata solamente alla pigrizia intellettuale da parte degli scrittori, ma è anche l’esito di una reale separazione avvenuta nel Novecento tra la conoscenza scientifica e il nostro senso comune. Se fino all’inizio del secolo scorso poteva essere relativamente possibile integrare la nostra visione del mondo con le teorie matematiche – a tal punto da far immaginare a David Hilbert il suo famoso progetto fondazionalistico –, da un certo punto in poi la fisica e la matematica sono diventate sempre più distanti dalla nostra ingenua comprensione: la meccanica quantistica, le geometrie non euclidee, il teorema di incompletezza di Gödel sono tra le varie fratture che hanno segnato questo progressivo allontanamento. Una divaricazione che si è ampliata a tal punto che oggi è estremamente arduo trovare una persona di buona cultura in grado di utilizzare i concetti fondamentali chessò della teoria delle stringhe.
Eppure esiste una possibilità di rapporto proficuo, vitale, di interazione non solo applicativa, sperimentale, tra scrittori e matematici. In una lettera del 1940, scritta dal carcere di Bonne-Nouvelle in Rouen dove si trovava per renitenza alla leva, André Weil (uno dei più importanti matematici del ‘900), cercava di spiegare alla sorella Simone (Simone Weil, appunto) quale fosse allora lo stato dell’arte della teoria dei numeri, la branca della matematica che lui stesso aveva contribuito a sviluppare. L’aspetto più interessante di questa lettera è l’importanza che André attribuisce all’analogia come momento centrale nel formulare teorie, nel cercare di far interagire direzioni di ricerca diverse, nell’euristica in generale. Per André Weil la funzione cognitiva, non solamente specialistica e astratta, della matematica si dimostra indiscutibile: non un modo per ritirarsi dal mondo bensì un accesso privilegiato. Ne è testimonianza la sua incredibile autobiografia, Ricordi di un apprendistato, così come la sua Teoria dei numeri. Pubblicati entrambi da Einaudi – nel ’93 l’uno nel ’94 l’altro, entrambi a cura di Claudio Bartocci – rappresentano un sano antidoto al luogo comune del matematico liminale all’autismo, allo stereotipo della “beautiful mind” che più si immerge nei calcoli più impazzisce.
Ma questo discorso non vale solo per un matematico “mondano” come Weil, e può essere estensibile invece a figure controverse e originali come Georg Cantor o Alan Turing. Al primo – padre della teoria degli insiemi, morto in ospedale psichiatrico – ha dedicato un’appassionata e centrifuga biografia David Foster Wallace, Tutto e di più. Storia compatta dell’infinito. Del secondo – padre dell’informatica, suicidatosi addentando una mela iniettata di cianuro – è appena uscita una biografia scritta da David Leavitt, intitolata L’uomo che sapeva troppo. La casa editrice Codice ha meritoriamente tradotto questi due libri, importando in Italia il progetto editoriale della Atlas Books, ossia l’idea di affidare a scrittori di talento la ricostruzione storica di alcune grandi scoperte dell’umanità (la serie si chiama “Great Discoveries” e comprende una ventina di titoli tra cui Encentering the earth di William Vollmann e Incompleteness. Proof and Paradox of Kurt Gödel di Rebecca Goldstein). Ma differenza sostanziale è la prospettiva con cui sia Wallace che Leavitt raccontano le vite di Cantor e Turing, indagando la dimensione della matematica pura senza lasciarsi imprigionare dalla retorica del genio. Per Cantor, scrive esplicitamente Wallace, la ricerca scientifica non era una forma di psicosi mascherata, ma l’esatto contrario: il luogo della sua crescita come individuo, la sua scelta filosofica ed etica insieme. Allo stesso modo il Turing di Leavitt è un pensatore addirittura politico, che utilizza la matematica come arma di liberazione (sarà lui che decritterà il famoso codice segreto Enigma usato dai nazisti nella seconda guerra mondiale) e che da omosessuale vivrà sulla sua pelle le terribili leggi discriminatorie dell’Inghilterra degli anni ’50, la società oppressiva che lo vesserà fino a spingerlo al suicidio (in una vicenda che per toni ricorda quella di Ettore Majorana, così come ce la raccontò Sciascia).
Dunque: il rapporto tra a) quell’idea del mondo che ricaviamo dalla ricerca matematica, e b) ciò che noi possiamo fare nelle nostre limitate vite: eccola, è questa l’intersezione di insiemi dove si trovano gli esempi più significativi degli incroci tra queste due attività. La letteratura e la matematica, del tutto gratuite e onnicomprensive, così semplicemente umane. Quando uno scrittore riesce a rendere espressivo, anche dal punto di vista emotivo, l’universo asettico della matematica, a utilizzare il suo portato simbolico, a condividere quel desiderio di curiosità per le leggi invisibili della natura e per i limiti della nostra capacità di ragionamento, potrà farne uscire piccoli capolavori come “Geometria solida” di Ian McEwan (in Primi amori, ultimi riti) o romanzi come Un segno invisibile e mio di Aimee Bender, Il peso dei numeri di Simon Ings, La ragazza che non era lei di Tommaso Pincio. Noi, da lettori, potremmo respirare insieme ai protagonisti il disagio per la condizione storica che viviamo: la mancanza di certezze, la paranoia, la difficoltà di costruire un destino che non sembri sono una catena causale di eventi, il nostro disperato bisogno di trovare relazioni tra le cose. Questo disagio è lo stesso su cui la matematica stessa, nel corso, dell’ultimo secolo ha imparato a fare – letteralmente – i conti, trasformandosi in una scienza debole, non auto-fondata, e diventando così un po’ una sorella forse solo un po’ più seria della letteratura.

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precedentemente pubblicato su “Notable”

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22 Commenti

  1. Non posso non ricordare che anche Beckett ha ampiamente utilizzato la matematica nelle sue opere. Il protagonista di “…But The Clouds…” (teleplay del 1976) estrae mentalmente radici cubiche per ingannare il tempo. Perfettamente simmetrico a questo personaggio, l’io narrante di “Assez” (prosa breve scritta dieci anni prima) che – sempre per passare il tempo – eleva numeri alla terza potenza insieme al suo compagno di viaggio (“Quanti calcoli fatti a mente insieme piegati in due! Ci capitava di innalzare alla terza potenza dei numeri ternari interi. Certe volte sotto una pioggia torrenziale. Bene o male imprimendosi a poco a poco nella memoria i cubi si accumulavano”).

    Beckett usava la matematica non solo come ingrediente narrativo, ma come vero e proprio elemento strutturale della sua scrittura. Molte delle sue piéce teatrali sono state organizzate in monologhi, dialoghi, pause sulla base di precise proporzioni matematiche.

    Un articolo (in inglese) sul rapporto tra Beckett e i numeri si può leggere qui:
    http://www.samuelbeckett.it/borriello2.pdf

  2. Bisognerebbe andare oltre questa separazione e difficoltà di comunicazione tra umanisti e matematici, perché in verità tra matematici ( e fisici) stesso non è infrequente la difficoltà a comprendersi.
    Il livello di astrazione ha raggiunto livelli molto complessi.

  3. Se devo però guardare all’analogia come possibile strumento euristico, credo che ci siano pochi eguali alle ricerche di Enzo Melandri: La linea e il circolo, studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet.
    E lo stesso Gian-Carlo Rota, matematico, capace di intrecciare matematica e fenomenologia, aprendo nuove vie.

  4. Tanto per dire: PrimI amorI, ultimi riti? E poi: Tutto, e di più sarebbe davvero una biografia (per quanto centrifuga) di Cantor?
    Sono i pretendenti letterati che sono meno seri dei matmatici (anche solo pretendenti tali), non c’è competizione di serietà fra le discipline. Ma nella matematica l’inesattezza è intollerabile.

  5. O matematiche severe, non vi ho dimenticate da quando le vostre lezioni sapienti, più dolci del miele, filtrarono dentro il mio cuore come un’onda rinfrescante. Istintivamente aspiravo, fin dalla culla, a bere alla vostra fonte, più antica del Sole, e ancora continuo a calcare il vestibolo sacro del vostro tempio solenne, io, il più fedele dei vostri iniziati . . . . . . . . ” Isidore Ducasse, conte di Lautréamont, I canti di Maldoror, Canto secondo, ediz. it. Feltrinelli 1978, p. 101 sgg. Tutto da godere.

  6. ecco cos’è che mi ha sempre tenuta lontana dalla matematica,
    alla matematica manca l’elasticità!

    però mi piace il sapore esoterico dei numeri….

  7. Mi ha agghiacciato questa riflessione di Paolo S: “non c’è competizione di serietà fra le discipline. Ma nella matematica l’inesattezza è intollerabile”.

    La letteratura non è una disciplina. Se la letteratura ti rivela una verità, non è che quella dell’impossibilità di una unica, oggettiva, verità, anche quando sostiene il contrario. La letteratura è sempre, costitutivamente, invenzione. Perché uno scrittore può raccontare di asini che volano e di maiali che cantano, può fare cosa dell’inesistente, può scrivere seicento pagine su un respiro, ma un matematico non può sostenere che uno più uno faccia tre.

    Io sono felice che esista un posto in cui l’inesattezza sia intollerabile, e che sia la matematica e non la letteratura.

    L’oggettività assoluta, nell’arte in generale, è impossibile. Perfino la fotografia è un’interpretazione.

    Questo, un umanista serio e competente, lo sa e lo sa spiegare e dimostrare.

    E’ bello questo pezzo, Christian, molto.

  8. Qui più che un commento ci vorrebbe un convegno.

    Tante troppe cose da sottolineare e discutere (in bene e in male) sia sul post sia sugli attuali commenti al post.

    Appena usciti ho letto i “Racconti matematici” (ottima raccolta e ottima introduzione di Bartocci) e anche “Il peso dei numeri” che mi ha convinta un po’ meno sia come scrittura sia come idee ispirate alla matematica (mi sembrava tutto forzato) tranne forse la paginetta in Cornovaglia con il discorso sui frattali…

    La PRIMA cosa che però mi preme da dire è questa, quando dici a proposito del libro di Wallace: “La casa editrice Codice ha meritoriamente tradotto questi due libri,”: NO. La traduzione è piena di refusi, è un’indecenza. Nelle prime pagine si parla di “integrali” e si dice che i bambini li imparano alle scuole elementari. Allora uno pensa “ma Wallace ha bevuto??” e poi l’illuminazione mi fa capire che la parola non è “integrale” ma “intero” come NUMERO INTERO. Capit?? Hanno tradotto integer come integrale. E poi più avanti la sezione di Dedekind viene chiamata “squarcio” di Dedekind!!! Molto divertente per gli addetti ai lavori un po’ meno per chi come me voleva capire un po’ di cose di analisi avanzata grazie a un grande e divertente scrittore. Ma niente da fare, come mi posso fidare della traduzione?? E’ ovvio che fin quando si tratta di capire che parla di interi e non di integrali ci arrivo, ma quando passa a robe più astruse rischio veramente di seguire un cieco nelle paludi… Ho dato il libro a un mio amico matematico e gli ho chiesto di sottolinearmi tutti gli errori per poi poterlo leggere con qualche garanzia in più.

    La colpa non è tutta del traduttore ma è della casa editrice che per risparmiare non paga un revisore, è ovvio che nessuno ha dato né una prima né una seconda lettura al testo tradotto.
    Nessun merito agli incompetenti. Super figure de merd per l’Italia e a Wallace io ‘sta storia la direi.
    Tradurre è un po’ tradire ma in questo caso è tredire trentadire quarantadire e via col vento

    fem

  9. dimenticavo: complimenti a Raimo per il pezzo che è molto interessante e ha tantissimi riferimenti e spunti da seguire, come anche i commenti.

    Ci sentiamo presto

    fem

  10. È il termine “scienze esatte” che mi insospettisce sulle prime, come se esistessero scienze “non esatte”, come se le cosiddette “scienze umane” fossero davvero scienza e non semplici “attività”, come le chiama Raimo.
    La letteratura è senz’altro un campo di “attività” legato all’uso e alla significanza delle parole, all’esperienza vitale dell’uomo, al suo racconto e possibilità di condivisione.
    La matematica è un linguaggio simbolico per descrivere il mondo e prevederlo, è condivisibile e riproducibile, dunque è disciplina ed è scienza.
    La matematica è inoltre un tipo, l’unico tipo di cui disponiamo, di descrizione del mondo estranea a qualsiasi forma di soggettività ed è preziosa per questo.
    La letteratura la può solo, eventualmente, raccontare come può raccontare qualsiasi altra cosa o vicenda.
    Ma non si parli per favore di conoscenza “umanistica”, non si rispolveri il vecchio dualismo da liceo: la conoscenza è solo scientifica, il resto, tutto il resto, è solo narrazione.
    Forgheddabaudidda, of course.
    Di sorellanza davvero non parlerei, poi.

  11. E’ la seconda volta che mi ritrovo assolutamente allineato con Tashtego; potrebbero servirmi degli antidepressivi fra non molto…

    Per gli scettici, consiglierei Enigmi e Giochi Matematici di Martin Gardner; lo pubblicò Mondadori parecchi anni fa negli Oscar. Ora non ho idea, ma a trovarli (sono 4 volumi) un’ottima lettura.

    Blackjack.

  12. la traduzione di strazzeri del libro di wallce è vero lo rende quasi un non libro, strazzeri già azzerò il valore dei diari di kurt cobain nei quali traduceva the holes i buchi. il carattere meritorio non sta è vero nel caso di wallace nell’esito.

  13. La conoscenza sarebbe solo scientifica? non credo proprio. Anche con la poesia e la letteratura si conosce! In quanto al fatto che la matematica descrive un mondo estraneo alla soggettività, non è quello che pensano tanti matematici illustri e no, né la letteratura di filosofia della scienza. La matematica è piena di teoremi puramenti astratti che descrivono mondi non ancora trovati. La matematica come la fisica è ricchissima di solo teoria. Inoltre esistono molte matematiche possibili. Già Spengler in il Tramonto dell’Occidente, lui che era un matematico, dedica un capitolo alle matematiche alternative. Cmq basterebbe leggere gli studi di un grande matematico che ha insegnato al MIT, Gian Carlo Rota

  14. Sulla questione segnalo anche il fondamentale: “Il teorema di Queneau. Il concetto matematico come struttura narrativa e investimento estetico”, di Andrea Pasquino, Liguori 2003. Vero romanzo di famiglia delle sorellastre, a volte gemelle interscambiabili, nell’ambito della letteratura francese.

  15. Come ha detto un grande matematico, Imre Toth, la matematica si può comparare solo all’arte, perché ci sono solo due forme di sapere esatto: gli Elementi di Euclide e Madame Bovary di Flaubert.
    E naturalmente, Toth spiega perché è così, la sua non è una boutade.
    Che dire di Aristotile che oltre a descrivere un quadrato normale descrive un quadrato impossibile? Gli elemti di euclide accanto alla geometria di lobacevskij e ognuna di queste specie geometriche ha pari diritto di cittadinanza come la verità e la realtà.
    Agli inizi del 900 ricomparve la geometria non euclidea e incontrò resistenze, ora è una scienza rispettabile.
    Il celebre fisico Eugen Wiegener ha posto il problema dell’applicabilità della matematica al mondo reale, sottolineando che è un mistero. Si fabbricano migliaia di teorie e non si sa mai quali avranno successo.
    Non è così anche in letteratura? Poi esce LA Casta e occupa tutto lo spazio della politica.
    Intanto la teoria dei numeri che è una delle più lontane e astratte, dispone di grande utilità, poichè è utilizzata nella decodifcazione delle scritture in codice. Fu grazie ad alan turing che gli inglesi poterono decifrre il codice segreto della Wehrmacht. Ma si trattò di un risultato accidentale., imprevedibile.
    Edgar allan poe utilizzò per la prima volta le parole consistency and simmetry per due mondi opposti

  16. premesso che non ho capito bene le tesi del pezzo di Raimo (ma forse era soltanto una recensione di un gruppo di testi legati tematicamente), mi sento di poter dire che il passaggio qui sotto è un po’ inesatto:

    “occorre constatare che questa poca rilevanza culturale della matematica non va addebitata solamente alla pigrizia intellettuale da parte degli scrittori, ma è anche l’esito di una reale separazione avvenuta nel Novecento tra la conoscenza scientifica e il nostro senso comune”

    la conoscenza scientifica,così come si è venuta a configurare nella nostra cultura, è in conflitto con il senso comune da secoli e secoli prima di goedel e compagnia bella. la “poca rilevanza culturale della matematica” (ma sarebbe più opportuno dire “la poca rilevanza letteraria della matematica”)
    ha, almeno in italia, cause ben più prossime ed estrinseche: le riforme dell’insegnamento superiore e universitario, lo storicismo, l’idealismo e blablablablabla; e solo dopo: la specializzazione delle conoscenze, in generale.

    va anche detto, parafrasando raimo, che i matematici e gli scienziati in generale “hanno in genere una preparazione letteraria che non supera quella di un mediocre liceo, non si vergognano di considerarsi degli incolti nelle scienze umanistiche o manifestano al massimo un interesse da adolescenti, una sorta di fandom reverenziale”. e questo non credo vada ascritto al fatto che la letteratura è andata separandosi dal “nostro senso comune”.

    non capisco il senso dell’operazione di questa casa editrice che affida a scrittori di talento il compito di narrare la storia dei matematici etc. A meno che questi scrittori di talento non siano anche preparati scientificamente (se è così, dimenticate la domanda), la cosa ha tanto senso quanto reclutare grandi matematici per analizzare i compiti di analisi di Gadda, le equazioni di Dio di Jarry, o i quaderni delle medie di Montale. A che serve? Un equivoco simile è questo: aspettarsi da Odifreddi – qua matematico – delle riflessioni filosofiche che ne so, sulla religione, o anche solo un articolo giornalisticamente decente.

    saluti,
    lorenzo carlucci

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